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venerdì 3 settembre 2021

CI RIVEDREMO ALL'INFERNO

883_CI RIVEDREMO ALL'INFERNO (Shout at the Devil)Regno Unito, 1976; Regia di Peter R. Hunt.

Africa orientale, poco prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale; un occidentale si trova a confrontarsi con una coppia di congiunti, anch’essi occidentali. E finisce per avere una storia d’amore con la donna di questa coppia; di cui l’uomo, diversamente, lascerà questa valle di lacrime per mano tedesca. Nel frattempo, infatti, la Grande Guerra è scoppiata e i nostri vi prendono parte, seppure un po’ clandestinamente, arrivando ad affondare addirittura una nave da guerra tedesca stanziata nelle acque interne africane. Questo breve plot narrativo vi ricorda qualcosa? Tipo La Regina d’Africa (1951, regia di John Huston)? In questo caso è però Ci rivedremo all’inferno di Peter R. Hunt. E non se la prenda Wilbur Smith, autore dell’omonimo romanzo a cui si è liberamente ispirato Hunt, noto per essere uno dei più fidati collaboratori ai primi film della saga di James Bond, in qualità di montatore, regista della seconda unità e regista. D’altra parte è impossibile non riportare le similitudini: i riferimenti sono praticamente ricalcati, seppure poi opportunamente modificati per non incorrere nei rischi di plagio. Intanto perché la coppia non è inglese, come erano i due missionari del film di Huston, ma americana, e in questo caso non sono fratello e sorella ma padre e figlia. E se nella La Regina d’Africa l’uomo che sopraggiungeva era canadese (quindi americano) qui è inglese: le nazionalità dei protagonisti sono in sostanza state invertite. Comunque, se il film di Huston conservava per tutta la durata una vena sarcastica che, magistralmente, dominava quella avventurosa (ma non quella morale, essendo il regista uno dei grandi di Hollywood), Hunt spinge forte sull’adrenalina lasciando all’ironia dissacrante il compito di stemperare il clima del racconto. 

E’ chiaro che il regista britannico è di un’altra categoria rispetto ad Huston e quindi un eventuale paragone sarebbe per lui ingeneroso; tuttavia le similitudini nei soggetti ci sono e sono anche utili per comprendere Ci rivedremo all’inferno, visto che è palese che lo stesso Hunt non possa non averle notate e non averne quindi tenuto in debito conto nella realizzazione del suo film. E già che ci siamo è doveroso tributare il giusto merito al cineasta nato a Londra, perché Ci rivedremo all’inferno anche preso di per sé stesso è un solido film d’avventura, divertente ed appassionante. Protagonisti sono un istrionico Lee Marvin nei panni del cacciatore di frodo americano Flynn O’Flynn e il serafico viaggiatore inglese Sebastian Oldsmith, interpretato con il consueto aplomb da Roger Moore. E, riprendendo i discorsi sui riferimenti a cui si appoggia il film, non può non venire in mente la coppia di Attenti a quei due, serie di telefilm interpretati da Tony Curtis e Roger Moore, anche in quel caso un americano assai pratico e un inglese sempre impeccabile. Tornando a noi, Flynn ha bisogno di una sorta di prestanome, per andare a cacciare elefanti nei territori in cui operano i colonizzatori tedeschi. Se ancora non è scoppiata la Grande Guerra, ce n’è però in corso già una in scala minore tra lui e il comandante tedesco della regione, Herman Fleicher, a cui Reinhard Kolldehoff conferisce uno spregevole aspetto perfino un po’ caricaturale. 


Ecco che ancora si può scorgere un tema già presente ne La Regina d’Africa, testo che rimane comunque un costante riferimento, nel presentare un ambiente già fortemente violento anche prima che la guerra arrivi a portare morte e distruzione. Ad impressionare, in modo volutamente ostentato, c’è il razzismo volgare di Fleicher, ma anche la caccia grossa di Flynn e Sebastian non avrà lasciato indifferenti gli spettatori di quel 1976, anno di uscita del film. Troppo numerosi gli elefanti che crollano sotto i colpi dei fucili nella battuta di caccia iniziale e troppo evidente il sangue che ancora si vede sulle zanne quando vengono caricate sulla barca; situazione rimarcata anche dalle esplicite parole di Rosa (Barbara Parkins), terzo elemento del triangolo che mancava ancora all’appello. La ragazza è figlia di Flynn e si sposerà con Sebastian; come detto si chiama Rosa, praticamente come la protagonista del film di Huston interpretata da Katharine Hepburn e, come quella donna, vedrà la sua vita segnata da un tragico lutto. Rose, la protagonista de La Regina d’Africa perdeva il fratello e, se si prodigava per affondare la nave da guerra tedesca, in un’azione quindi dal sapore vendicativo, sembrava trovare nella storia con Charlie Allnut (Humphrey Bogart) una ragione di vita. Anche Rosa, in Ci ritroveremo all’inferno, una volta che gli Askari di Fleicher le avranno ucciso la figlioletta neonata, sarà dominata dalla sete di vendetta. 

