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domenica 22 agosto 2021

L'ULTIMA CACCIA

876_L'ULTIMA CACCIA (The Last Hunt). Stati Uniti, 1956; Regia di Richard Brooks.

Richard Brooks di professione, oltre che regista, è anche sceneggiatore e scrittore e questo, in genere, garantisce una buona solidità narrativa alle sue opere, cosa che è riscontrabile anche ne L’ultima caccia. Ma non è questo il merito maggiore del film che, piuttosto, sorprende per l’attenzione posta ai risvolti negativi della conquista del west: dai problemi degli indiani a quelli di matrice naturalista, con il terribile sterminio dei bisonti. Sul momento, fa un po’ specie vedere il senso di colpa nei confronti dei bovini e non nei riguardi degli abitanti originari del continente ma questo solo perché Brooks si rapporta agli indiani con uno sguardo moderno; è quindi dato per scontato che verso di loro sia stata perpetuata un’enorme ingiustizia. Infatti la questione indiana è comunque molto presente, nel film: la donna di cui si innamorano i due amici rivali è una pellerossa, il ragazzo è un mezzosangue e un giusto rilievo nel racconto è dato anche alla cultura autoctona, con il rispetto sacrale del bisonte e del bisonte bianco in particolare. Inoltre, il senso di colpa che prova Mckenzie (Stewart Granger) per la strage di animali è anche legato alla consapevolezza che lo sterminio dei bisonti sia stato lo strumento per affamare gli indiani; sebbene il disagio maggiore dell’uomo sia per l’orrore che l’atto di uccidere provoca di per sé, indipendentemente da quale forma di vita si vada a spezzare. Il compagno di caccia di McKenzie, Charlie (Robert Taylor) è invece un tipo davvero singolare e qui si vede forse l’attitudine di Brooks alla scrittura: il cinema d’evasione, con le sue due ore circa di tempo del racconto già impegnate dalla trama, non permette quasi mai personaggi troppo controversi, perché si fa poi fatica a giustificarne i vari risvolti caratteriali. Nella letteratura, avendo meno limiti, accade invece più frequentemente e forse proprio la matrice letteraria dell’autore può essere una delle ragioni a motivare l’incoerenza di Charlie. Incoerenza che può anche essere una caratteristica del personaggio, è evidente, ma sullo schermo diventa un po’ spiazzante. 

Quello che sfugge non è solo il comportamento imprevedibile dell’uomo, ma anche il credito che ottiene dal compagno: perché McKenzie non lo manda subito al diavolo? Perché gli permette di impadronirsi della ragazza e, sostanzialmente, di abusare di lei? E’ quasi come ci fosse una forma di rispetto nei suoi confronti, che potrebbe essere dovuto all’amicizia, per esempio, ma sappiamo bene che questo legame tra i due non c’è. In effetti anche la figura di McKenzie suscita qualche perplessità, giustificata però da una lacerazione interiore che comprendiamo essere portata in dote dall’aver sterminato centinaia di bisonti. In ogni caso la trama regge bene, i dialoghi sono efficaci, le battute del vecchio Woodfood (Lloyd Noolan) sono pungenti e divertenti. Due i passaggi davvero degni di nota: uno è un dettaglio, una curiosità, su cui però raramente si è messo l’accento. Quando Charlie prova a montare un pony indiano, vinto ad un duello, si avvicina al lato sinistro dell’animale. Questa era la consuetudine europea, di derivazione militare, visto che nel medioevo sulla gamba mancina era adagiata la spada e, per montare in sella, occorreva perciò alzare la destra. 

Ne consegue che i cavalli dell’uomo bianco avessero in genere questa abitudine. Il pony indiano venne invece montato dai pellerossa prevalentemente dal lato destro e, quindi, quando Charlie ci prova dalla parte sbagliata, la bestia si trova impreparata e reagisce disarcionando l’uomo. Oltre che all’aspetto divertente della trovata in sé, questo passaggio mette ulteriormente in luce l’attenzione di Brooks agli usi e costumi degli indiani d’America.
Ma il passaggio migliore è una sorta di contropiede, per usare un termine calcistico. Tutta la storia raccontata nel film è vista in ottica filo indiana nel senso che, almeno idealmente, l’uomo bianco Brooks riconosce le proprie colpe, nei confronti della Natura (lo sterminio dei bisonti) e degli Indiani, che in quella natura vivevano in armonia. Verso il finale, McKenzie sta parlando con la ragazza pellerossa (Debra Paget) e chiede conferma che il ragazzino sopravvissuto con lei non ne sia il figlio. Il fanciullo è in effetti orfano e la ragazza quindi annuisce ma, nel contempo, osserva come i più piccoli siano figli di tutta la comunità. “Grande verità” ammette McKenzie; “chi te l’ha insegnata?”, chiede sottointendendo una replica che faccia riferimento alla saggezza indiana.
“I vostri missionari” è invece la risposta della giovane. 





Debra Paget







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