891_I QUATTRO DELL'AVE MARIA Italia, 1968; Regia di Giuseppe Colizzi.
Secondo episodio della trilogia iniziale della coppia Terence Hill e
Bud Spencer, rispettivamente nei panni di Cat Stevens e Hutch Bessy, I quattro dell’Ave Maria di Giuseppe
Colizzi è uno spaghetti western di
onesta fattura. Il film ha forse uno slancio minore rispetto al precedente Dio perdona…io no! e, sebbene in qualche
passaggio persino l’espressione truce di Terence Hill cominci a vacillare, la
vena ironica che pervade tutto il film non è sfruttata in modo congruo e
consapevole dal duo. Colizzi, dal canto suo, si affida anche a Eli Wallach
(Cacopoulos), un attore che è in grado di gestire sia il registro drammatico
che quello comico, volendo in modo simultaneo. Del resto, al tempo, la chiave
ironica era uno degli elementi portanti degli spaghetti-western, sebbene la trilogia di Colizzi, pur disponendo
della coppia che poi porterà all’estremo questo tema, la lasci comunque un po’
troppo sottotraccia. Tra i due, Spencer è chiamato ad un ruolo che gli è
comunque congeniale, sia che la vena ironica sia tanto esplicita o che lo sia
meno; è un personaggio esagerato,
almeno fisicamente, e quindi sopra le
righe lo è già naturalmente, mentre Hill fatica molto di più. L’attore
veneziano, infatti, non ha il carisma di Clint Eastwoood, (visto nello stesso
ruolo nei film di Leone, a cui Hill si ispira come tutti gli interpreti
principali degli spaghetti), non ha
l’espressione seria e determinata di Franco Nero (Cat Stevens ricalca
fedelmente il personaggio Django interpretato appunto da Nero), e nemmeno la
simpatia spaccona di Giuliano Gemma e del suo Ringo. Terence Hill troverà poi,
con Trinità, un personaggio indimenticabile e perfetto ma, prima di allora, era
solo un attore che giocava in un ruolo non del tutto suo. Il punto è che
Terence Hill è, volenti o nolenti, il personaggio principale de I quattro dell’Ave Maria, e quindi,
nonostante il buon apporto di Spencer, Wallach e del bravo Brook Peters, il
film non può certo dirsi perfettamente riuscito come scelta del cast e dei
ruoli. Inoltre, Colizzi, pur girando con mestiere, si perde un po’ troppe volte
il filo della narrazione, con passaggi poco funzionali e inerenti al tema del
racconto; il che, in un’opera di 132 minuti, non è certo un vantaggio.
Insomma, il film è certamente gradevole e divertente, ma si
poteva fare meglio: Hill maggiormente centrato sul suo proprio registro e trama
snellita e condensata. In quel caso, avremmo avuto un’opera certamente più
funzionale.
Hill un po' come Berardi... ai tempi gloriosi in versione western, poi spostatosi in campo sentimentale, Don Matteo alias Julia...
RispondiEliminaUrca! :D :D :D
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