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venerdì 17 agosto 2018

LA FORMA DELL'ACQUA - THE SHAPE OF WATER

194_LA FORMA DELL'ACQUA- THE SHAPE OF WATER (The shape of water). Stati Uniti 2017;  Regia di Guillermo del Toro.

“Mentre guardavo la creatura nuotare sotto Julie Adams, pensai: «spero che finiscano insieme»”.
Eccola, dunque, l’idea alla base di La forma dell’acqua – The shape of water di Guillermo del Toro. Semplicemente che la ragazza rapita dalla creatura, non abbia paura a prescindere nel vederne l’aspetto mostruoso ma, come dovrebbe essere quasi logico, provi attrazione per qualcosa di diverso da sé. La creatura a cui fanno riferimento le parole di Guillermo del Toro, il regista di La forma dell’acqua, è ovviamente la protagonista de Il mostro della Laguna Nera, piccolo capolavoro horror fantascientifico di quel sublime maestro che era Jack Arnold, e che del Toro vide quando aveva sei anni. E’ quindi questo il punto nevralgico del film, la storia d’amore tra la bella e la bestia, e per tutto il resto il regista pesca nel suo immaginario per riempire, proprio come si fa con l’acqua nei più disparati recipienti, il suo film. La scena finale con l’abbraccio subacqueo ricorda e ribalta quello in Splash - Una sirena a Manhattan (1984, di Ron Howad), ma le immagini fluttuanti rimandano anche alla pittura, ad esempio ad Ophelia (1890) di Paul Steck, la condizione della protagonista femminile, Elisa (Sally Hawkins) somiglia a quella del personaggio principale di Il favoloso mondo di Amélie (2001, di Jeanne -Pierre Jeunet).

E poi ci sono i semplici riferimenti, da quelli solo accennati come per La Fabbrica di cioccolato (con il quale il film di del Toro condivide il gusto eccessivo), a quelli più espliciti, come i musical alla TV con Berry Grable, Shirley Temple, Alice Faye, Carmen Miranda (che sul piccolo schermo crearono un mondo sgargiante e svincolato dalla realtà in modo apparentemente simile agli universi che crea il regista messicano), al cinema sotto casa di Elisa, che proietta sempre La storia di Ruth (che racconta della stirpe divina che discenderà dalla donna, e il divino è il tema dell’opera di del Toro) e Mardi Gras che ci rimanda al carnevale di New Orleans, un altro universo di eccessi, colori, musica, vita. 
Insomma, qualunque spunto è buono per del Toro per completare il suo puzzle, composto da elementi anche fortemente eterogenei tra loro, come ad esempio le ambientazioni anni 60 e quelle più moderne della sede dell’agenzia pubblicitaria dove si reca il vicino di casa di Elisa, Giles (Richard Jenkins), ma in generale si tratta di una vera alluvione delle più disparate citazioni. Il regista immerge poi il tutto in una dominante verde acqua, anzi, no, turchese e, una volta creato un mondo autosufficiente, (coerente nella sua incoerenza, quanto è incoerente l’acqua che assume la forma in base al recipiente che la contiene) può inserire i riferimenti più interessanti, quelli alla realtà, senza risultare pedante. 
Il mostro non è più soltanto buono, cosa che era già intuibile (e in effetti lo stesso regista bambino l’aveva intuito) dal film di Arnold. Il mostro, il diverso, è piuttosto divino. La creatura è adorata come un dio dagli indigeni dell’Amazzonia e rivela poi davvero poteri soprannaturali (i capelli di Giles che ricrescono, le ferite che guariscono). E’ così totalmente smentito il cattivone della storia, il colonnello Strikland (Michael Shannon), che riferendosi a Zelda (Ottavia Spencer) le aveva fatto notare che se dio era fatto a immagine somiglianza dell’uomo, non avrebbe assomigliato certo a lei che era donna e per giunta di colore. 
Perché i protagonisti secondari, dopo la creatura, sono anch’essi diversi: Elisa è muta, Giles è gay, Zelda è di colore. Ma tutti e tre nel film hanno il loro momento di gloria, la capacità di superare i propri limiti, la propria natura, che rivela appunto la loro indole soprannaturale e quindi divina: se è facile cogliere la parabola alla Cenerentola nella storia tra Elisa e il suo principe, la sguattera che perde la scarpetta e trova l’amore (e in sogno arriva addirittura a cantare, proprio lei che è muta), anche Giles, sempre timoroso, si cimenta in una scena di pura azione virile, alla James Bond, e Zelda, che parla sempre, nel momento critico è capace di starsene zitta.
Non dobbiamo perciò avere nulla da temere da simili personaggi; non è il diverso, il mostro, che deve metterci paura, anche se nel laboratorio è torturato e tenuto alla catena. E quelli di cui dobbiamo aver veramente paura, non sono tanto gli Strikland, i poliziotti col manganello, ma anche e soprattutto i baristi che inorridiscono per l’avance di un gay.
Il punto non è se la creatura sia davvero divina, o addirittura sia un Dio o se Dio esista; e nemmeno se Dio sia o meno un diverso.
Dio è il diverso.




Sally Hawkins


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