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sabato 28 agosto 2021

UNA PISTOLA PER CENTO BARE

879_UNA PISTOLA PER CENTO BARE . Italia, Spagna 1968; Regia di Umberto Lenzi.

Il western non è stato certo un genere prediletto da Umberto Lenzi e questo Una pistola per cento bare mostra, in effetti, qualche debolezza di troppo. Niente di drammatico, sia chiaro, come spaghetti western del periodo si colloca dignitosamente nella media di un filone che ha avuto punte eccelse ma anche scadimenti clamorosi. Con Lenzi questo non può accadere perché è un regista di valore e, soprattutto, ha un forte senso della narrazione. Il piacevole e coinvolgente ritmo di questa storia, incentrata sulla vendetta da parte di Jim (Peter Lee Lawrence, poco incisivo) contro gli assassini della sua famiglia, permette di sorvolare sulle tante (troppe) ingenuità narrative che, al tempo, i western all’italiana si concedevano. Per fare un esempio: davvero improbabile la naturalezza con cui il protagonista passa dal non aver mai visto una pistola, in quanto testimone di Geova, a diventare il più veloce tiratore di una storia affollata di pistoleri. Ma ce ne sono anche altre, di queste superficialità, e di altro tipo, come la facilità con cui i banditi di Corbett (Piero Lulli), in mezzo al nulla del deserto del Texas, riescono a trovare carri conestoga e abbigliamenti per inscenare una carovana di mormoni la sera per la mattina. Questi passaggi grossolani della trama non inficiano il godimento della vicenda che, però, in questo modo, non acquista mai spessore, finendo per essere un mero svolgimento dei fatti salienti. Che è vero, è la caratteristica propria degli spaghetti western fin dai capostipiti di Sergio Leone ma il patriarca del genere trattava questo aspetto, questa essenzialità, con una consapevolezza che troppo spesso gli epigoni non hanno. 

La nota più caratteristica del film, oltre alla citata buona scorrevolezza, è la figura di Jim, il protagonista, che gli eventi trasformano in modo radicale, con un’evoluzione certamente discutibile. Ad inizio della storia lo troviamo ribelle due volte: è un confederato, e quindi si è ribellato all’Unione, ma rifiuta di combattere per via del suo credo religioso, finendo così ai lavori forzati. Quando torna a casa, a guerra civile finita, trova la famiglia sterminata: decide così di comprarsi una pistola e vendicarsi. Pare sia l’unica eccezione che voglia fare, tanto che, per tutta la storia, non berrà whiskey ma acqua, sempre per i succitati motivi religiosi. Nel finale si convincerà a cedere anche su questo punto e si farà il bicchierino della staffa, prima di lasciare a Marjorie (Gloria Osuna) un due di picche, sentimentalmente parlando, andandosene per un finale comunque abbastanza d’effetto. Essendo un western all’italiana può anche essere normale vedere il protagonista ammazzare senza batter ciglio a sangue freddo ma, su questi passaggi, Lenzi scade, purtroppo, nel banale; come troppi suoi colleghi, del resto. L’idea di aumentare il tasso di violenza per stilizzare la narrazione è valida, ma si deve stare attenti a non banalizzarla, la violenza; diversamente si ottiene l’effetto opposto: ovvero diventa noiosa, stucchevole. Per nostra fortuna c’è anche una trama gialla, questa sì nelle corde del regista, con la figura di Douglas (John Ireland, ahilui) che salta la barricata più volte, peraltro in linea con la coerenza narrativa generale dell’opera. Interessante, e gestito con buona sapienza narrativa, l’intermezzo dei pazzi rinchiusi nella prigione del paese, visto che il manicomio era andato bruciato da uno degli stessi ospiti, afflitto da piromania. 


A parte la curiosità che ci sia un manicomio in un paese in piena area desertica e nel quale non si vedono più una ventina di persone, (ma giova ricordare che siamo in uno spaghetti western), la questione in sé sembra un mero pretesto per allungare un po’ il brodo narrativo e dare un po’ di respiro alla schematica vicenda. Il che è senz’altro vero, come è vero che Lenzi è anche molto bravo nell’utilizzare, ad esempio, la presenza femminile di Marjorie unicamente per cadenzare la narrazione, mettendo uno stacco sul suo primo piano in una sequenza o farle recitare una battuta enfatizzando la drammaticità della situazione. Questo ruolo marginale del personaggio femminile principale è poi sottolineato dal finale, quando Jim la lascia senza dare l’idea di prenderla nemmeno in considerazione. Uno degli aspetti della capacità narrativa di Lenzi è quindi proprio quello di usare gli elementi del racconto come fossero ingredienti, da dosare a seconda dei casi, in modo anche svincolato dal flusso narrativo principale. I pazzi citati, ad esempio, servono per distogliere l’attenzione da una trama diversamente troppo arida: è vero, ci sono due tracce, la vendetta di Jim e la banda che assedia il paese, ma lo sviluppo degli eventi è fin troppo rapido. Degli assassini sembra rimanere solo Corbett a cui dare la caccia e quando si scopre che lo stesso uomo è a capo dei banditi che minacciano il paese, le due trame si sovrappongono e non rimane che attendere lo scontro finale. Si è detto della deriva gialla, con la figura di Douglas che fa il doppio o triplo gioco, oltre a rivestire un ulteriore ruolo nella vicenda, ma Lenzi si tiene questa carta per gli ultimi minuti, per dare l’ultima scossa. E, da buon alchimista della narrazione, quando inserisce il diversivo coi pazzi, se ne tiene uno da parte (di pazzo) per rendere ulteriormente l’epilogo sorprendente. Da questo complesso armeggiare con gli elementi, anche grazie alle evocative musiche di Angelo F. Lavagnino, dall’eco quasi classica seppur tipicamente adeguate al western all’italiana, scaturisce un film che, se non altro, non annoia e, nel finale, prova quasi ad essere epico. Senza riuscirci, ma il tentativo va comunque messo a referto tra i pregi.   





Gloria Osuna


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