1225_SHENANDOAH - LA VALLE DELL'ONORE (Shenandoah). Stati Uniti, 1965; Regia di Andrew L. McLaglen.
Figlio del mitico Victor, Andrew V. McLaglen fu buon regista, in prevalenza di solidi film d’avventura. Tra questi molti western, genere del quale dimostrò ampiamente di conoscere le coordinate. Shenandoah, la valle dell’onore è spesso considerato appunto un western, sebbene sia ambientato durante la Guerra Civile Americana nella Virginia che certo è un po’ troppo ad est rispetto al tipico territorio con cui si definisce il Far West. Siamo nel pieno della guerra, durante la seconda Campagna della Valle dello Shenandoah, e i protagonisti della nostra storia, gli Anderson, non vogliono essere immischiati nelle vicende belliche. Il che è più facile a dirsi che a farsi perché la loro fattoria è florida, ricca di cavalli e forza lavoro e man mano il conflitto si fa più incandescente questi diventano beni indispensabili per l’esercito confederato. Ma il vedovo Charlie (un James Stewart stranamente imbolsito), non intende vender cavalli né tantomeno lasciar partire qualcuno dei suoi sei figli maschi in una guerra che non sente minimamente sua. Per la verità più volte, durante lo sviluppo filmico, lascia libertà di scelta ai figli sulla questione ma, sotto questo aspetto, il racconto non convince del tutto. Innanzitutto, fa un po’ specie in un simile contesto – che sembra mettere in contrapposizione famiglia ed esercito – il fatto che gli stessi figli, cinque uomini fatti e un ragazzino di sedici anni, utilizzino spesso il gergo militare per ubbidire al padre, con un formale sissignore. L’impressione che passa è che Charlie si curi del suo interesse mentre si dica indifferente a quello della Virginia, che negli anni si è dimostrata a sua volta indifferente ai suoi bisogni; salvo poi comportarsi un po’ alla stessa stregua riguardo ai suoi figli.
Il tema dell’incomprensibilità, vero tormentone stucchevole del film, attraversa le due istituzioni: se è goffamente messo in scena nei rapporti uomo-donna che sono alla base della famiglia, è meno banalizzato anche se più vago nei confronti dei motivi scatenanti la guerra. Sì, c’è una certa presa di distanza dalla schiavitù, cardine ideologico del conflitto in questione, ma nemmeno troppa perché diversamente avrebbe voluto dirsi schierarsi da qualche parte e per smuovere Charlie dalla sua apatia politica gli dovranno praticamente rapire il figlio piccolo. Questi è l’unico un po’ definito tra la prole maschile del vedovo: ed è la stessa trama a non mettere mai i giovanotti in questione in particolare risalto, finendo per farne figure anonime. Il fatto poi che l’attore più famoso tra essi sia probabilmente Patrick Wayne (è James), sembra un ulteriore conferma di una voluta ricerca di anonimato per questi personaggi: il figlio di John Wayne può essere infatti l’emblema di una persona schiacciata totalmente dall’ombra del padre. Insomma, nonostante ci sia, verso la fine, un ulteriore passaggio in cui il padre Charlie cerchi di lasciare in modo più esplicito libertà d’azione ai figli, durante la ricerca di Robert (Philliph Alford), il citato ultimogenito catturato dai nordisti, l’impressione è che la figura paterna sia davvero troppo predominante. Il che non sarebbe neanche un male, in sé; purtroppo Jimmy Stewart non è più quello di un tempo e non regge come dovrebbe mentre lo schermo finisce troppo spesso ingombrato da personaggi senza alcuno spessore.
A distinguersi in modo inevitabile è la figlia, Jennie (Rosemary Forsyth), in quanto unica femmina della nidiata e forse aiutata dalla buona presenza scenica; in questo senso bene anche la nuora Ann (Katerine Ross), ma niente di imprescindibile, sia chiaro. Il problema del film, che, come detto, verte sulla vana intenzione degli Anderson di tenersi fuori dalla guerra, è che ci sono troppi ingredienti e McLaglen non sembra cuoco all’altezza del compito. Il racconto vuole essere epico, la guerra tra americani, sentimentale, la love story tra Jennie e Sam (Doug McClure), tragico, le morti dei figli di Charlie, leggero, le gag del più piccolo degli Anderson, e nel cercare di far di tutto questo un film coerente il regista finisce troppo spesso per ricorrere ad ovvi cliché. Gli incontri casuali, come quello che salva la vita a Robert sul campo di battaglia, i pretesti narrativi prevedibili, il berretto da sudista trovato dallo stesso ragazzo che si rivela poi cruciale, incanalano la vicenda in modo inevitabile, nonostante i molti elementi in gioco finiscano poi per mantenerla comunque un minimo interessante. Ma non in modo del tutto soddisfacente: Shenandoah, la valle dell’onore, in definitiva, assomiglia ad una barca che va lungo il fiume, assecondando la corrente senza che il timoniere dia segni di avere la personalità necessaria per imprimere una qualche forma di rotta. E, sotto la sua guida, perfino un veterano come Jimmy Stewart finisce per mostrare un po’ la corda. E questo è il peccato più grande del film.
Rosemary Forsyth
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