Ma i ripetuti tentativi di Sebastian di riaccenderne la passione rimarranno sostanzialmente vani e l’uomo si assumerà il compito di finire a sangue freddo Fleicher pur di evitare alla sua donna di perdere definitivamente la sua umanità. E’ forse solo in questo ultimissimo passaggio che il film riporta un po’ della luce comunque positiva che irradiava il pur concitato finale del film di Huston. Anche in Ci rivedremo all’inferno il tema è quindi quello della guerra che arriva a portare morte e violenza e lo fa in un mondo che già non era idilliaco. Che il problema ecologico (in senso morale, di armonia con tutto il creato) fosse sentito è evidenziato dal fatto che siano ben due le didascalie, una all’inizio e una alla fine, che ci rassicurano che non è stata perpetrata alcuna crudeltà verso gli animali. Del resto i settanta erano i tempi dei Cannibal Movie, che del sadismo gratuito verso gli animali facevano invece una delle loro peculiarità. Diversamente, la presenza di un attore come Lee Marvin, e in parte anche di Roger Moore, incanala inevitabilmente la storia verso la solidità di un racconto di azione abbastanza classico e, nella seconda parte, quando scoppia la Prima Guerra Mondiale, il film si trasforma in un war movie a tutti gli effetti. La missione, ancora una volta simile a La Regina d’Africa, di affondare una nave da guerra tedesca è portata avanti dal personaggio di Moore che, essendo l’Agente Segreto 007 in carica a quel tempo, aveva tutte le possibilità di riuscita. Wilbur Smith è un maestro nel tessere trame pregne di suspense e il passaggio narrativo dell’operazione di sabotaggio della Blücher, la nave da guerra tedesca in questione, è d’alta scuola. 

Prima assistiamo a Sebastian che si infiltra tra gli uomini di colore (!) reclutati al volo per stivare le munizioni sulla Santa Barbara della nave. Ovviamente la tensione è alimentata dal fatto che Roger Moore, pur se con un posticcio colorito scuro sul volto e sulle mani, non è che possa avere molte chance di somigliare ad uno del posto. Tuttavia i vestiti larghi e l’oscurità lo aiutano pur con non poche trepidazioni. Comunque, forse anche in forza della sua esperienza nei panni di James Bond, Moore conduce il suo personaggio alla meta e può tornarsene a riva, sempre camuffato e mischiato alla manovalanza ingaggiata per le operazioni di stivaggio. La barca scivola sul fiume e tutto sembra essere andato per il meglio: tra meno di sei ore la Blücher salterà per aria, essendo la bomba depositata giusto nella Santa Barbara della nave. E la sorte sembra sorridere ancora a Sebastian: la sua barca incrocia quella di Fleicher che ritorna a bordo, giusto in tempo per finire a picco insieme ai suoi camerati. 

C’è solo un piccolo particolare, quel telo nero sul fondo della barca del tedesco che è sembrato muoversi quasi impercettibilmente. Arrivato al campo base, Sebastian fa l’amara scoperta di cosa ci fosse nascosto sotto: Rosa. Sua moglie è quindi ora prigioniera sulla nave, a poche ore dalla prevista esplosione. A livello narrativo è una bella manovra per preparare al meglio l’azione finale, con la tensione che era quasi sfociata che invece è velocemente richiamata in gran quantità. I nostri riusciranno nell’impresa ma il successo arriverà grazie al sacrificio di Flynn che, fino ad allora, aveva sempre mandato in avanscoperta il genero. Da buon americano il personaggio di Marvin è opportunista quanto attento negli affari ma, quando necessità impone, sa come recitare il ruolo di eroe. Fleicher, vera ossessione di Rosa, riesce clamorosamente a scamparla dall’esplosione, del resto non può scantonare il suo ruolo che è quello di liberare dal malefico incantesimo che opprime la donna. Che, ovviamente, è legata alla sua morte e, comprensibilmente, Rosa vorrebbe provvedere in prima persona ma non sarebbe questo il modo per estirpare il male che le si è annidato dentro quando le hanno ucciso la figlioletta. Non può essere un gesto violento a lenire una violenza subita; ecco che allora entra in scena Sebastian, che assume su di sé l’ingrato compito di giustiziare Fleicher, a sangue freddo. In definitiva non è che si possa parlare di lieto fine, visto che i due sopravvissuti sono più amareggiati e disillusi rispetto all’inizio del film. Chissà, forse meno superficiali, se pensiamo a come vivevano da colonizzatori o alle scene della caccia agli elefanti che tanto avevano entusiasmato Sebastian. E’ l’unica speranza, perlomeno a livello simbolico, perché all’atto pratico sappiamo che le cose andarono, nel complesso, diversamente. La violenta ed aberrante Prima Guerra Mondiale non sarà infatti questa grande lezione visto che è ritenuta una delle cause della ancora peggiore Seconda






Barbara Parkins



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