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venerdì 25 luglio 2025

CORALBA

1703_CORALBA , Italia 1970. Regia di Daniela D'Anza

Il successo di Melissa, sceneggiato trasmesso dalla RAI nel 1966, indusse i vertici dell’emittente nazionale a ripetere la formula con i medesimi ingredienti. Si ipotizzò quindi un nuovo «originale televisivo» con Daniele D’Anza in regia e Rossano Brazzi protagonista di una vicenda che lo mettesse al centro di un intrigo angosciante. In sostanza, una situazione più in linea con i gusti del pubblico italiano rispetto alle preferenze degli spettatori inglesi, appassionati del giallo classico. In effetti il citato Melissa, come molti altri sceneggiati dello stesso genere, era tratto da un testo di Francis Durbridge, autore inglese e vero specialista in soggetti gialli per la televisione. Quelli inglesi erano film televisivi di una manciata di puntate della durata di mezz’ora circa, che venivano trasmesse verso le 19 e vertevano unicamente sul meccanismo giallo. Erano, in buona sostanza, degni eredi della corrente deduttiva del personaggio di Sherlock Holmes o dei romanzi di Agata Christie, numi tutelari della scuola anglosassone del genere. In Italia i dirigenti RAI avevano esigenze leggermente diverse, tanto per cominciare c’era da riempire la serata del dopo cena, con un racconto filmico quindi più corposo; inoltre, l’aspetto dei protagonisti doveva essere più sofferto e appassionato per coinvolgere meglio gli spettatori, per via della loro natura latina. E, forse, c’era anche una sorta di funzione catartica da soddisfare, per via della contingente situazione nel Belpaese in quelli che stavano già cominciando a divenire i famigerati «Anni di Piombo». I soggetti di Durbridge vennero quindi ampliati, inserendo personaggi e dando maggiore spazio all’approfondimento psicologico dei vari protagonisti in modo da soddisfare le citate esigenze. Nel 1970 si decise però un ulteriore passo in avanti: il soggetto sarebbe stato scritto ex-novo da un autore italiano, Biagio Proietti, per cercare una via autonoma anche su questo terreno tipicamente britannico. 

Proietti, all’epoca, era un giovane autore coinvolto nel mondo cinematografico e fu in quell’ambito che venne contattato da Rossano Brazzi e da suo fratello Oscar, produttore di Coralba, per stendere un corposo soggetto prendendo a modello il precedente esempio di Melissa, il citato sceneggiato RAI del 1966. D’Anza, il regista, trovò subito sintonia con Proietti e il suo testo, e se ne servì per una messa in scena di alto profilo: uno sceneggiato che più che ai suoi predecessori, guardasse direttamente al cinema sul grande schermo. Ma non al nostrano cinema «di genere», ad esempio il thriller all’italiana, che al tempo andava tanto in voga e a cui si possono ascrivere solo alcuni accenni, come la figura della presunta signora Schneider (Germana Paolieri), la ricattatrice che si nasconde dietro gli occhialoni scuri. Ha infatti ragione Mario Gerosa, quando nel suo prezioso saggio dedicato a Daniele D’Anza, coglie le analogie d’impostazione scenica generale tra Coralba e il cinema di spionaggio, altro «genere» britannico per eccellenza. [Mario Gerosa, Biagio Proietti, Daniele D’Anza, Edizioni Il Foglio, Piombino, 2017, pagine 91 e seguenti]. L’idea dell’intrigo nel cui immergere lo spettatore, attraverso l’identificazione con il protagonista, il dottor Danon (Rossano Brazzi), ha però un’impostazione, per così dire, metalinguistica, a dimostrazione dell’ambizioni dello sceneggiato. Se la storia di spie rimanda direttamente al cinema inglese del tempo, la vicenda è perlopiù ambientata ad Amburgo, in Germania, ma ci sono passaggi anche a Ginevra, Venezia e Chamonix. Il protagonista è un dottore italiano, il che agevola l’immedesimarsi del pubblico RAI, ma il contesto in cui si muove è totalmente estraneo a nostro consueto mondo, sebbene molti precedenti sceneggiati erano ambientati all’estero, ad esempio proprio in Melissa l’azione si era svolta a Londra. 

