85_LA TORTURA DELLA FRECCIA (Run of the Arrow). Stati Uniti, 1957; Regia di Sam Fuller.
Sette anni dopo l’inatteso doppio esordio western,
il regista Samuel Fuller torna, con La
tortura della freccia, a frequentare il genere che aveva affrontato al
tempo in modo così anticonvenzionale, a tal punto che c’è chi definì i suoi
film antiwestern. E non si tratta di
un ritorno troppo conciliante, sia chiaro; Fuller rimane un osso dannatamente
duro e il suo cinema riflette, anche in questo caso, lo spinoso carattere
dell’autore americano. Pronti via e il film si apre con una sequenza tanto
magistralmente eseguita quanto cruda. Già i primi titoli di testa rivelano il
gusto spiazzante di Fuller: un carrello della macchina da presa mostra il
cadavere di un soldato sudista, poi scorre su ciò che rimane sul campo dopo la battaglia; accompagnata da
una nota della debole colonna sonora, in sovraimpressione compare la scritta Domenica delle palme, che di per sé ci
farebbe pensare ad una giornata di festa; altra nota, un filo più cupa, per la
data, 9 aprile 1865 e i pensieri
alla festa prepasquale sono già dimenticati; un ultimo rintocco, ancora un poco più grave, per conoscere anche il luogo:
Appomattox, Virginia. Per chi non
avesse colto, arriva anche l’informazione finale: l’ultimo giorno della guerra tra gli stati, e si riferisce alla
fine della Guerra Civile Americana (nota da noi come Guerra di Secessione). E
il carrello sui resti del campo di battaglia continua; dopo i cadaveri dei
caduti, un cavallo vivo, e sul cavallo un tenente unionista. La malinconica
musica non cambia, il cavaliere malconcio si regge a malapena mentre si fuma un
sigaro ma si distingue che è un giovane atletico (è Ralph Meeker, nel ruolo
del tenente Driscoll).
Si ode uno sparo, il nordista cade al suolo, la
musica continua imperterrita con il suo triste motivo. Stacco sullo sparatore:
nascosto dietro la ruota di un carro, un confederato (Rod Steiger) esce poi a
controllare l’esito del colpo; sporco, malmesso, appesantito, l’uomo si dirige
verso il caduto. In primo piano, a terra, inerme, con le braccia larghe e
distese, come un cristo sulla croce c’è il nordista; il sudista si avvicina dal
fondo, in modo guardingo, volgendosi a destra e a sinistra; alle sue spalle
l’orizzonte è tagliato obliquamente da un deciso pendio. La musica prosegue al
suo ritmo e contribuisce al crescente disagio creato mirabilmente dalla
composizione dell’immagine. Il
confederato si china sul corpo del nemico, gli rovista nella giacca,
aprendola sul petto: sembra uno sciacallo che si avventa sulla preda. E in
effetti l’uomo trova del cibo, apre il fagotto direttamente sul petto del
nordista e comincia a mangiare: una scena pesantissima, sembra che gli stia
mangiando il cuore. Poi vede il sigaro del tenente ancora acceso e si concede
anche un paio di boccate; la musica accompagna queste terribili scene senza
perdere il tono malinconico. A questo punto il sudista ha un lieve sussulto; il primo
piano ci permette di apprezzarne i lineamenti rozzi. L’uomo si china ad
ascoltare il petto del nemico; di nuovo il primo piano del sudista, sempre più
pensieroso. Quando l’uomo sembra avere un moto di disappunto, arrivano i
titoli di testa del film: invadenti, enormi, la scritta Run of the arrow copre interamente lo schermo, relegando il volto
del militare sullo sfondo indistinguibile. Adesso la musica è cambiata, ha
salutato con una violenta impennata sonora il titolo del film ma forse ci sta’
anche sottolineando l’umore del sudista quando capisce quello che deve fare,
visto che il nemico non è morto come credeva.
A sorpresa, il rozzo sudista, lo schiavista
ribelle, il brutto, tozzo, sporco soldato che spara a tradimento, porta il
nemico da lui stesso ferito per essere medicato; il dottore militare gli chiede
anche perché, visto che oltre che inusuale la cosa sembra un filo assurda. La
spiegazione del soldato O’ Meara è un po’ pretestuosa: in realtà l’uomo ha
soccorso il nemico perché non poteva fare diversamente. E qui sta la grandezza
del film di Fuller perché, nonostante il regista lo presenti come un
anti-western, come un film contro per
partito preso, quasi come un atto di protesta, in realtà il suo cinema ci dice che, di fronte ai momenti
cruciali, quando veramente conta, non abbiamo possibilità di scelta, dobbiamo
fare quello che è giusto. E si vede che è un discorso che, in un certo senso, a
Fuller scoccia fare: è un po’ come si nascondesse anche lui dietro le lettere
cubitali del titolo per evitare di mostrare il disappunto di avere un'etica da
rispettare.
