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domenica 1 agosto 2021

IL BELGIO MARTIRE (a seguire QUANDO LA STORIA... )

862_IL BELGIO MARTIRE (La Belgique Martyre)Belgio, 1919; Regia di Charles Tutelier.

Il Belgio Martire, questa la traduzione letterale del titolo del film di Charles Tutelier uscito nel 1919, risente ancora fortemente dell’eco della Grande Guerra, finita troppo poco tempo prima per non lasciare strascichi. Il paese fiammingo, all’inizio delle ostilità, era stato oggetto da parte tedesca di quello che è tristemente rimasto famoso come lo stupro del Belgio: il risentimento antigermanico che permea Il Belgio Martire è quindi ben motivato. Quello di Tutelier è naturalmente un film muto che una serie di duplici pannelli bilingue, francese e fiammingo, rendono perfettamente fruibile. Il recente restauro della Cineteca Reale Belga permette una visione sufficientemente chiara anche se si rimane un po’ perplessi a fronte dei segmenti narrativi interamente colorati in modo monocromatico, ma niente di così disturbante. E’ piuttosto un’iniziativa lodevole, quella della benemerita Cinematek di Bruxelles, di riproporre questo antico film belga che ben illustra il clima che si viveva al tempo. Il Belgio Martire si compone di cinque parti che si suddividono in tre fasi differenti. Le prime due parti dell’opera sono riferite all’aggressione tedesca vista in un’ottica privata, quella di una povera famiglia di contadini. Siamo in un piccolo villaggio delle Fiandre e la vita scorre tranquilla finché arriva la notizia che l’impero Austroungarico ha dato l’ultimatum alla Serbia e, cosa assai più inquietante per i belgi, quello tedesco ha annunciato la mobilitazione. Il Belgio, forse per la sua matrice intrinseca già divisa, testimoniata dal riconoscimento ufficiale di almeno due lingue nazionali diverse, era consapevole di essere un punto nevralgico dello scacchiere europeo in ottica bellica. 

Ad interpretare questi timori, il film belga pacifista Maudite soit la guerre di Alfred Machin era uscito con solo qualche mese di anticipo sugli eventi, nel maggio del 1914. Pochi mesi dopo, il 2 agosto 1914 i paesani de Il Belgio Martire ricevono la chiamata alle armi: è la mobilitazione generale. Nella famiglia Segers, il padre Pierre (M. Mylo) deve partire mentre il figlio Robert (Charlies Tutelier) per ora è troppo giovane; il nonno (M. Liesse) è invece troppo anziano. Le truppe germaniche entrano presto in azione e arriva la notizia dell’invasione dei confini belgi; la resistenza stoica di Liegi infiamma d’entusiasmo il villaggio ma presto i boche, come venivano chiamati con disprezzo i tedeschi, arriveranno. 

L’occupazione del villaggio da parte tedesca è particolarmente cruenta: inizialmente i soldati dell’Impero si contengono, seppure il tenente von Freiherr (M. Sovet) sia particolarmente sprezzante. A sera le truppe festeggiano ubriacandosi per strada: nella confusione scoppia un parapiglia e finisce che un soldato accoppi un camerata con una fucilata. Sopraggiunge von Freiherr che incolpa la resistenza belga dell’uccisione: l’onta dovrà essere pagata col sangue. Entrato nella casa dei Segers vi trova Robert, suo nonno, la madre (Nadia Dangely) e pretende un colpevole da fucilare; non ha fatto caso alla piccola Louisette (Marie Louise) che gli si scaglia giustamente contro insultandolo. Von Freiherr pare divertito, visto che la cosa gli ha suggerito un’idea: chiede infatti alla piccola a chi voglia più bene tra i suoi tre congiunti. Scontata la risposta dell’innocente e ingenua bambina: sarà quindi mamma Segers a finire davanti al plotone di esecuzione. La sua figura femminile ricorda, perlomeno nell’estremo sacrificio, quella dell’eroina belga Gabrielle Petit, crocerossina e spia al servizio dei britannici, o di Edith Cavell, infermiera inglese che operò in Belgio, tutte e due fucilate dai tedeschi. In questo caso con l’aggravante che la povera donna non aveva nulla a che fare con qualsivoglia attività bellica. 