Ma per Coralba si effettua un lavoro più specifico, si cerca di far passare l’idea di un contesto spiazzante, sfuggente, non omogeneo o coerente come un’ambientazione in questa o quella specifica città o nazione. Non a caso la sigla iniziale, che scorre sulle immagini delle acque del porto di Amburgo, un luogo fluttuante e che non dà riferimenti solidi, è accompagnata da Goin’out of my head cantata da Frank Sinatra, uno dei massimi esponenti della musica americana e quindi totalmente estraneo ad ogni altro elemento della vicenda. A confortare quest’impressione, la sigla finale, Splendido, [di Daniele D’Anza, Biagio Proietti e Gigi Cichellero] è sì in italiano ma è però cantata da Petula Clark, al tempo notissima interprete britannica che conferisce al brano il tipico accento inglese. Anche la composizione del cast non offre un riferimento univoco: Brazzi è certamente un volto noto ai telespettatori, così come Glauco Mauri (nel ruolo del commissario Lang), mentre per trovare un altro interprete abituale degli sceneggiati televisivi dobbiamo aspettare la comparsa di Carlo Hintermann per un ruolo marginale, il compagno della finta signora Schenider. Nonostante sia tolta di scena relativamente in fretta –ma va detto che ritorna puntualmente nella sigla finale di ogni puntata– ha lasciare un segno magnetico, per via della bellezza, e sfuggente, del resto non è quasi mai in scena, è Valérie Lagrange (è Helga Danon, la moglie del protagonista). La Lagrange era una cantante e attrice francese praticamente sconosciuta in Italia ed è perfetta per interpretare il ruolo di una donna che si rivela non essere quel che poteva credere tanto il marito, il dottor Danon, quanto lo spettatore. Il resto del cast sottolinea il carattere internazionale dell’opera: Michael Berger (è Tauberg), Martine Redon (è Vanessa), Wolfgang Stumpf (è l’avvocato Zimmermann) e Paul Glawion (è il commissario Ansen). In un simile contesto, la presenza di artisti del Belpaese nel cast, oltre ai due principali protagonisti, Danon e Lang, è rafforzata da un attore noto solo nel cinema «di genere», Venantino Venantini (è il dottor Bauer), e da Mita Medici (è Deborah, figlia del dottor Danon), all’epoca attrice in rampa di lancio e qui all’esordio televisivo. Già dall’estrema attenzione con cui sono curati questi dettagli alla base dello sceneggiato ci dice che Coralba è un prodotto di alta scuola, destinato al successo e a rimanere nella storia della televisione italiana come uno dei punti di svolta. Perché, a differenza dei tipici sceneggiati RAI, Coralba rende manifesto e clamoroso il distacco dal tipico registro recitativo di marca teatrale che aveva da sempre caratterizzato queste produzioni. D’Anza, come detto, prende il cinema del grande schermo come riferimento, come testimoniano le tantissime scene girate all’aperto –ci sono anche azioni di puro intrattenimento come la scazzottata, l’indagine peregrina per mezza Europa, l’attenzione alle automobili, tutti cliché del cinema di cassetta italiano e non – e anche l’uso del colore, quando in Italia la TV era ancora in bianco e nero, sottolinea le ambizioni di Coralba. In un simile contesto, gli interpreti recitano con un tono meno spiccato rispetto a prodotti analoghi, non dovendo supplire le carenze di una regia che, in questo caso, è di livello cinematografico. Il tutto per una confezione formale che, ad un ipotetico spettatore a cui dovesse capitare di assistere ad uno spezzone dello sceneggiato, lo farebbe scambiare quasi sicuramente per un film per il grande schermo che sta passando in televisione. Per quel che riguarda l’intrigo giallo, Proietti fa un ottimo lavoro, sovrapponendo sostanzialmente due trame gialle, stratagemma utilizzato spesso anche da Durbridge per creare un labirinto narrativo che offra sempre più di una apparente strada da seguire verso la soluzione. In questo caso, come base dell’intrigo abbiamo un ricatto ordito ai danni del dottor Danon, reo di aver causato la morte di un ragazzino somministrandogli il farmaco Coralba non ancora testato. In realtà le cause della morte del giovane non sono accertate e semmai il tentativo di Danon fu un atto di coraggio; che tuttavia gli morde ancora la coscienza. Non sembrano di quell’avviso, ovvero che il dottore sia pentito o comunque in sofferenza, l’uomo e la donna che decidono di sottoporlo ad un ricatto che non ha come unico scopo quello di spillargli denaro ma, anche e soprattutto, distruggerlo. Su questo primo meccanismo giallo se ne innesta un altro ordito da un altro dei personaggi della vicenda che, venuto a conoscenza del ricatto, decide di ingarbugliare ulteriormente la matassa per uscirne come unico vincitore, sfruttando il lavoro preparatorio dei, chiamiamoli così, concorrenti. È evidente che, se ci sono più personaggi che si muovono di nascosto, spesso senza conoscere gli uni le mosse degli altri, poi si vengano a verificare passaggi narrativi incomprensibili, per chi, come lo spettatore, è completamente estraneo agli eventi. 

