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domenica 12 gennaio 2020

BROOD

500_BROOD (The Brood); Canada, 1979. Regia di David Cronenberg.

In Canada, sul finire degli anni 70, venne introdotto il regime del tax-shelter, una sorta di agevolazione per chi volesse investire nell’industria cinematografica. Cronenberg ne approfitta per girare Veloci di mestiere, film a suo modo interessante che però, in fase di distribuzione, rimane vittima della precarietà di una situazione in cui in tanti si approcciavano al cinema con unici scopi speculativi. Successivamente la Vision 4, una piccola società che intende sfruttare il tax-shelter in modo più costruttivo, si accorda con Cronenberg per produrre The Sensitives, una versione aggiornata di Stereo, primo lungometraggio del regista che verteva sulla telepatia. Cronenberg si mette al lavoro in modo forsennato e si presenta allo studio con una sceneggiatura completamente diversa: nasce così Brood. Non è che il regista sia diventato di colpo completamente inaffidabile: è che la sua vita privata lo ha messo in una situazione di tale stress che il suo essere autore ne paga le conseguenze. La funzione catartica nella creazione artistica è sempre stata riconosciuta da Cronenberg, e non potrebbe essere diversamente visto che il suo primo film realizzato in grande stile (budget, attori di primo livello) è palesemente autobiografico. In ogni caso la sceneggiatura ha una tale forza che convince la produzione che avvalla il progetto per quello che sarà il primo film veramente mainstream di Cronenberg. I problemi famigliari del regista, la separazione, la disputa per la custodia della figlia, si riversano completamente in Brood, in fase di stesura iniziale in modo talmente travolgente da ostacolare la funzionalità autonoma della storia raccontata. 

Ma, alla fine, Cronenberg riesce addirittura a trovare un tale equilibrio, tra vicende personali ed esigenze narrative, che proprio la sua storia più vissuta, più sentita, risulta sullo schermo la sua proposta di cinema più classico, almeno all’interno di un genere comunque estremo come l’horror contemporaneo. Perlomeno fino a quel momento; e, ad onor del vero, va detto che i film di Cronenberg fino ad allora avevano ben poco di classico. In ogni caso, Brood è un film bellissimo: è avvincente e, soprattutto, terrificante. Ci sono davvero molti passaggi dove la suspense è gestita in modo magistrale e sfocia nella pura paura: Brood è la dimostrazione che Cronenberg potrebbe tranquillamente fare film meccanicamente paurosi di grande efficacia. 

Fin qui, l’approccio del regista era stato molto freddo, analitico; ma in Brood Cronenberg ha la necessità di sfogare sullo schermo la tensione, la frustrazione, la rabbia, della sua vita privata e riesce a farlo con naturalezza sfruttando in modo mirabile il mezzo cinematografico. La struttura del racconto, la messa in scena d’impatto, la coppia di attori importanti, fanno di Brood un film che risponde in pieno alle attese del grande pubblico; ma Cronenberg non rinuncia, per questo, al suo lavoro metalinguistico, anzi. E’ proprio con questo film che l’autore comincia a riflettere forse in modo compiuto sul suo ruolo di creatore di cinema; il tema della procreazione è infatti centrale in Brood

E’ un po’ come se gli eventi traumatici della vita dell’autore lo inducano ad una riflessione sulla natura metalinguistica specifica della sua opera: con Brood Cronenberg ci rivela perché è un regista e perché i suoi film sono così estremi. Il processo catartico permette all’artista di convertire i propri tormenti in arte e quindi i film, che sono frutti di un parto tanto doloroso, sono come i figli del regista. E’ un passaggio sorprendente per un autore che, fino ad allora, era anche sembrato freddo, lucido e razionale nelle sue gelide trasposizioni cinematografiche; ma, se da un lato una certa deriva melodrammatica si era già intuita più volte nella filmografia del regista, è anche vero che il processo di evoluzione artistica di Cronenberg, sempre in costante aggiornamento, compie un salto cruciale proprio con Brood. In modo spiazzante, se fino ad allora, con i suoi film più razionali (a loro modo) aveva cercato di dare una risposta alla natura umana, (nel radicale senso del duello tra psiche e corpo), con Brood, il suo lavoro più intimo e personale, mette al centro della scena la sua arte. In effetti la centralità della rappresentazione artistica ci introduce al film in una sequenza di grande effetto, di palese ispirazione teatrale, nella quale assistiamo ad una seduta del dottor Raglan (Oliver Reed), profeta della psicoplasmia e autore del best seller The shape of rage


