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lunedì 7 maggio 2018

IL MESTIERE DELLE ARMI

143_IL MESTIERE DELLE ARMI  Italia, 2001;  Regia di Ermanno Olmi.

Le Guerre d’Italia della prima metà del XVI secolo sono un periodo storico non solo cruciale per i secoli a venire, ma anche interessante e ricchissimo di spunti narrativi. Ci furono personaggi leggendari tra cui il Giovanni delle Bande Nere protagonista del film Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi. Eppure il nostro cinema non ha mai sfruttato realmente a fondo questo periodo, diversamente, per esempio, da quanto fatto ad Hollywood con la conquista del west; ci sarà pure un motivo per questo, ma per restare attinenti all’opera in questione, basti sapere che un personaggio come Giovanni dalle Bande Nere sarebbe l’ideale modello per decine di film di avventura, ben più di tanti eroi western. E, in ogni caso, anche ad Olmi non interessa celebrare l’eroe, il mito del valoroso cavaliere; e nemmeno il periodo storico che ha dato il via al Rinascimento. Il film si apre con un funerale, quello di Giovanni de’ Medici detto delle Bande Nere, e si chiude con lo stesso evento, mettendo così come corpo portante della struttura circolare dell’opera, gli ultimi giorni di vita del valoroso condottiero. Se narrativamente a morire è l’eroe di tante battaglie, il racconto di Olmi sembra più che altro ufficiare la morte del mestiere del cavaliere; un ordine, come fa notare lo stesso Giovanni in punto di morte, che è paragonabile per dedizione, lealtà e senso dell’onore, a quello religioso. Nel medioevo i cavalieri, gli uomini d’arme, avevano un codice d’onore, che l’avvento dell’era moderna disconosce: in uno degli episodi di battaglia, i lanzichenecchi astutamente si ritirano evitando lo scontro, e sebbene sia per calcolo strategico e non vigliaccheria, non è certo visto dagli italiani come un qualcosa di cui farsi vanto. 

Già quel confronto metteva in risalto la più moderna concezione di strategia militare degli alemanni rispetto a quella più tradizionale italiana. Ma è soprattutto l’introduzione delle armi da fuoco pesanti a spostare gli equilibri, a rendere inutili il valore e il coraggio tanto quanto le corazze e gli scudi. L’età moderna metterà in pensione il mestiere delle armi come era stato inteso nei secoli precedenti, e le innovazioni tecniche prenderanno una rilevanza via via sempre maggiore. La morte di Giovanni delle Bande Nere per mezzo di un falconetto (un innovativo pezzo di artiglieria leggera) è quindi un momento simbolico perfetto per rappresentare il passaggio storico: un grande e valente condottiero, ucciso in modo banale dal colpo di un’arma sì moderna, ma nemmeno così cruciale, e che non raggiungerà mai più una simile ribalta. Olmi sfodera tutta la sua fedeltà narrativa, e con grande rigore ricostruisce in modo credibile gli ultimi giorni di Giovanni; un’attendibilità che usa per dimostrare come la guerra fosse pesante da sopportare per il freddo e la fame almeno quanto per i pericoli in combattimento. Non c’è nulla di epico nella guerra del film del regista lombardo, ma solo fugaci scontri in una pianura piena di freddo, umidità, privazioni, sporcizia.

Giovanni delle Bande Nere è interpretato in modo eccellente dall’attore bulgaro Hristo Jivkov, ed è un nobile valoroso; ben diverso dai suoi pari, i signori di Mantova e Ferrara, viscidi, servili e timorosi di perdere quei privilegi che consentono loro una vita agiata anche in quei tempi difficili. Il marchese di Mantova Federico Gonzaga cede, infatti, il passaggio ai Lanzichenecchi, mentre ostacola le truppe di Giovanni; peggio di lui fa il duca di Ferrara Alfonso d’Este che fornisce alle truppe tedesche i pezzi d’artiglieria che saranno fatali al condottiero italiano.

Il problema che si pongono questi nobili è solo che le truppe germaniche passino il più velocemente possibile attraverso le loro terre e, per far questo, non esitano a favorirle nello scontro con i pontifici di Giovanni, tradendo quelli che erano fino allora gli accordi. E allora viene anche facile capire perché questi episodi non siano stati celebrati tanto spesso dal nostro cinema: in essi si vede già la matrice infingarda che purtroppo ha contraddistinto troppo spesso le gesta italiche, con tradimenti e viltà all’unico scopo di salvare il proprio tornaconto. In questo senso, ahinoi, il film è rimasto moderno, attuale, visto che ancora oggi in Italia si ha la prassi di pensare sempre all’interesse privato e mai a quello collettivo. 

E anche le considerazioni di Giovanni circa le proprie truppe, reputate poco inclini alla disciplina al cospetto delle molto più organizzate e ordinate tedesche, sono rimaste maledettamente valide anche, e purtroppo, parlandone fuori dal contesto militare. Da un punto di vista tecnico, differentemente rispetto a quanto non faccia in genere il cinema, Olmi non attualizza la forma delle vicende per renderle comprensibili al pubblico moderno. Non adegua cioè la storia narrata al linguaggio attuale ma, piuttosto, cerca di ottimizzare lo strumento cinematografico per riportarci completamente nella Pianura Padana nel 1526. Un’operazione che gli riesce compiutamente e, se questo rende la pellicola meno facile alla visione, le conferisce grandissimo fascino.


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