200_COSMOPOLIS . Canada, Francia, Italia, Portogallo 2012; Regia di David Cronenberg.
Nessun dubbio, stavolta: Cosmopolis appare da subito come un
tipico film di David Cronenberg. Non uno dei suoi più semplici, onestamente.
Siamo dalle parti de Il pasto nudo,
di Crash, di Videodrome. Un film spiazzante, dunque; dopo quarant’anni di cinema
cronenberghiano, evidentemente,
ancora non siamo preparati alla sua prossima opera. Così la domanda giusta
stavolta non è “ma è un film di
Cronenberg?”, (interrogativo legittimo per altri lavori recenti del
regista), ma è “perché il canadese ha
fatto questo film?” (o se preferite, la domanda giusta potrebbe essere
quella che si sono posti i pochi spettatori presenti in sala: “perché sono venuto a vedere
questo film?”). Rispondendo a questi ultimi: non certo per vedere un film bello nel senso classico od
hollywoodiano del termine; ma quand’è che il regista canadese ha atteso le aspettative del
grande pubblico?
Juliette Binoche
No, non si va a vedere un film di
Cronenberg per divertirsi, né per passare una serata spensierata. Si vede un
film di Cronenberg per tornare coi piedi per terra; qui, ora. L’inesorabile
puntualità: questa è la risposta, forse la parola chiave di tutto il cinema di
Cronenberg, e anche di questo Cosmopolis.
Vi sembra un periodo facile, questo? Un tempo chiaro e privo di incognite?
Mentre siamo intenti a decidere se cambiare il nostro iPhone8 per il nuovo iPhoneX,
le notizie ci martellano che siamo prossimi al baratro finanziario globale.
Cosa c’è di comprensibile in una situazione del genere? Non aspettatevi,
allora, dal miglior interprete della realtà contemporanea, un film banalmente
decifrabile.
Le terribili contraddizioni del
mondo moderno sono la struttura portante del film: la nostra società, basata
sulle comunicazioni, è in realtà un insieme di individui che non sono in grado
di comunicare tra loro. Certamente le fortune finanziarie di Eric Parker, il
giovane uomo d’affari protagonista, un inespressivo ma efficace Robert
Pattinson, sono basate su una vasta rete di comunicazioni, che infatti gli
permettono di intuire in anticipo le sorti della finanza globale. Ma i dialoghi
del film, forzatamente artificiosi, specie nella prima parte, riflettono
l’incapacità delle persone di comunicare veramente tra loro. Nell’era della
comunicazione globale, la comunicazione tra individui è morta.
Il controllo totale, esercitato da
reti informatiche che calcolano, prevedono, influenzano, determinano i destini
delle masse, è messo in discussione dall’anarchica protesta caotica,
altrettanto astratta e priva di etica morale, rappresentata dal movimento dei ratti. Siamo sull’orlo del
baratro, ma come Parker viaggiamo nelle nostre limousine insonorizzate,
asettiche, avveniristiche, mentre intorno a noi scoppia il caos.
A questo proposito, a livello
visivo, notevole è la messa in scena dell’incedere di Parker nella
limousine/astronave: sembra la scenografia di certi film ambientati nel futuro
prossimo venturo, un mix tra accessori futuribili e ambientazioni da
re-imbarbarimento. Soltanto che qui l’ambientazione non è nel futuro, né prossimo né remoto: è il presente quello che vediamo, tutto assolutamente,
plausibilmente contemporaneo.
Sono molti i temi e tanta e la
carne al fuoco che, con spietato rigore, inchiodano le contraddizioni del nostro
oggi. Ma la cosa più importante del
film rimane la scelta del protagonista di darci
un taglio. Già, proprio l’ineluttabile esigenza di Parker di sistemarsi i
capelli, metterà in moto una personale discesa di ritorno del protagonista
verso la propria condizione umana. Nella società moderna, dominata dalle
sovrastrutture, Parker di spoglia di tutto, cominciando un percorso di
sottrazione che elimina via via tutto ciò che è superfluo per un
ritorno alle origini (via gli occhiali, la cravatta, la giacca, la moglie, la
guardia del corpo, la limousine). Ma ad attenderlo non c’è nessun paradiso
perduto: il parrucchiere che lo aspetta nel vecchio quartiere d’origine è
incapace anch’egli di imbastire un valido dialogo e il suo taglio sarà
maldestro e lasciato a metà. L’incontro cruciale è con la sua nemesi: il
disordinato e caotico loser che lo vuole morto in quanto vertice
della piramide sociale che opprime le masse. Non si preoccupino i grillini
italiani, nonostante le evidenti similitudini con un adepto del movimento a
cinque stelle, Paul Giamatti/Benno non ha una funzione di critica politico
sociale (almeno non esplicita, sebbene certamente calzante); si potrebbe dire
che, quasi al contrario, permette piuttosto a Parker di compiere il
definitivo taglio, il passo decisivo: riappropriarsi della
propria umanità attraverso il riconoscere i propri umani limiti,
(l’imperfezione della prostata), il proprio odore (vero e proprio sottotema
durante tutta la durata del film) o il dolore di un colpo di pistola alla mano.
Nell’attesa di un altro colpo di pistola, quello definitivo, alla nuca, in
quella che è la magistrale scena finale, sospesa un attimo prima di quello che
sembra l’unico possibile ritorno all’umanità dell’uomo moderno: la propria
morte.
Sarah Gadon
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