La capacità di Proietti, ben coadiuvato poi dallo stesso D’Anza e da Belisario Randone in sceneggiatura, è quella di lasciare comunque sempre una possibile soluzione del mistero, che varia di volta in volta, in controluce, in modo da solleticare l’attenzione e la curiosità nello spettatore. Uno stile tipico di Durbridge e che forse gli autori italiani non riescono a replicare alla perfezione ma, semmai, ne forniscono una versione più propria, più sofferta e angosciata. In effetti, se il protagonista è il dottor Danon interpretato da Brazzi, è evidente che il ruolo dei commissari sia altrettanto importante. È in effetti significativo che i poliziotti che indaghino siano due, del resto tutta la storia è duplice: dal citato doppio intrigo giallo, alle due donne bionde assassinate con lo stesso cappotto a quadri, alla doppia vita di Helga/Olga, al dualismo tra la stessa Helga e Deborah, fino ai commissari Lang e Ansen. Quest’ultimo, interpretato dal teutonico Paul Glawion, è il tipico poliziotto duro e inflessibile che applica la Legge senza curarsi troppo dei risvolti umani; del resto l’interprete è tedesco, mentre il suo collega, più attento all’aspetto psicologico, ha il volto espressivo di Glauco Mauri, uno dei più bravi tra gli attori degli sceneggiati dell’epoca. Tuttavia Coralba è un film che non cerca soluzioni semplici e men che mai si rifugia negli stereotipi. Come detto, la storia è ambientata ad Amburgo, in Germania, e anche il commissario interpretato da Mauri è giocoforza tedesco: il suo nome è Lang, evidente omaggio al grande Fritz Lang, regista che riusciva a far coesistere nelle sue opere assoluto rigore morale e pulsante e viva umanità. Proietti raccoglie quindi la lezione di Durbirdge, ma per adeguarla al pubblico italiano, prova a dargli maggiore spessore ispirandosi a Lang che, in senso assoluto, resta un autore inarrivabile. In questo senso si spiega l’amaro finale –forse anche eccessivamente pessimista, se preso alla lettera– che potrebbe voler dire che il delitto, come la vita, è qualcosa di più profondo di un semplice gioco dove si deve scoprire il colpevole. Da un punto di vista tecnico-narrativo i passaggi chiave sono due: uno quasi in avvio, quando Danon si tradisce sulle scale della casa dove avviene il delitto della Schneider, e la faccenda dell’orologio di Vanessa inserito per errore nei gioielli di Helga. Il primo dei momenti rivelatori è molto interessante perché il dottore protagonista, in effetti, compie una gaffe, salendo le scale davanti ai due commissari, che rivela come stia mentendo. Ma, e questo è l’aspetto più importante, in realtà, come capisce argutamente Lang, questo suo passo falso sarà l’indicatore della sua innocenza e non della sua colpevolezza. Nello sceneggiato, quindi, viene meno un elemento tipico della narrativa gialla, ovvero che chi dice la verità è innocente e chi mente è colpevole; oltretutto, il personaggio di Danon, ad un certo punto, accetta quasi con sollievo di essere il possibile, anzi il probabile, assassino della signora Schneider, pur di non essere l’assassino di sua moglie Helga. Anche in questo elemento si può notare come sia l’aspetto umano su cui si focalizza la vicenda: un omicidio è, secondo qualsiasi Legge, sempre un omicidio ma per il protagonista –e, in un certo senso, per gli autori– un conto è aver ammazzato la donna che si ama un altro una sconosciuta che, oltretutto, ti stava ricattando. Danon, che incarna il punto di vista della storia, è un personaggio sofferto, umanamente travolto da quanto gli accade ma già fortemente minato nel suo animo se si pensa al senso di colpa per la morte del povero ragazzino su cui aveva sperimentato il farmaco Coralba. Il suo principale rivale non è colui il quale organizza il ricatto, che è solo una figura  di contorno, utile per innescare una vicenda torbida e fondata su gelosia e invidia, sentimenti umanissimi. No, in contrapposizione al Danon c’è un personaggio infido e calcolatore, che scivola su un dettaglio, l’orologio di Vanessa dal cinturino difettoso, per eccesso di sicurezza, per una sciocca ricerca della perfezione formale dell’intrigo che ha ordito. Anche questa è, in un certo senso, una presa di distanze dal giallo britannico per eccellenza, quello formalmente ineccepibile ma a cui manca qualcosa che realmente appassioni, che coinvolga completamente lo spettatore. Il commissario Lang, con il suo richiamo al maestro del cinema, in tutto questo è unicamente un testimone: è in grado di reggere la complessità dell’intrigo, si accorge di dettagli come le tracce sul ponte e sull’auto, da buon detective, ma capisce anche il dramma che sta vivendo Danon. Ma è unicamente testimone, non risolutore.
L’Italia, sembrano dire Proietti e D’Anza, si può forse capire, ma non salvare.      



Valérie Lagrange 



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