Ecco che ritornano i temi cari a Cronenberg: la psicoplasmia è la capacità della mente di mutare il corpo, nello specifico dare forma fisica ai disturbi mentali in modo da poter essere curati. Nel fittizio libro del dottor Raglan pare ci si riferisca alla forma, intesa come aspetto fisico, concreto, tridimensionale, di un sentimento della mente, in questo caso la collera. Il rapporto tra mente e corpo è quindi quello già visto, sin da Stereo, il primo sperimentale lungometraggio del canadese, con il tentativo da parte della prima di controllare e modificare il secondo. In Brood questo aspetto si innesta sul processo catartico per andare a spiegare la natura della produzione artistica, nello specifico, essendo quello di Cronenberg un cinema metalinguistico, riferito proprio alla settima arte. I figli deformi di Nola (Samantha Eggar) sono i film di Cronenberg: creature orrorifiche generate dalla rabbia. E’ una confessione non da poco per quello che era apparso, almeno fino ad allora, un autore prevalentemente razionale e controllato, sebbene poi parlasse sempre della perdita di quel controllo. Ma se precedentemente ci aveva riferito della società canadese come forza opprimente, con Brood Cronenberg ci rivela anche la rabbiosa reazione a questa oppressione che cova nel suo animo più profondo. 


Nel film, l’origine dell’orrore, orrore incarnato nelle inquietanti repliche di Candice, la figlia di Nola, è legata ai sentimenti della donna, che vive in malo modo la crisi famigliare. Cronenberg sembra estendere questa sensazione rabbiosa in una spirale infinita: Nola e suo marito Frank (Art Hindle) sono in crisi esattamente come lo erano stati i genitori di lei e il finale si chiude su un’inquietante rivelazione a proposito di Candice. E’ infetta come la madre e quindi portatrice del contagio. La spirale non è stata spezzata.
Come detto, Brood rappresenta un importante affinamento della tecnica cinematografica del regista; ora può azzardare un’impostazione più convenzionale senza che questa snaturi, svilisca, la sua singolare e alternativa poetica. 

Al contrario, il film fin qui più classico di Cronenberg è quello che completa ulteriormente il lavoro del regista. L’importanza del cinema, come strumento di analisi, risiede nella sua natura mutevole, nel suo essere immagini in movimento. Per enfatizzare questo aspetto che conferisce al cinema la capacità di cogliere il disagio, l’infezione, Cronenberg utilizza il contrasto con l’immagine fissa, la fotografia. E’ un tema costante, nella sua filmografia, dove fino ad allora il caso più eclatante erano state le diapositive dell’Arca di Noè in Il demone sotto la pelle, che mostravano una situazione idilliaca, falsa e smentita dal media cinema nel proseguo del film. In Brood Art fotografa la schiena di sua figlia Candice per documentarne la malattia ma in Cronenberg, giustamente, l’immagine fissa non ha questo grande valore oggettivo. E’ solo la capacità di indagine, di infilarsi in ogni pertugio, di inquadrare da tutti i punti di vista, che permette al cinema di rivelare il vero stato delle cose. Non sempre succede, per la verità; spesso anche il cinema sorvola sugli aspetti malati della società limitandosi a mostrare quello che funziona. Ma nella società non è tutto funzionale.     
E svelare quell’anomalia è, in sostanza, il ruolo del cinema di David Cronenberg.   




Samantha Eggar








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