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domenica 22 maggio 2022

I GANGSTERS

1021_I GANGSTERS (The Killers). Stati Uniti, 1946;  Regia di Robert Siodmak.

D’accordo, d’accordo, c’è Ave Gardner, giovanissima e splendida, e l’esordio cinematografico di Burt Lancaster, che lo lancerà sin da subito nell’olimpo di Hollywood. Ma I Gangsters è soprattutto in quello scarso quarto d’ora iniziale. Del resto, nell’originale, il film si intitola The Killers (gli assassini, i sicari) e la sequenza d’apertura del film di Robert Siodmak che vede all’opera i due uccisori in questione, Al (Charles McGraw) e Max (William Conrad), non ha eguali nell’intera Storia del cinema. Tecnicamente è un assoluto capolavoro: dal montaggio alla fotografia di Elwood Breddel, un bianco e nero da antologia, sublime per tutto il lungometraggio ma che nell’incipit addirittura si supera. E che dire della musica di Miklòs Ròzsa? Attacca a cannone sin dal logo Universal che apre la pellicola e non molla mai sfoderando, nelle fasi propizie, colpi di martello musicali di rara efficacia: naturalmente è adeguata lungo tutto il racconto ma è addirittura perfetta per preparare la fantastica scena che apre il film, con i due sicari che entrano nella tavola calda in cerca dello Svedese (Burt Lancaster). I dialoghi, un misto di fine ironia che sconfina spesso nella mancanza di senso, col sospetto anche per via della non particolare intelligenza dei due, lasciano a bocca aperta tanto sembrano moderni. Questo inizio, che va dall’arrivo della coppia di assassini a Brentwood fino all’uccisione dello stesso Svedese, è strettamente legato al racconto The Killers di Ernst Hemingway. Il resto del lungometraggio, che va comporre il corpo vero e proprio del film, è frutto degli sceneggiatori, Anthony Veiller (l’unico accreditato) ma anche John Huston e Richard Brooks. 

L’idea vincente alla base de I Gangsters è ribaltare completamente la struttura del racconto: si comincia con la scena cruciale, con il momento della verità. Come detto, il resto dell’intrigo verrà ricostruito pian piano nel corso del film. Nel quale Siodmak e i suoi collaboratori insistono nell’opera di scomponimento del racconto: una articolata struttura a flashback svela, mano a mano che le indagini proseguono, i pezzi che compongono il puzzle ma non lo fanno in ordine cronologico. Siodmak sapeva già, nel 1946, che il senso di una storia non è nella sua ferrea cronologia, concetto che verrà ripreso da altri grandi autori nel corso degli anni (Stanley Kubrick e Quentin Tarantino, tanto per fare due nomi). Insomma, sarà l’incipit che ci ha letteralmente tirato dentro alla storia per i capelli, sarà per le capacità degli interpreti o della regia, fatto sta che il film non molla mai di un millimetro la presa sullo spettatore. 

Ci troviamo, anche noi come Jim Reardon (Edmond O’Brien), investigatore assicurativo, incuriositi dall’uccisione dello Svedese: chiamato a verificare la sua misera polizza sulla vita, non si capacità che un soggetto tanto anonimo possa finire crivellato di colpi da due killers spietati come quelli visti all’opera in apertura di film. Ci deve essere qualcosa di grosso sotto e, in effetti, alla fine salta fuori un malloppo da mezzo milione di dollari frutto di una rapina: tuttavia il suo capo, all’assicurazione, gli fa notare che ormai sono passati anni e, quindi, per quanto sarebbe utile recuperare il denaro, la compagnia non ne avrebbe tutto questo interesse. Il che sarà anche vero o forse no, in termini tecnici, ma quello che interessa qui è che Reardon viene invischiato nell’indagine non tanto per un fatto di interesse professionale ma personale. Quasi che ci sia un fascino malsano ma irresistibile nella vicenda: lo stesso che sentiamo pulsare noi nelle vene, soprattutto quando entra in scena Kitty Collins, una radiosa, ma spesso in modo sinistro, Ava Gardner. Per dar corpo al comportamento del suo personaggio, Ava, che non era ancora un’interprete formata, ricorre, come da nome (Kitty, gattina) all’atteggiamento del gatto: mostrando spesso indifferenza e non curanza, in realtà studiando per bene le sue mosse al fine di arrivare allo scopo. 

Che nel film, come da manuale del noir – di cui peraltro I Gangsters è uno dei capitoli fondamentali – è quello di manipolare il presunto protagonista della storia; ovvero lo Svedese. Gli autori sembrano volerci scherzare sul suo atteggiarsi, visto che la ragazza si incontra con l’investigatore al Green Cat dove da bere prende un bicchiere di latte: ma è il suo gioco per dimostrarci innocente come una gattina agli occhi dell’uomo. In realtà Kitty è la femme fatale che conduce alla rovina lo Svedese, il che è appunto uno dei cliché del cinema noir dell’epoca. Ma, a differenza di molte altre dark ladies del tempo non ha per niente un’anima buona: la sua è nera come la pece, come testimoniato dall’inquietante ultima scena in cui cerca di convincere Colfax (Albert Dekker), ormai in punto di morte, a mentire per scagionarla da ogni responsabilità dell’intrigo. La disperazione nel vedere inascoltati i suoi ripetuti appelli non lascia alcun dubbio: Kitty Collins è la perfidia fatta donna. Infatti, nonostante l’avvenente presenza scenica di Ava Gardner, Kitty non è una figura poi memorabile, mancando di ambiguità, che è solo di facciata. Peraltro nemmeno lo Svedese è poi questo gran personaggio. Per lui vale la sua carriera di pugile, come criterio di valutazione: buone possibilità ma un po’ la sfortuna, un po’ la mancanza di capacità di fare la scelta giusta, in ogni caso finisce KO. E nemmeno si può considerare Reardon un protagonista d’eccezione, nonostante stia al centro della scena per la maggior parte del tempo. Non ha, l’investigatore, le stigmate dell’eroe, tanto che in una delle scene più efficaci, quando il gangster Dum Dum (Jack Lambert) gli sottrae l’arma sorprendendo lui insieme a noi, ci fa appunto una ben magra figura. E allora, tornano in mente Al e Max e il loro stupefacente ingresso in scena, nello strepitoso inizio; certo, successivamente vengono liquidati sbrigativamente anche loro, finendo declassati all’interno di un racconto che non fa sconti per nessuno. Ma la Storia del cinema l’hanno già segnata, entrando in una tavola calda nell’unica sera in cui il loro obiettivo non si presenta, sbagliando le ordinazioni, lasciando indizi a piene mani e testimoni in vita: chi l’ha detto che serve un personaggio eroico per appassionarsi ad una storia?   












Ava Gardner 










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1 commento:

  1. infatti non so chi l'abbia detto, ma nemmeno io sento la necessità di "eroi" per godermi una storia, anzi..... 🙂

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