Comunque siamo solo all’incipit e il film deve
continuare: il tenente nordista creduto morto (stava steso nell’erba come un
cristo e in effetti come Nostro Signore poi resuscita) ce lo ritroviamo alla
guida dei soldati durante la costruzione del forte in terra indiana. Ironia
della sorte, il colpo che lo aveva quasi steso definitivamente era stato l’ultimo
sparato prima del ‘cessate il fuoco’ definitivo: una volta recuperato, i
compari di O’Meara, lo rimetteranno in un bossolo e ne fanno regalo allo stesso
soldato sudista. Questi due elementi si ricongiungeranno alla fine del film,
non prima di aver visto O’Meara tornare al paese, senza aver accettato la
sconfitta, e quindi lasciare la sua terra alla volta dell’ovest, dove incontrare
gli idealizzati Sioux.
Questa tribù è presa a modello di riferimento tanto
da O’Meara che da Fuller che infatti ci propone, nei panni di Blue Buffalo, uno
scultoreo Charles Bronson che sprigiona potenza da ogni centimetro del
muscoloso fisico. L’impatto con gli indiani per O’Meara è però atroce in
quanto si trova a sostenere la tortura della
freccia; in realtà più che una tortura è una corsa, ma la sorte
destinata ai partecipanti è in genere ugualmente tragica. Non per l’ex
confederato, però; il quale abbiamo visto essere un uomo giusto solo quando non
ne può fare a meno (come ad esempio soccorrere un ferito, amico o nemico che
fosse) mentre abitualmente non è tipo da farsi troppi scrupoli.
Figuriamoci se, pur di salvare la pelle, non
accetta di barare ad una cosa come la corsa
della freccia, approfittando dell’aiuto di Yellow Mocassin (Sara Montiel)
una bella squaw con cui finisce per accasarsi. Il ribelle sudista che non
accetta l’Unione trova quindi riparo presso gli ultimi ribelli, i valorosi
Sioux. Potrebbe essere un scelta condivisibile per le anime inquiete: chi vuole ribellarsi può sempre trovare
approdo in qualche angolo in cui si faccia opposizione al potere costituito. E’
però una scelta di comodo e Fuller lo sa fin troppo bene; infatti, non sarà
questo il finale. Prima del quale c’è il tempo affinchè O’Meara si confronti
col capitano Clark, a cui Brian Keith presta la credibilità dell’eroe americano, onesto, leale,
comprensivo e, soprattutto, giusto. Clark metterà O’Meara faccia a faccia con le
contraddizioni dell’amato sud (lo schiavismo, la difesa del privilegio) e l’ex
confederato non sarà in grado di controbattere efficacemente. In compenso anche
al figura dell’eroe buono e giusto non convince, almeno dal punto di vista
pratico, Fuller; infatti durante una marcia in territorio indiano, il prode
condottiero, valorosomante alla testa dei propri uomini, si becca nel petto una
freccia di Lupo Errante, un bellicoso Sioux, ed esce mestamente di scena. O’Meara
cattura e punisce Lupo Errante con la
corsa della freccia, una punizione che è anche una sorta di vendetta, visto
che era stato proprio questi a infliggere tale supplizio all’ex confederato.
E’ giunto però il momento di riannodare i fili
della trama e, quindi, ripetizione per ripetizione, anche questa volta il
sadico rito viene interrotto, sebbene in modo diverso: se prima la squaw aveva
salvato O’Meara, stavolta è Driscoll, l'ufficiale ferito all'inizio del film, che si intromette uccidendo il fuggivo,
nell’intento di vendicare il capitano Clark. C’è quindi una sostanziale
differenza nelle due interruzioni: la donna indiana salva il bianco; l’uomo
bianco uccide invece il sioux. Tornato così alla ribalta, il tenente Driscoll assume
il comando delle operazioni militari americane spostando la prevista
costruzione del Forte in pieno territorio Sioux. O’ Meara prova a mediare le
posizioni ma non può evitare lo scontro; Driscoll finisce catturato e, oltre
ad essere un nemico, deve anche espiare con una punizione severissima l’aver
interrotto la corsa della freccia:
verrà scorticato vivo. O’meara non riesce però a sopportare la vista di una
simile barbara tortura e, impietosito per la sofferenza dell’ufficiale,
caricato il fucile con la vecchia pallottola, proprio quella che aveva già
usato per sparare a Driscoll, fa fuoco e stavolta lo uccide. Con questo gesto
di umana pietà, uccidere un nemico pur di non vederlo soffrire inutilmente
(sarebbe comunque morto), O’meara sancisce la distanza tra sé e gli indiani, di
cui non può, anche volendo, fare parte. Masticando amaro, il bravo soldato
O’meara/Fuller torna, malconcio e trasandato, al suo paese: gli Stati Uniti
d’America.
Sara 'Sarita' Montiel
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