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sabato 18 gennaio 2020

LA LEGGENDA DEL RUBINO MALESE

506_LA LEGGENDA DEL RUBINO MALESE ; Italia, 1985. Regia di Antonio Margheriti.

Indovinello: siamo dalle parti della Malesia, c’è un pirata che chiamano Tigre e un personaggio chiamato Yanez. No, non è il Sandokan di Sergio Sollima, ma La leggenda del rubino malese di Antonio Margheriti. A parte questi evidenti omaggi allo sceneggiato con Kabir Bedi, il film di Margheriti si iscrive principalmente nella scia de I predatori dell’Arca perduta, pellicola del 1981 di Steven Spielberg che darà luogo ad una nuova corrente di film avventurosi negli anni 80. L’idea di Spielberg era certamente geniale e, oltre ai sequel del capostipite, si contarono molti altri esempi nel genere, anche illustri come All’inseguimento della pietra verde di Robert Zemeckis del 1984. La Immagine, la casa di produzione italiana di La leggenda del rubino malese, non poteva certo competere in fatto di budget con questi prodotti di Hollywood ma non è tanto questo che va ad incidere sulla completa riuscita del film di Margheriti. Perché, pur se non si tratta certo di un capolavoro, La leggenda del rubino malese è un film divertente e appassionante, infarcito da riferimenti metalinguistici che sottolineano la passione del regista per il suo lavoro; peccato per qualche inciampo di troppo al di là dei prevedibili limiti di budget. Oggi, infatti, con uno sguardo benevolo su quei tempi, si può benissimo tollerare un vulcano posticcio; nel corso degli anni se ne sono visti anche nel cinema di Hollywood, del resto. E chiudiamo volentieri anche un occhio per qualche approssimazione nell’intreccio narrativo, perché ben mascherata dal ritmo incalzante, del resto Margheriti ci sa fare. E’ certamente più faticoso accettare la scena del bambino che discute con un serpente (un cobra dagli occhiali), o anche l’idea che il pirata della storia, il citato Tigre, utilizzi l’enorme rubino al centro della ricerca come ornamento del suo copricapo invece di pensare a venderselo e usare il ricavato per organizzarsi militarmente. Qualche perplessità anche sulla scelta dell’interprete femminile, Marina Costa, (che è Maria Janez) la cui presenza scenica non irresistibile non regge la parte che la storia le riserva. Va un po’ meglio sul versante maschile, dove Christopher Connelly (nella parte di capitan Yankee) se la cava in modo più che sufficiente, aiutato dal mestiere di Luciano Pigozzi (nel ruolo di Gin Fizz). 


L’incipit del film è un chiaro tributo a I predatori dell’Arca perduta, con cui la pellicola di Margheriti condivide anche il periodo d’ambientazione, gli anni ’30 del XX secolo, ma poi il regista dispensa una serie di omaggi destinati quasi tutti a produzioni italiane, non solo cinematografiche. Qualche passaggio, specie all’inizio, richiama infatti il genere cannibal, che ha furoreggiato per anni nella penisola, c’è poi l’inseguimento delle auto stile poliziotteschi (sebbene in trasferta esotica) infine Lee Van Cleef (è Warren), dopo le prime scene, si presenta vestito di nero col cappello da cow boy proprio come nei tanti spaghetti western interpretati. Del richiamo, anzi, dei vari richiami al Sandokan si è detto, e già che ci siamo approfittiamone per lasciare il cinema, (visto che quella di Sollima era una produzione televisiva), per occuparci di un altro media citato da Margheriti. Il vestiario di capitan Yankee non può non ricordare Corto Maltese, il fumetto di Hugo Pratt che viveva spesso le sue avventure in luoghi esotici. Ma in tema di fumetti, il protagonista del film richiama forse maggiormente il Mister No protagonista di una collana scritta da Sergio Nolitta (nome d’arte di Sergio Bonelli) per i disegni, tra gli altri, di Roberto Diso. Del resto molti passaggi narrativi del film hanno lo spessore tipico di quelli delle storie con le nuvole parlanti, in genere meno realistici e più confidanti nella fantasia del lettore rispetto a quanto abitualmente avvenga nelle produzioni cinematografiche. 

Anche ricordando il passaggio del bambino col cobra, ma non solo, in questo senso Margheriti esagera un po’ ma va detto, ad onor del vero, che questa è una caratteristica comune a tutto quanto il filone avventuroso degli anni 80. Anni 80 a cui il film decide di ascriversi pienamente e non solo per gli inguardabili credits tipici del tempo: Maria Yanez, nell’ultima scena, decide di tenersi il rubino e non cederlo al museo a cui era destinato. Anzi, del museo sembra ironicamente nemmeno ricordarsene. Ecco, in questa capacità opportunistica di dimenticarsi ogni cosa, scrupoli morali compresi, per cogliere al volo le occasioni, è ben sintetizzato il decennio del vuoto pneumatico.
Ed è un peccato che Margheriti ci caschi in pieno.     



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