Translate

venerdì 10 gennaio 2020

IL PROFUMO DELLA SIGNORA IN NERO

498_IL PROFUMO DELLA SIGNORA IN NERO ; Italia, 1974. Regia di Francesco Barilli.

Il thriller all’italiana dei primi anni settanta aveva mostrato sin da subito come fosse possibile svincolarsi dai ferrei codici narrativi della sceneggiatura anche in un genere che si era abituati a pensare vi dovesse invece giocoforza sottostare. Questa consuetudine narrativa, spesso anche deleteria, dava la possibilità all’autore di concretizzare sullo schermo la visionarietà estrema che contraddistinse il filone cinematografico. In genere la possibilità di non rispettare alla lettera la coerenza all’interno della sceneggiatura, fu usata per piazzare colpi di scena del tutto imprevisti proprio perché assolutamente imprevedibili in quanto estranei ad ogni logica narrativa. Ma ci fu anche chi, come Francesco Barilli in Il profumo della signora in nero, utilizzò questa libertà narrativa in modo diverso, certamente più interessante. Con un occhio al thriller all’italiana, certo, ma con l’altro ben piantato sul cinema di Roman Polanski, Barilli intesse la sua storia di tanti elementi, alcuni coerenti, altri meno, o forse coerenti con la visione della realtà della sua protagonista, Silvia Hackermann (una deliziosa Mimsy Farmer). Questa giovane ragazza ha un lavoro di responsabilità, un fidanzato, Roberto (Maurizio Bonuglia) e una vita che sembra filare per il meglio; siamo a Roma, ma una Roma estiva e non proprio consueta, intanto perché sembra quasi deserta. Silvia e Roberto sono giovani, di bella presenza e lavorano per aziende importanti: è normale, alla metà degli anni 70, che frequentino amici o colleghi stranieri, come Andy (Jho Jhenkkins), professore di sociologia che arriva dall’Africa. La presenza di questo personaggio sembra un pretesto per Barilli per introdurre il tema un po’ inquietante circa le usanze che ancora sono diffuse nel continente nero

Riferimenti alla magia nera, alla stregoneria: si tratta di scherzi, per intimorire un po’ Silvia, che sembra effettivamente impressionabile. Magari di cattivo gusto, ma rimangono pur sempre scherzi. Forse. Poi è la volta della non vedente che si spaccia per medium, o forse lo è per davvero, in grado di leggere la mente delle persone; e questo è un altro elemento che inquieta la povera protagonista. Si è detto che il film è ambientato a Roma, d’estate; una Roma silenziosa, ovattata, semideserta. Il ritmo di Barilli è calmo, la melodia di Nicola Piovani è malinconica ma, alla lunga, diventa inquietante. Silvia ha uno screzio con Roberto, che la lascia sola; il vicino di casa, il sig. Rossetti (Mario Scaccia), un vedovo attempato un po’ invadente, da un lato sembra voler essere una presenza rassicurante per la giovane, dall’altro ha un che di ambiguo. Poi c’è Francesca (Donna Jordan, fantastica top model dell’epoca) , l’amica che abita nello stesso palazzo, ma anche lei non ha un comportamento molto lineare. Silvia comincia ad avere sogni, incubi, visioni, ricordi: qualcosa del suo passato era stato rimosso, e torna ora ad affiorare. Il padre marinaio lontano da casa, la madre, la signora in nero del titolo e il brutale uomo che era con lei… 


Ma, parallelamente a questa storia che sembra ispirarsi un po’ a Marnie di Alfred Hitchcock, anche la traccia complottista procede: Silvia nota un vaso in un negozio, è del tutto simile a quello che aveva sua madre, quando lei era bambina. Torna successivamente per comprarlo; la negoziante nega di aver mai avuto un simile vaso in vetrina. Arriva un pacco a casa di Silvia: è naturalmente il vaso in questione. Questo intreccio è un passaggio tipico del thriller all’italiana: si danno informazioni in contraddizione, per generale nello spettatore uno spiazzamento simile al disagio che prova il personaggio della vicenda. Per quale motivo la negoziante ha mentito? 