Come si può notare, Tutelier non vuole fare alcuno sconto ai tedeschi che, in questo caso, ricorrono in modo oltremodo inopportuno alla loro nota e riconosciuta vendicatività: non solo la donna è innocente, ma nemmeno c’è un colpevole tra i belgi, visto che il soldato è stato ucciso per errore da un suo compagno. La definizione di vigliacchi con cui vengono tacciati i tedeschi in una didascalia è, sul momento, spiazzante, in quanto la codardia è l’ultimo dei difetti abitualmente attribuiti al soldato germanico. Eppure è quanto mai azzeccata, sia nello specifico narrativo che nel contesto generale. Infatti il plotone di sei uomini armati di fucile che prende di mira la povera signora Segers è un’efficace metafora dell’aggressione tedesca al Belgio. I soldati dell’Imperatore Guglielmo II chiudono la questione dando fuoco al villaggio. La terza parte si intitola La nazione in lutto, come ad estendere la tragedia che si è abbattuta sui Segers a tutto il popolo belga. Questa parte e la successiva sposteranno l’attenzione intorno al fiume Yser, a cui vengono dedicate un paio di panoramiche incendiate di rosso. E’ lì infatti che infiamma la battaglia ed è lì che Robert raggiungere il padre in prima linea una volta lasciato il paese ormai distrutto. 

Al fronte si possono osservare le prime rudimentali forme di trincea, poco più che avvallamenti o rilievi del terreno adeguati alla bisogna. Nella battaglia decisiva il giovane si troverà di fronte ancora al tenente von Freiherr che, pur se gravemente ferito, sarà comunque temibile e dovrà essere giustiziato (come si evince dalla didascalia) da Pierre che salva il figlio con un colpo di fucile. L’azione specifica è anche in questo caso lo specchio di quella generale: ancora una volta il valoroso leone belga ha sconfitto l’aquila prussiana, per usare testualmente le parole di Tutelier. Sia come sia, i tedeschi vengono perlomeno fermati: il fronte si stabilizzerà. L’ultima parte del lungometraggio fa un deciso balzo in avanti, condensato dall’animazione che vede il soldato tedesco venire respinto da quello belga fuori dai propri confini. Dopo di che, a guerra ormai finita, i toni sembrano divenire via via più concilianti, con un messaggio che auspica la pace per un popolo e un territorio tanto martoriato. C’è tempo per la didascalia conclusiva che definisce il Belgio avanguardia del mondo civilizzato. E’ l’ultimo ringraziamento di Tutelier rivolto alla Germania, evidentemente ritenuta al di fuori di quel confine. 

Al termine della galleria fotografica del film, QUANDO LA STORIA... l'appendice storica di Antonio Gatti: 
GRANDE GUERRA, PICCOLO ESERCITO (A.I.V.)


Appendice storica.

QUANDO LA STORIA... a cura di Antonio Gatti.

GRANDE GUERRA, PICCOLO ESERCITO

(Absit Iniuria Verbis)

