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martedì 9 gennaio 2018

ERA MIO PADRE

83_ERA MIO PADRE (Road to perdition). Stati Uniti, 2002;  Regia di Sam Mendes.

Se aveva stupito tutti con il suo esordio, celebrato con l’oscar quale miglior regia, con questa sua seconda opera il regista Sam Mendes conferma tutto il talento mostrato in American Beauty. E’ un film sontuosamente bello, Era mio padre, riempie gli occhi e soprattutto lo schermo con immagini stupende, che magistralmente riproducono l’America degli anni 30 rievocando i quadri di Edward Hopper. Alcune sequenze sono poi assoluto sublime cinema, anche nel loro interpretare l’immaginario del cinema di genere più che della realtà: visivamente un’opera di rara e astratta bellezza. E proprio questa vena astratta, questo iperrealismo delle immagini del film, è una delle chiavi di lettura dell’opera. Non è solo un film noir o meglio un gangster movie, questo Era mio padre, ma un’opera più simbolica, e non c’è simbolo o immagine più potente della famiglia nei film sulla criminalità organizzata americana; e questo anche senza essere italiani o italoamericani, basta avere visto Il padrino. Il titolo italiano, che prende spunto dal finale del film, ci mette già sulla strada: il tema è il rapporto padre/figlio, giocato in doppia coppia tra i buoni Mike Sullivan Sr. (Tom Hanks) e il piccolo Michael Junior, e i cattivi Rooney, John (un Paul Newman ancora in piena forma) e il figlio già cresciuto Connor (Daniel Craig). Un legame strettissimo stringe i padri ai propri figli, un legame che può divenire straziante, un legame che prevarica qualunque ragione o morale; e questo vale sia per i buoni che per i cattivi. 


La differenza, sembra dirci Mendes, non è tanto nel come, ma nella meta che ci si prefigge; il Michael Sullivan interpretato da Tom Hanks (qui credibile anche in una veste per lui inusuale) non è migliore degli altri gangster che pullulano il film. O meglio, è il migliore, ma nell’ammazzare. Il che qualche dubbio ce lo pone su questo personaggio che, in fin della fiera, nella pellicola incarna il protagonista di un classico film di genere americano. Ci si aspetterebbe un minimo di senso etico in più, almeno stando ai canoni; ma Mendes non bara, su questo tema, tanto che il figlio a domanda risponde: ‘a chi mi chiede se Michael Sullivan era una brava persona o solo un poco di buono, io do’ sempre la stessa risposta. Dico soltanto: era mio padre’.

Ma allora, cosa differenzia Sullivan dagli altri gangster? Lo scopo, perché per i comuni gangster il loro era un lavoro, e un lavoro da tramandare ai figli; per Sullivan invece era l’unico modo conosciuto per evitare ai propri figli di ripetere la sua carriera. E sarà anche l’unico modo ma è una strada sbagliata, è una strada per la perdizione, come recita il titolo originale; ma è soprattutto una strada che sembra non avere alternative. Difatti, tutta la perfezione stilistica e formale delle immagini della pellicola ci dice proprio questo: tutto è ingabbiato in inquadrature perfette, simmetriche, astratte, simboliche, mai niente di gratuito (che in inglese si dice free, libero) e i quadri citati rimandano alle loro cornici, che tarpano ogni via di fuga.

Anche le sequenze, una su tutte quelle tra il faccia a faccia finale tra Sullivan e Rooney padre, sembrano rappresentazioni teatrali, mancano solo i tendoni del palco a contornare la scena, con i gangster che ballano come burattini sotto la pioggia d’acqua e di pallottole. E i personaggi, soprattutto Michael Sullivan padre e figlio, vengono continuamente inscatolati dalle inquadrature, da uno stipite di una porta o da un finestrino della macchina: non ci sono vie di fuga, sembra dirci questo film, l’unica strada, è quella della perdizione. Allora la strategia del padre, che protegge il figlio pur conducendocelo, per quella strada, prende valore, acquista dignità, soprattutto grazie al sacrificio finale.

Finale tragico ma liberatorio, che si annuncia con il giovane Michael che, finalmente, sbuca dal finestrino, la macchina in corsa, il vento in faccia a scompigliare un po’ la rigorosità delle scene. E un attimo prima dell’epilogo, ecco di nuovo un immagine di libertà per il giovane: mentre vediamo il padre, dietro una finestra (e quindi sempre incorniciato, imprigionato) sul riflesso del vetro si intravvede Michael che gioca su una spiaggia di uno specchio d’acqua tanto grande da ricordare il mare. Una classica immagine che evoca libertà e che non è propriamente catturata dalla macchina da presa, è solo un riflesso sfuggente: ma ci dice che, finalmente, Michael è scampato alla rigorosità senza vie di uscita che sembrava avere il suo futuro. In realtà, manca ancora l’ultima prova, quella più difficile, ma Michael potrà contare fino alla fine, fino all’ultimo respiro, sull’aiuto del padre.
Ha ragione il giovane Michael: è difficile stabilire se il suo genitore sia stato un brav’uomo o un poco di buono. 
Ma era suo padre, e lo è stato fino in fondo.




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