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lunedì 27 gennaio 2020

IL FIGLIO DI SAUL

511_IL FIGLIO DI SAUL (Saul Fia); Ungheria, 2015. Regia di Làszlò Nemes.

E’ sempre arduo l’approccio ad un film sull’Olocausto: è una tragedia immane, quindi difficile da maneggiare, sia per lo spettatore, ma ancor più per il regista. La componente storica è di una tale portata, che diventa complicato sovrapporvi un trama, un canovaccio, per rendere seguibile la pellicola; a meno di non fare un documentario storico, ma anche lì bisognerebbe capire se il mostrare semplicemente immagini può bastare a rendere efficacemente l’immensità dell’orrore dei lager. In ogni caso Il figlio di Saul non è certo un documentario storico. Il film, opera prima del regista Làszlò Nemes, è anzi qualcosa di diametralmente opposto: se un documentario dovrebbe dare una visione oggettiva, distaccata, quello di Nemes è un viaggio fianco fianco al protagonista, il Saul (Géza Röhrig, molto efficace nella parte) del titolo; anzi, più che a fianco, il film ce lo fa tallonare da vicinissimo, attaccati alle sue spalle o, in alternativa, proprio guardandolo sull’inespressivo volto, ma sempre a distanza ravvicinata. La scelta del formato 4:3 non ci lascia nessuno scampo: siamo a faccia faccia con Saul. L’idea di Nemes è, cinematograficamente, geniale: per mostrare quello che non è mostrabile, sceglie di puntare principalmente la macchina da presa non sui forni o sui corpi degli ebrei uccisi, ma sul volto di un testimone oculare. L’indifferenza apatica di Saul, la sua disumanizzazione, è resa magistralmente dalla messa in scena del regista, che non ci concede nessuna tregua, proprio come non erano concesse ai membri del Sonderkommando, sorta di collaborazionisti ebrei operanti nei lager di cui il protagonista fa parte. 

Non c’è nessuna storia da raccontare, in questo film; come Saul siamo costretti in un autentico inferno, e non c’è nessuna speranza, nessun fine da perseguire. Il tentativo di rivolta, che potrebbe avere un senso narrativo, viene vissuto con totale indifferenza da Saul, che ha però un sussulto quando si impone di dare degna sepoltura al corpo di ragazzo in un primo momento scampato alle camere a gas (e poi finito da un dottore nazista). Quel ragazzo per Saul diventa suo figlio, in un tentativo estremo di riprendersi un po’ di umanità, e un funerale un minimo degno di questo nome diventa più importante di qualsiasi ribellione armata.

L’apparente non-senso di quella scelta, sacrificare tutto per una cerimonia funebre, e quindi di scarso significato pratico, vale ancora oggi come monito: misurare tutto in termini di convenienza, può farci perdere la nostra umanità. E questo, alla fin fine, sarebbe assai meno conveniente di quanto ci possano apparire anche quelle spiacevoli conseguenze di alcune scelte che il nostro senso etico/morale dovrebbe sempre imporci. L’Olocausto, con i registri di Adolf Eichmann ben documentati e i conti in perfetto ordine, le teorie sulla soluzione finale, nella loro distorta ottica anche deduttive se non propriamente logiche, ma lo stesso fenomeno delle idee naziste, sviluppatesi nella culla della cultura legata alla ragion pura, sono tutti elementi che devono tenerci sempre in guardia.

La ragione, (e tutti i suoi derivati, buon senso, convenienza, e perfino una sua deviazione come l’opportunismo), deve essere sempre soggetta all’etica.
E’ un insegnamento validissimo nel nostro quotidiano. Certo, i tempi odierni, per quanto complicati non possono competere con quelli vissuti da Saul ma, di fronte a quello a cui assistiamo, la nostra indifferenza ha un velo che ricorda la sua prima della cruciale e salvifica scelta. 

   


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