194_LA FORMA DELL'ACQUA- THE SHAPE OF WATER (The shape of water). Stati Uniti 2017; Regia di Guillermo del Toro.
“Mentre guardavo la
creatura nuotare sotto Julie Adams, pensai: «spero che finiscano insieme»”.
Eccola, dunque, l’idea alla base di La forma dell’acqua – The shape of water di Guillermo del Toro.
Semplicemente che la ragazza rapita dalla
creatura, non abbia paura a prescindere nel vederne l’aspetto mostruoso ma,
come dovrebbe essere quasi logico, provi attrazione per qualcosa di diverso da sé. La creatura a cui fanno
riferimento le parole di Guillermo del Toro, il regista di La forma dell’acqua, è ovviamente la protagonista de Il mostro della Laguna Nera, piccolo
capolavoro horror fantascientifico di quel sublime maestro che era Jack Arnold,
e che del Toro vide quando aveva sei anni. E’ quindi questo il punto nevralgico
del film, la storia d’amore tra la bella e la bestia, e per tutto il resto il
regista pesca nel suo immaginario per riempire, proprio come si fa con l’acqua
nei più disparati recipienti, il suo film. La scena finale con l’abbraccio
subacqueo ricorda e ribalta quello in Splash
- Una sirena a Manhattan (1984, di Ron Howad), ma le immagini fluttuanti rimandano anche alla
pittura, ad esempio ad Ophelia (1890)
di Paul Steck, la condizione della protagonista femminile, Elisa (Sally
Hawkins) somiglia a quella del personaggio principale di Il favoloso mondo di Amélie (2001, di Jeanne -Pierre Jeunet).
E poi ci sono i semplici riferimenti,
da quelli solo accennati come per La Fabbrica di cioccolato (con il quale il film di
del Toro condivide il gusto eccessivo), a quelli più espliciti, come i musical
alla TV con Berry Grable, Shirley Temple, Alice Faye, Carmen Miranda (che sul
piccolo schermo crearono un mondo sgargiante e svincolato dalla realtà in modo
apparentemente simile agli universi che crea il regista messicano), al cinema
sotto casa di Elisa, che proietta sempre La
storia di Ruth (che racconta della stirpe divina che discenderà dalla donna,
e il divino è il tema dell’opera di
del Toro) e Mardi Gras che ci rimanda
al carnevale di New Orleans, un altro universo di eccessi, colori, musica,
vita.
Insomma, qualunque spunto è buono per del Toro per completare il suo
puzzle, composto da elementi anche fortemente eterogenei tra loro, come ad
esempio le ambientazioni anni 60 e quelle più moderne della sede dell’agenzia
pubblicitaria dove si reca il vicino di casa di Elisa, Giles (Richard Jenkins),
ma in generale si tratta di una vera alluvione delle più disparate citazioni.
Il regista immerge poi il tutto in una dominante verde acqua, anzi, no, turchese e, una volta creato un mondo
autosufficiente, (coerente nella sua incoerenza, quanto è incoerente l’acqua
che assume la forma in base al recipiente che la contiene) può inserire i
riferimenti più interessanti, quelli alla realtà, senza risultare pedante.
Il mostro non è più soltanto buono, cosa che era già intuibile (e in
effetti lo stesso regista bambino l’aveva intuito) dal film di Arnold. Il mostro, il diverso, è piuttosto divino. La creatura è adorata come un dio
dagli indigeni dell’Amazzonia e rivela poi davvero poteri soprannaturali (i capelli di Giles che ricrescono, le ferite che
guariscono). E’ così totalmente smentito il cattivone della storia, il
colonnello Strikland (Michael Shannon), che riferendosi a Zelda (Ottavia
Spencer) le aveva fatto notare che se dio era fatto a immagine somiglianza
dell’uomo, non avrebbe assomigliato certo a lei che era donna e per giunta di
colore.
Perché i protagonisti secondari, dopo la creatura, sono anch’essi diversi: Elisa è muta, Giles è gay,
Zelda è di colore. Ma tutti e tre nel film hanno il loro momento di gloria, la
capacità di superare i propri limiti, la propria natura, che rivela appunto la loro indole soprannaturale e quindi divina: se è facile cogliere la parabola
alla Cenerentola nella storia tra Elisa e il suo principe, la sguattera che perde la scarpetta e trova l’amore (e
in sogno arriva addirittura a cantare, proprio lei che è muta), anche Giles,
sempre timoroso, si cimenta in una scena di pura azione virile, alla James
Bond, e Zelda, che parla sempre, nel momento critico è capace di starsene zitta.
Non dobbiamo perciò avere nulla da temere da simili
personaggi; non è il diverso, il mostro, che deve metterci paura, anche se nel
laboratorio è torturato e tenuto alla catena. E quelli di cui dobbiamo aver veramente
paura, non sono tanto gli Strikland, i poliziotti col manganello, ma anche e
soprattutto i baristi che inorridiscono per l’avance di un gay.
Il punto non è se la creatura sia davvero divina, o
addirittura sia un Dio o se Dio esista; e nemmeno se Dio sia o meno un diverso.
Dio è il diverso.
Nessun commento:
Posta un commento