895_IL GIARDINO DEI FINZI CONTINI; Italia, 1970; Regia di Vittorio De Sica.
Il giardino dei Finzi
Contini è un film di Vittorio De Sica tratto dall’omonimo romanzo di
Giorgio Bassani; il quale, dopo aver partecipato alla stesura della
sceneggiatura, ritira la sua firma, non riconoscendo, nella messa in scena
prevista, il suo lavoro letterario. Rimanendo così sul testo filmico, sorprende
un po’ la evidente ricerca calligrafica di De Sica, palpabile sin dalle prime
inquadrature. La pellicola regala immagini soffuse, ovattate, come se l’autore
fosse alla ricerca di una poesia rispondente ai più canonici cliché. Anche gli
attori scelti danno l’impressione di suffragare quest’idea: Lino Capolicchio
nei panni di Giorgio e Domenique Sanda in quelli di Micol Finzi Contini hanno i
volti rosei e puliti di innocenti ragazzetti di campagna. Forse De Sica si fa
prendere un po’ la mano in quest’ottica naif,
perché l’entrata in scena del gruppo di giovani in bicicletta, che ci introduce
nel film, sembra quella di una recita in un teatro di periferia e non quella di
una pellicola che ha vinto l’Oscar come migliore film straniero. A questi
personaggi angelicamente ambigui nella loro indeterminatezza, si aggiunge un
altro tipo di ambiguità, quella di Alberto Finzi Contini interpretato da Helmut
Berger: la sua omosessualità e la sua salute cagionevole sono ulteriori
elementi che rinforzano l’impressione di trovarci di fronte ad un mondo chiuso
su sé stesso, estraniato dalle grave e prosaica realtà degli anni Trenta
italiani. La presenza di Fabio Testi (nella parte di Malnate) potrebbe essere
un elemento di rottura: al contrario degli altri interpreti ha una presenza
scenica prorompente (ma non una corrispondete capacità recitativa) e non ha
caso Micol se ne invaghisce. Purtroppo anche il Testi, attore più incline al
fotoromanzo che al cinema, contribuisce a dare l’impressione di una ricerca di
sentimentalismo poetico un po’ troppo a buon mercato. Forse l’idea di De Sica
era creare un universo sfumato in cui i protagonisti facessero fatica, proprio
per il loro vivere fuori dal mondo, a comprendere quello che gli stava
accadendo. Un po’ come, all’interno del racconto filmico, i benestanti ebrei (i
Finzi Contini) non arrivavano nemmeno a concepire che potessero essere
deportati, dall’alto della loro condizione di agiati borghesi. In questo senso
il film è funzionale, quello che non sembra tornare è la nostalgia che pervade quello
sguardo verso un mondo calligrafico, di maniera, estraneo alla realtà, di cui non
si riesce proprio a sentire la mancanza.
Dominique Sanda
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