Alla vigilia della Grande Guerra, il Belgio si trovava nella scomoda posizione del vaso di coccio circondato da vasi di ferro. In Europa, ovviamente, non mancavano altri piccoli paesi, aspiranti alla neutralità più o meno marcata nel conflitto che stava per arrivare: quello che però rendeva particolarmente delicata la situazione belga, era il fatto che i piani di guerra di entrambi i due blocchi, Intesa e Triplice, prevedessero il coinvolgimento del Paese nel gigantesco scontro. Un coinvolgimento che il Belgio era deciso ad evitare, ma che realisticamente vedeva come sempre più probabile.
Per capire meglio la difficile situazione strategica belga nel 1914, occorre dare una occhiata agli avvenimenti politico-militari precedenti, partendo proprio dall’ultima guerra tra Francia e Germania, quella del 1870. Durante quel conflitto, nessuna delle due potenze aveva violato la neutralità belga; la strategia tedesca allora si era sviluppata attraverso una offensiva che aveva schiacciato l’esercito del Secondo Impero francese proprio contro la frontiera belga in una trappola per topi: l’esito fu l’intera cattura delle forze armate dai pantaloni rossi a Sedan con il loro Imperatore, Napoleone III. Negli anni seguenti al 1870 i belgi ritenevano, quindi, che la strategia germanica in caso di nuovo conflitto con la Francia potesse essere simile, dal momento che per il Secondo Reich sarebbe stato più conveniente cercare di schiacciare nuovamente i francesi nell’angusto spazio tra i forti confinari e la frontiera belga, piuttosto che tentare un attacco con l’ala destra dal nord, di fronte al quale i francesi si sarebbero potuti ritirare a sud, barattando lo spazio in cambio di tempo -come in effetti avvenne. Tuttavia, nel 1870 erano presenti delle condizioni che, nel 1914, non erano più replicabili: in primis, il massimo garante della neutralità belga, l’Inghilterra, non era più neutrale essa stessa. Nel 1870, la politica estera inglese era contraddistinta dalla legge dell’equilibrio: in parole povere, quelle teste matte di europei potevano massacrarsi ad oltranza finché volevano, purché da queste guerre non emergesse una potenza egemonica continentale (sullo stile del primo impero francese). La seconda clausola della legge dell’equilibrio prevedeva l’assoluta inviolabilità, da parte delle potenze continentali, della neutralità belga. Finché queste due clausole fossero stare rispettate, l’Inghilterra non avrebbe preso parte ai conflitti europei.


L’importanza del Belgio per l’Inghilterra era vitale e le due nazioni traevano reciproco beneficio dalla loro storica alleanza: l’Inghilterra poteva contare su un porto sicuro verso il continente, mentre il Belgio affidava al grande impero britannico la tutela della propria indipendenza di fronte alle potenze circostanti, considerate inequivocabilmente ostili (ricordiamo che era ancora vivo il ricordo dei tentativi di Francia e Olanda di esercitare un dominio sul Paese). Per l’Inghilterra, se i porti belgi fossero stati occupati da una potenza ostile – non necessariamente la Germania- il rischio di trovarsi tagliati fuori dal continente e di giocare un ruolo marginale, come durante le guerre napoleoniche, era concreto.
Questo quadro diplomatico cambiò, in ogni caso, con l’Entente cordiale del 1904. L’Inghilterra non era più neutrale ma, in caso di conflitto europeo, si sarebbe potuta trovare nell’esigenza di chiedere il contributo belga, anche solo sottoforma di supporto logistico, navale e portuale. Una situazione ben differente da quella del 1870 quando la Gran Bretagna ammonì severamente Francia e Germania sui rischi di violare la neutralità belga. Ora, nel nuovo scenario, la neutralità belga potenzialmente non esisteva più, anzi i militari inglesi parlavano già esplicitamente di come usare Anversa come appoggio per eventuali operazioni in Europa, anche se a livello diplomatico il ministro degli Esteri inglese, Lord Grey, reiterò l’impegno a mantenere la neutralità belga più volte, costringendo anche i francesi a farlo.

