1221_7 SCONOSCIUTI A EL ROYALE (Bad Times at the El Royale). Stati Uniti, 2018; Regia di Drew Goddard.
Nonostante sia un cineasta polivalente, principalmente produttore e sceneggiatore, prima di 7 Sconosciuti a El Royale Drew Goddard si era cimentato alla regia solo una volta, con Quella casa nel bosco nel 2011. Ma forse in virtù dell’esperienza più generale nell’ambito cinematografico, Goddard si rivela subito capace anche dietro la macchina da presa: era stato bravo ad interpretare l’horror nel suo esordio e qui è addirittura in grado di realizzare un film, 7 sconosciuti a El Royale che richiama fortemente il cinema meta-nostalgico di Quentin Tarantino o qualche esempio di quello dei fratelli Coen. Non uno genere specifico, quindi, ma un modo di fare cinema molto in voga, certo non limitato agli autori citati ma comunque abbastanza peculiare, che Goddard, a livello formale, riesce a ricreare con competenza. Del resto anche Quella casa nel bosco aveva una fortissima connotazione metalinguistica che, a questo punto, potrebbe proprio essere la cifra poetica del regista. Dopo i cliché horror del precedente film, stavolta Goddard si cimenta con quelli di questi nuovi thriller autoreferenziali. Ambientazione anni Sessanta, décor dettagliatissimo, fotografia dai colori caldi, attenzione maniacale alla musica, violenza talmente estrema da risultare astratta, utilizzo dei flashback e della scomposizione della linearità temporale, impiego di didascalie anche formalmente bizzarre: insomma, un concentrato di tutte, o quasi, le caratteristiche di questo tipo di film. L’insieme funziona sia per l’abilità di Goddard, che si è detto è anche valente sceneggiatore – il che non guasta mai – sia per il cast a dir poco sorprendente. Nientemeno che Jeff Bridges è Padre Flynn poi, tra gli altri, c’è Chris Hemsworth nel ruolo del folle Billy Lee mentre Dakota Johnson è Emily e la debuttante Chintya Erivo la vera protagonista, la cantante Darlene Sweet.
Quest’ultima è l’unico personaggio che in qualche modo potrebbe rientrare nei canoni di quelli che al cinema un tempo venivano considerati buoni: in effetti lei vorrebbe unicamente fare quello che ama, cantare, ma la vita la pone d’innanzi a più di qualche difficoltà. Poi, quando le si para davanti la possibilità di arricchirsi con denaro rubato non sembra farsi il minimo scrupolo per via dell’ambigua provenienza dello stesso. Il che qualche dubbio sulla sua dirittura morale ce lo pone, ad essere onesti; ma vabbè. Anche Padre Flynn eticamente non è proprio malaccio, come personaggio: non sarà un prete vero ma ha una sua specie di morale, sebbene l’aver scontato la pena per la rapina, e averci in questa perso il fratello, non lo rende legittimamente proprietario dei dollari rubati. Il punto, o quello che si potrebbe presumere che lo sia, è che nel film non ci sono vere possibilità di scelta: si va da personaggi presi dalla politica istituzionale, con i continui riferimenti impliciti a JF Kennedy, ad altri presi dalla contestazione del sistema, laddove Billy Lee ricorda i rivoluzionari pazzi alla Charles Manson, tutti quanti accomunati dalla sintetica descrizione che ne dà Darlene Street: gente che vuole incantarti con le parole ma che, alla fin fine, vuole unicamente fottere chiunque. Può bastare a giustificare la sua scelta di accettare l’offerta di Padre Flynn e diversi il bottino?
Siamo sul finire degli anni Sessanta, la citata contestazione è appena cominciata, eppure, anche grazie al Vietnam, tirato in ballo dall’impiegato dell’hotel El Royale, Miles Miller (Lewis Pullman), si è capita la vera natura del Sogno Americano. Forse c’era qualcuno in buona fede che ci credeva, come l’agente Sullivan (Jon Hamm) che disobbedisce agli ordini che gli intimano di fregarsene del rapimento a cui gli capita di assistere, visto che l’unica cosa che conta è recuperare i filmini compromettenti che potrebbero infangare la memoria del presidentissimo. Ma l’onesto Sullivan, dedito soltanto ad un banale doppio gioco, dura pochissimo in una simile contorta e corrotta situazione: Rose (Cailee Spaeny), la rapita, è una pazza pericolosissima mentre sua sorella Emily, la rapitrice, è meno folle ma non meno pericolosa. Nell’assoluta mancanza di valori positivi, se non nella disperata delusione di Darlene, il film non sembra darci scelte ma, in compenso, ci pone subito di fronte ad un bivio: anche simbolicamente l’El Royale è infatti spaccato in due dalla linea di confine tra California e Nevada. Il film quindi è costretto, proprio come i suoi personaggi, a fare una scelta anche se sembra un filo assurda, del tutto virtuale e non molto significativa. Comunque c’è una decisione narrativa da prendere, praticamente inevitabile, e quindi si va avanti. Ci rimane sul gozzo, almeno al livello ideologico, la questione del bottino che non è risolta in modo pulito, sia chiaro. Eppure, alla fine, sentendo Darlene cantare, non possiamo che condividere la scelta di Goddard. La sua voce, che ce ne saranno anche di migliori – come sostiene Billy Lee – ma è bellissima, sembra perfino in grado di guarire un personaggio discutibile come Padre Flynn.
E, per un’ora e mezza, anche noi.
Chintya Erivo
Dakota Jhonson
Cailee Spaeny
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