1025_ALFREDINO - UNA STORIA ITALIANA . Italia, 2021; Regia di Marco Pontecorvo.
Dice bene il titolo: Alfredino – Una storia italiana, sottolineando l’italianità della tragedia di Vermicino, dove perse la vita il piccolo Alfredo Rampi (nella serie tv prodotta da Sky, interpretato da Kim Cherubini). Nel 2021 sono quarant’anni da quei drammatici eventi che segnarono la vita di un intero paese, sotto diversi aspetti: dalla successiva riorganizzazione della macchina dei soccorsi alla cristallizzazione istantanea della tv del dolore, che non pioveva certo dal cielo ma di cui gli italiani presero cruda coscienza nelle terribili ore della diretta televisiva. Innanzitutto va detto che il lavoro del regista Marco Pontecorvo e dei suoi collaboratori è valido e professionale, come ormai quasi d’abitudine per le produzioni Sky italiane. L’autore azzarda anche qualche passaggio personale, come le scene d’animazione del cartone animato Mazinga o l’abbinamento con le musiche (pare non gradito alla PFM l’utilizzo di Impressioni di settembre), che nell’insieme aiutano ad elevare il film a qualcosa di più interessante rispetto ad una fedele cronistoria. La miniserie, soprattutto nella prima parte, ha numerosi passaggi toccanti e va riconosciuto che il suo apice è forse proprio l’ascolto della voce di Alfredo proveniente dal pozzo, registrata in modo quanto mai opportunistico e scaltro dal giornalista Rai Francesco Viviano (Emiliano Coltorti). Qui già il terreno comincia a farsi scivoloso e le osservazioni che si possono fare sono come le ciliegie, una tira l’altra: fin dove è legittimo o anche solo opportuno il lavoro della stampa, in casi come questo? E che dire dei curiosi che affollarono il sito nel corso delle ore?
E’ un moto condannabile senza se e senza ma quello di andare a vedere cosa sta succedendo sul luogo di una tragedia? E guardare gli eventi alla televisione è molto differente? E guardare una fiction che li ricostruisce? Certo, una risposta che va bene per questi e per mille altri interrogativi che possono sorgere è che bisogna usare il buon senso, come direbbero i nostri cari vecchi. Insomma, ognuno ha una coscienza e cerchi di regolarsi. E’ chiaro che la sensibilità è però differente per ciascuno e appunto un’interpretazione prudente (‘buon’ senso) fornisce qualche garanzia in più. Perché una delle questioni è ancora questa, visto che la chiosa di Franca Rampi (un’intensissima Anna Foglietta, bella come non mai, bella di una bellezza forte e stoica), madre di Alfredo, alla fine lì va a parare.
Conferenza stampa: lei vuole parlare della sua fondazione, un centro di Protezione Civile per ragazzi, mentre i giornalisti sono lì perché vogliono sapere solo di Alfredino. Perché tutta questa morbosità? La donna elenca altri fatti simili, altre tragedie occorse a giovanissimi in quei tempi, che sono stati ignorati dalla stampa e, di conseguenza, dall’opinione pubblica. Ma è un concetto sfuggente: quello che fa la differenza è l’emozione. Per la vicenda di Alfredo Rampi si è emozionato un intero paese, gli altri sono solo eventuali fatti che possono far dispiacere ma è un altro piano del discorso. Il tema non è un effetto collaterale del film, come potrebbe esserlo un elemento su cui si finisce per le connessioni intrinseche ed implicite all’argomento: è piuttosto uno degli architravi portanti della miniserie di Pontecorvo. Perché un quarto dell’intero film è dedicato al post tragedia, dall’attività di Franca e del marito Ferdinando (un convincente Luca Angeletti) nel centro per ragazzi, alle conseguenze istituzionali volute dal Presidente Sandro Pertini (il mitico Massimo Dapporto) con la messa in campo di una Protezione Civile davvero efficiente. Il discorso finale di Franca fa un po’ da tramite tra le reazioni negative al drammatico evento (sterili polemiche, voyeurismo giornalistico e non) e la capacità di trasformare una tragedia nell’occasione per migliorarsi. Quest’ultimo moto, visto il corposo spazio filmico dedicato a questa fase, sembra un po’ il senso dell’intera operazione di Pontecorvo: la tragedia di Vermicino è servita da lezione e, grazie all’istituzione di una Protezione Civile seria e funzionale, ora la situazione è migliorata. Il che è fuori dubbio. Volendo essere cattivi, verrebbe da aggiungere ‘anche perché fare peggio non era semplice’.
