192_L'ULTIMO APACHE (Apache). Stati Uniti 1954; Regia di Robert Aldrich.
Fa sempre un certo effetto considerare che L’ultimo Apache di Robert Aldrich sia un
film del 1954. Spesso si leggono ancora commenti che attribuiscono al western revisionista (quello a cavallo tra gli
anni 60 e 70) la rivalutazione delle ragioni delle indiani, quando invece già
il genere nella sua forma classica negli anni 50, aveva avuto tantissimi esempi
di questo tipo. In questo senso l’ottica del film di Aldrich è incredibilmente
moderna, perché va a porre sotto l’obiettivo della macchina da presa un
guerriero della tribù degli Apache, che erano certamente tra i più bellicosi
tra i pellerossa. Se in molti casi non si può sapere se la convivenza tra
bianchi e indiani fosse possibile (quello che si sa è che non fu nemmeno
provata), si può obiettivamente dire che con gli Apache, che vivevano di
scorrerie, era praticamente impossibile. Tra tutte le tribù di indiani,
insomma, quella degli Apache è la meno idonea nell’ottica di ipotizzare un
diverso corso degli avvenimenti storici, per immaginare cioè una pacifica
convivenza tra bianchi e nativi fianco a fianco. L’idea alla base del soggetto
(tratto dal romanzo Bronco Apache di
Paul I. Wellman) è quindi quasi provocatoria: in sostanza quello che si
evidenzia è che neppure un apache preferirebbe morire piuttosto di adeguare il
proprio modo di vivere, ma sarebbe necessario dargli la possibilità di farlo. E
se nel romanzo, Massai (interpretato nel film da un granitico Burt Lancaster)
muore, colpito allo spalle dallo scout apache Hondo (nel film Charles Bronson),
la produzione hollywoodiana smorzò
questo tragico finale con un happy ending
che per altro cambia poco la sostanza delle cose. Il film non può certamente
essere inteso come un documentario e, piuttosto, a fronte delle disastrose
condizioni di vita dei pellerossa ai tempi di uscita del film nelle sale, il
lieto fine evidenzia in modo eclatante cosa sarebbe potuto succedere se, ai
tempi della conquista del west, la politica di colonizzazione dell’ovest fosse
stata diversa.
Detto quindi della modernità del punto di vista sulla vicenda
storica (da non prendere alla lettera, naturalmente, ma solo come spunto di
riflessione), il film rivela altri aspetti che alimentano questa
caratteristica; ad esempio una certa aderenza alla realtà nel mostrare gli
aspetti culturali dei nativi. Se gli Apache sono mostrati in buona sostanza
nelle loro caratteristiche di nomadi dediti alla caccia, alla guerra, alle
scorrerie, i Cherokee, che nel film consigliano a Massai di convertirsi
all’agricoltura, erano effettivamente una tribù civilizzata, proprio come
mostrato nel lungometraggio. Insomma, anche da questi dettagli si capisce
l’attenzione che Aldrich e i suoi collaboratori profusero nell’opera, cercando
di rendere un quadro generale di stampo progressista,
ma in un’ottica che non travisasse in modo fazioso la Storia. Al netto di questi
lodevolissimi aspetti, il film è anche (e soprattutto) un solido western, che
la superba e calda fotografia di Ernst Laszlo contribuisce a rendere
perfettamente classico.
Come del
resto un ottimo contributo lo dà la mano in regia di Aldrich, agile, snella,
dinamica, ma mai frenetica; o l’imponenza di Lancaster, che è il solito
trattore umano capace di reggere il film anche da solo, sebbene la presenza di
Bronson o di John McIntire siano certamente un vantaggio. E che dire di quella
di Jean Peters, certamente troppo hollywoodiana per interpretare la parte di
Nalinle, la squaw apache di Massai, ma in questo senso si può considerare una
felice e condivisibile licenza poetica.
Jean Peters
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