Naturalmente, anche i militari tedeschi facevano piani sul Belgio, con la differenza che in questo caso i diplomatici teutonici non si facevano molti scrupoli a cercare di spingere il Belgio dalla parte della Germania, come avvenne il 6 Novembre 1913, quando il Kaiser avvertì Alberto, re del Belgio, che sarebbe stato meglio per lui schierarsi con la Triplice Alleanza in caso di un conflitto europeo. Ormai i belgi non avevano bisogno di questi minacciosi avvertimenti per rendersi conto della loro situazione pericolosa. Le discussioni sulla strategia da mantenere si fecero intense: non mancava all’interno della leadership politico-militare belga una sorda diffidenza verso i potenziali alleati francesi; qualcuno suggerì che il Belgio si sarebbe dovuto comportare come alcuni piccoli Stati italiani e tedeschi nel XVII secolo, i cui territori erano stati ripetutamente violati dalle bande mercenarie delle potenze belligeranti, mantenendo comunque una rigida neutralità e limitandosi a proteste diplomatiche per non essere coinvolti nel conflitto. Ma il XX secolo non era il XVII, se il Belgio si fosse mantenuto neutrale anche in caso di invasione tedesca, l’Intesa avrebbe considerato il gesto come uno schierarsi dalla parte della Germania, come un lasciarle libero il passaggio verso la Francia. I belgi si resero insomma conto che l’unica alternativa sarebbe stata quella di combattere.
L’esercito belga era piccolo se paragonato a quello dei vicini, ma estremamente efficiente: per questo il titolo di questo articolo si riferisce alla piccolezza quantitativa non certo a quella qualitativa. Infatti, l’eccellente stato della rete ferroviaria belga riduceva di molto i tempi di mobilitazione; la favolosa rete di fortezze, facenti perno intorno a Namur e Liegi, era una delle più avanzate d’Europa; re Alberto si era occupato personalmente dei progressi delle sue forze armate; la tecnica delle armi pesanti era all’avanguardia.
Tuttavia, proprio l’unico vantaggio che aveva il Belgio e cioè la propria “innocenza” diplomatica, rischiava di trasformarsi in un’arma a doppio taglio. Infatti, per non dare adito alla Germania di accusare i belgi di aver mobilitato per primi, questi ultimi erano costretti a ritardare il più possibile ogni provvedimento di tipo militare. Basti pensare che le prime discussioni sulla mobilitazione tra le autorità ferroviarie e il capo di stato maggiore belga, generale de Selliers de Moranville avvennero solo il 29 luglio 1914. Questo handicap agevolò l’invasione tedesca, anche se gettò tutta la responsabilità esclusivamente addosso agli invasori.


L’esercito belga era, grosso modo, costituito da una forza mobile di 117,000 uomini, ai quali vanno aggiunti i 200,000 che si adoperavano attorno e dentro le fortezze ma che erano per diversi aspetti inadeguati per scontri in campo aperto (e viceversa). La strategia belga, comunque, inevitabilmente, ruotava intorno alla difesa delle fortezze: se i tedeschi fossero stati trattenuti abbastanza, c’era speranza nell’arrivo dei francesi. Liegi, in particolare, era il pezzo forte della struttura: difesa da un anello di 12 forti, che Erich Ludendorff, il quale l’aveva visitata negli anni precedenti la guerra, sosteneva di poter espugnare in “48 ore”. L’attacco cominciò il 5 agosto: probabilmente già la sera di quel giorno Ludendorff, a capo delle operazioni, si rese conto che la sua previsione era stata ottimistica: i tedeschi avevano sofferto perdite pesantissime. Il 6 Agosto, gli Zeppelin bombardarono la città (la prima, in Europa, a subire un attacco aereo) uccidendo 9 civili. Dalla Germania si cercavano di far arrivare i calibri più pesanti, con un piccolo apporto austriaco (gli asburgici erano considerati, a torto o ragione, specialisti di artiglieria da montagna di grosso calibro), ma le ferrovie intasate a causa della mobilitazione resero lenti i progressi. Liegi infine, inevitabilmente, cadde dopo 11 giorni. La sua eroica difesa colse i tedeschi di sorpresa e ritardò la loro avanzata – secondo i calcoli di Hew Strachan- di due giorni (cifra che probabilmente non cambiò nulla nello svolgersi della campagna, ma che certo incrinò qualche sicurezza).
Il “Belgio martire” non è solo una storia inventata dalla propaganda. Infatti, la sua invasione, comunque la si voglia giustificare con esigenze strategiche, fu un atto di sopruso, la sofferenza alla quale fu esposta la popolazione, enorme. Gli stessi invasori sentirono prudere la loro coscienza: Bethmann Holwegg, primo ministro tedesco, dichiarò pubblicamente che il torto fatto ora sarebbe stato dal Reich riparato più tardi con adeguate compensazioni. Francia e Inghilterra ebbero le loro responsabilità nel seguire, innanzitutto, la loro strategia, senza preoccuparsi molto di supportare il piccolo Paese del cui coinvolgimento erano essi stessi indirettamente responsabili.

PER CHI VUOLE APPROFONDIRE

-Bitsch, Marie-Therese, La Belgique entre la France et l’Allemagne

-Strachan, Hew: The First world War, vol 1: To Arms!

-Zuber, Terence: Ten Days in August. The Siege of Liege, 1914.



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