1224_GUILTY BYSTANDER . Stati Uniti, 1950; Regia di Joseph Lerner.
Poliziesco cupissimo ambientato in una New York quasi irriconoscibile, Guilty Bystander di Joseph Lerner lascia basito anche il più scafato spettatore. L’epoca è quella del noir americani ma il film di Lerner non ha l’ombra della poesia di quel tipo di film; non ci sono dark lady affascinanti o eroi sul punto di cedere, ma solo un’umanità immersa nel crimine e nel malaffare. Ci sono anche le istituzioni positive, sia chiaro: in fondo il protagonista, Max Thursday (Zachary Scott) ne rappresenta ben due. Ma in chiave degradata, come prevedibile visto il contesto: è un ex poliziotto e un ex marito. La polizia è quindi lasciata un po’ fuori, da questa storia che verte sul misterioso rapimento di Jeff, il piccolo figlio di Max; in ogni caso, quando viene chiamata in causa, non è che si affanni troppo. Diverso il rapporto con la famiglia: l’ex moglie Georgia (una Faye Emerson un po’ spenta) si rivolge a lui quando è disperata per via del citato rapimento. Ma in qualche passaggio, non certo edificante, chiarisce in modo quanto mai esplicito che non le interessa se Max finirà ammazzato nella ricerca di Jeff. In effetti l’amore verso il piccolo, da parte della madre ma soprattutto da parte di Max, è l’unica nota positiva del racconto. Il protagonista è un alcolizzato che ha perso il lavoro in polizia per questo motivo ed ora, abbandonato anche dalla moglie, è alla completa deriva. La notizia del rapimento lo scuote e il film si snoderà seguendo la sua ricerca tra i mille intrighi del malaffare di una New York raramente squallida come in questo caso. Perfino la presunta dark lady della storia, Angel (una sfiorita Kay Medford) è ingannata dal protagonista, che non esita poi a scagliarla contro i gangster di turno per farsi scudo. Un comportamento inqualificabile, a cui non basta la giustificazione del figlioletto rapito, per quello che è in definitiva l’eroe della nostra storia. La donna se ne andrà piangendo, umiliata per il trattamento poco galante ricevuto più che per le conseguenze della baruffa: nelle sue lacrime, per quando non è che si tratti di un personaggio memorabile, c’è un po’ dell’amarezza di veder calpestate in questo modo le ultime tracce di cavalleria che pure nel noir o nei polizieschi dell’epoca venivano conservati quasi gelosamente. Ma Max è un personaggio così, prendere o lasciare; non sorprende, in fondo, se la mente dietro tutte le malefatte del film sia Smitty (Mary Boland), la grassona, presunta amica sua, presso il cui hotel l’uomo si era rifugiato. E questo la dice lunga sul fiuto che, in qualità di ex poliziotto, l’uomo avrebbe dovuto comunque avere. Nel complesso il film è godibile, con almeno un personaggio memorabile: Otto Varkas (J. Edward Bromberg), boss criminale non certo aitante – Bromberg era piccolotto e paffuto – che, tra uno scatto di nervi e un passaggio viscidamente amichevole, si controlla ripetutamente la pressione arteriosa premendosi le dita sul polso. Il finale, grazie al ritrovamento di Jeff, vede il magico ricomponimento della famiglia, col piccolo accompagnato da Max e Georgia felicemente di nuovo insieme. La scena, illuminata e ambientata in una ridente campagna, sembra presa da un altro film. E convince quindi ben poco.
Faye Emerson
Mary Boland
Kay Medford
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