E chi recapita il vaso a casa di Silvia? Barilli è bravo, perché la presenza della negoziante tra i membri di quella che si rivelerà essere una setta, pone una sorta di pezza giustificativa sufficiente; così come la presenza tra quelle stesse fila dell’amante della madre riesce a colmare alcune apparenti lacune della trama. Lui era infatti a conoscenza di molti aspetti legati all’infanzia della protagonista, presumibilmente ignoti agli altri adepti. Oltre a ciò, costituisce il ponte ideale per le due tracce, quella sul passato di Silvia e quella della setta. Al netto della coerenza generale della sceneggiatura e di tutti i suoi risvolti, il regista prosegue imperterrito con le sue immagini eleganti e raffinate e il reiterato rimando ad Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, supporta doppiamente l’opprimente operazione narrativa. 

Da una parte ci offre un parallelo (e una implicita giustificazione) sulla presunta assurdità degli avvenimenti, dall’altra ci indica che Silvia, nella sua follia, sta ritornando ai tempi della sua infanzia, tanto che ad un certo punto ritrova per casa sé stessa bambina. Dopo il lento e avvolgente sviluppo, il finale presenta una doppia iperbole: se la follia che ormai si è impadronita della protagonista sorprende fino ad un certo punto, la vera chiusura è traumatizzante. Mentre prendono corpo le prove che Silvia aveva ormai completamente perso il senno, tanto che il primo finale era evidentemente solo frutto della sua fantasia, i personaggi visti nel film intorno alla ragazza si scopre che sono effettivamente aggregati in una setta. Ma, non solo.

Il passaggio più allucinante è che si tratta di una congrega antropofaga. In questo senso acquista un significato la presenza di Andy coi suoi discorsi sui riti africani: seppure non vengono mai citati, è chiaro che i riferimenti alla pratica del cannibalismo aleggiavano sulle sue parole e trovano nel finale una concreta forma visiva. Tra l’altro, Barilli era stato co-sceneggiatore de Il paese del sesso selvaggio (di Umberto Lenzi, 1972), capostipite del genere cannibal, che furoreggerà in Italia per un decennio abbondante. Questa deriva de Il profumo della signora in nero è curiosa, perché l’eleganza formale del film di Barilli sembra davvero avere poco a che spartire col tipico cannibal-movie

Ma si è già visto, la cifra stilistica dell’opera del regista nato a Parma, sembra proprio la contaminazione tra situazioni apparentemente tra loro alternative: cosa genera i disturbi di Silvia, il suo passato o un complotto ordito ai suoi danni? Tutte e due: il trauma infantile è alla base delle visioni, ma queste sono alimentate dai membri della setta. Il finale con la deriva antropofaga in un certo senso aiuta a rendere maggiormente esplicite quelle che in seguito furono le motivazioni alla base del genere cannibalesco. 

Lo sviluppo industriale e l’imminente crisi, la violenza dilagante, il sostanziale fallimento delle teorie sociali che avevano animano la contestazione sessantottina, preannunciavano un re-imbarbarimento sociale (che sarebbe in effetti sopraggiunto). Il genere cannibal portò sullo schermo proprio queste istanze sociali; ma lo fece in un contesto genericamente avventuroso, esotico, e quindi remoto. In effetti era un fenomeno ambiguo: lo spettatore veniva appagato della sua fame cannibale, ma ambientando la storia nella giungla se ne teneva, in un certo senso, sopita la coscienza. Si coglieva il fascino che la barbarie aveva sull’uomo (post)moderno, ma la si manteneva a distanza di sicurezza. Barilli, anche se il suo film è stilisticamente raffinato, prende il toro per le corna: c’è sì un africano nella storia ed è cannibale, ma soltanto quanto noi.  


Mismy Farmer





Donna Jordan












Nessun commento:

Posta un commento