Per carità, è indiscutibile che tutti coloro siano stati coinvolti si siano adoperati allo strenuo per il raggiungimento di un risultato, la salvezza di Alfredo, peraltro poi non ottenuto. La stessa Franca, persona coinvolta in modo quanto mai diretto essendo la madre del ragazzino morto, riconosce che, trattandosi di un evento mai verificatosi, era impossibile (o quasi) sapere cosa fare e quando. Può bastare? Mah. Se analizziamo gli elementi a disposizione, si può facilmente osservare che Alfredo poteva essere salvato se soltanto si fosse ascoltato quanto dicevano gli speleologi presenti. Certo, del senno di poi son piene le fosse ma, seguendo quello spirito che anima anche il film, il punto non è il fatto in sé, quanto capire dove è stato l’errore.
Nella mancanza di coordinazione, come viene fuori sostanzialmente da Alfredino – Una storia italiana? Sicuramente. E allora l’istituzione della moderna Protezione Civile ci rincuora, è stato fatto tesoro di questa tragedia. Infatti la luce che inonda il film è positiva visto che, non a caso, il racconto vede il consumarsi della morte del piccolo Alfredo quando manca ancora molto alla fine. Un escamotage narrativo, non finire il racconto con la morte di Alfredino, che permette di smaltire l’emozione allo spettatore e di superare la cosa, un po’ come hanno fatto i genitori, il paese e, con le disposizioni governative citate, persino lo Stato. La prospettiva di Pontecorvo, a conti fatti, è nettamente ottimistica: sono accuratamente evitati tutti i riferimenti alle indagini sulla questione della fettuccia trovata addosso al cadavere del piccolo, e non è un taglio di poco conto inferto alla ricostruzione. E un bel po’ di positività si respira anche nel finale del film: gli speleologi, Tullio Bernabei (Daniele La Leggia), Maurizio Monteleone (Giacome Ferrara) e Laura Bortolani (Valentina Romani) ritrovano un po’ di armonia tra loro; i due poliziotti incaricati delle indagini sulla regolarità della realizzazione del pozzo artesiano in questione quasi si rammaricano per l’arresto del titolare del terreno, mostrando comprensione per l’accusato; il comandante dei Vigili del Fuoco Elveno Pastorelli (Francesco Acquaroli, strepitoso) viene invitato dai suoi uomini a non dimettersi. Anche stavolta è finita a tarallucci e vino, è così che si dice nel Belpaese, no? Serve ironia, amara ma pur sempre ironia, perché, tra tutte, l’assoluzione morale che Alfredino – Una storia italiana riserva al capo dei pompieri di Roma è un po’ difficile da digerire. Per carità, lungi dall’invocare derive forcaiole ma i fatti vanno considerati in modo coerente.
Se per i tanti curiosi e per la stampa, non potendo fare appello ad altro, si è invocato il buon senso di ognuno, lo stesso si deve fare con gli altri protagonisti della vicenda. E’ alla loro coscienza che ci si deve rivolgere: era quella di Pastorelli in pace con sé stessa? D’accordo, non c’era un protocollo, non si aveva esperienza in casi simili; ma c’era chi l’aveva, gli speleologi. Perché non si è scelto di fare un passo indietro per lasciare il campo a chi aveva maggiore competenza? Perché la ribalta, sia esso il primo posto nella fila dei curiosi sull’orlo del pozzo o il ruolo di comandante delle operazioni, non si molla a nessun costo nemmeno per cinque minuti.
Questo aspetto dell’italianità è spesso attribuito ai politici, quelli che in nessun caso mollano la poltrona, ma è diffuso in modo proporzionale nel paese. C’è rivalità anche tra i due speleologi, Bernabei e Monteleone, ma nei termini in cui è un sentimento naturale e comprensibile: tra l’altro i ragazzi erano presenti a titolo volontario e il loro ruolo testimonia piuttosto la generosità tipica degli italiani nel momento del bisogno. In Italia, spesso, questa capacità di provare empatia ha finito per supplire altre carenze; in questo caso non è stato possibile. Questo perché una persona, Pastorelli, ha deciso diversamente. Era in suo potere, in quanto era l’incaricato di dirigere le operazioni. E di coordinarle, perché la coordinazione nei soccorsi c’era, non era del tutto assente; spettava appunto a Pastorelli. E il capo dei pompieri ha fatto quello che doveva: ha preso decisioni. Ma, e questo il punto cruciale del discorso su cui è difficile condividere la prospettiva del film di Pontecorvo, quali erano gli elementi su cui si è basato? Su dati oggettivi che aveva a disposizione in scienza e coscienza? O sulla semplice convinzione di essere in grado di piegare gli eventi con la sola determinazione nel dettare ordini e disposizioni, nel suo completo bianco solo lievemente imbrattato dal fango? Perché, nel caso, anche in presenza di istituzioni organizzate efficientemente come la moderna Protezione Civile, potremo sempre incappare in un’evenienza inedita e un Pastorelli del caso, espressione di uno dei convincimenti più radicati in Italia, il culto della personalità. Ai posteri l’ardua sentenza. Ah no, son passati quarant’anni e delle sentenze a cui si riferisce il proverbio se ne trovano a iosa con buona pace della coordinazione tra le forze in campo.
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