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lunedì 13 agosto 2018

L'ULTIMO APACHE

192_L'ULTIMO APACHE (Apache). Stati Uniti 1954;  Regia di Robert Aldrich.

Fa sempre un certo effetto considerare che L’ultimo Apache di Robert Aldrich sia un film del 1954. Spesso si leggono ancora commenti che attribuiscono al western revisionista (quello a cavallo tra gli anni 60 e 70) la rivalutazione delle ragioni delle indiani, quando invece già il genere nella sua forma classica negli anni 50, aveva avuto tantissimi esempi di questo tipo. In questo senso l’ottica del film di Aldrich è incredibilmente moderna, perché va a porre sotto l’obiettivo della macchina da presa un guerriero della tribù degli Apache, che erano certamente tra i più bellicosi tra i pellerossa. Se in molti casi non si può sapere se la convivenza tra bianchi e indiani fosse possibile (quello che si sa è che non fu nemmeno provata), si può obiettivamente dire che con gli Apache, che vivevano di scorrerie, era praticamente impossibile. Tra tutte le tribù di indiani, insomma, quella degli Apache è la meno idonea nell’ottica di ipotizzare un diverso corso degli avvenimenti storici, per immaginare cioè una pacifica convivenza tra bianchi e nativi fianco a fianco. L’idea alla base del soggetto (tratto dal romanzo Bronco Apache di Paul I. Wellman) è quindi quasi provocatoria: in sostanza quello che si evidenzia è che neppure un apache preferirebbe morire piuttosto di adeguare il proprio modo di vivere, ma sarebbe necessario dargli la possibilità di farlo. E se nel romanzo, Massai (interpretato nel film da un granitico Burt Lancaster) muore, colpito allo spalle dallo scout apache Hondo (nel film Charles Bronson), la produzione hollywoodiana smorzò questo tragico finale con un happy ending che per altro cambia poco la sostanza delle cose. Il film non può certamente essere inteso come un documentario e, piuttosto, a fronte delle disastrose condizioni di vita dei pellerossa ai tempi di uscita del film nelle sale, il lieto fine evidenzia in modo eclatante cosa sarebbe potuto succedere se, ai tempi della conquista del west, la politica di colonizzazione dell’ovest fosse stata diversa. 

Detto quindi della modernità del punto di vista sulla vicenda storica (da non prendere alla lettera, naturalmente, ma solo come spunto di riflessione), il film rivela altri aspetti che alimentano questa caratteristica; ad esempio una certa aderenza alla realtà nel mostrare gli aspetti culturali dei nativi. Se gli Apache sono mostrati in buona sostanza nelle loro caratteristiche di nomadi dediti alla caccia, alla guerra, alle scorrerie, i Cherokee, che nel film consigliano a Massai di convertirsi all’agricoltura, erano effettivamente una tribù civilizzata, proprio come mostrato nel lungometraggio. Insomma, anche da questi dettagli si capisce l’attenzione che Aldrich e i suoi collaboratori profusero nell’opera, cercando di rendere un quadro generale di stampo progressista, ma in un’ottica che non travisasse in modo fazioso la Storia. Al netto di questi lodevolissimi aspetti, il film è anche (e soprattutto) un solido western, che la superba e calda fotografia di Ernst Laszlo contribuisce a rendere perfettamente classico

Come del resto un ottimo contributo lo dà la mano in regia di Aldrich, agile, snella, dinamica, ma mai frenetica; o l’imponenza di Lancaster, che è il solito trattore umano capace di reggere il film anche da solo, sebbene la presenza di Bronson o di John McIntire siano certamente un vantaggio. E che dire di quella di Jean Peters, certamente troppo hollywoodiana per interpretare la parte di Nalinle, la squaw apache di Massai, ma in questo senso si può considerare una felice e condivisibile licenza poetica.



Jean Peters








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