150_MOBY DICK, LA BALENA BIANCA (Moby Dick). Stati Uniti, 1956; Regia di John Huston.
Chi, se non un regista come John Huston, poteva
tradurre in film un caposaldo della letteratura universale come il Moby Dick di Melville? L’autore statunitense possiede il piglio
giusto, l’audacia e la spavalderia per fronteggiare una simile materia senza
vacillare, e possiede anche tutto il bagaglio tecnico per non commettere errori
dal punto di vista grammaticale in senso strettamente cinematografico. Perché
ridurre un libro in un film è sempre difficile, figuriamoci un capolavoro come
quello di Melville, che ha dato luogo per di più ad una marea di
interpretazioni su quello che possono essere i significati sottesi alla storia
narrata. Huston lavora concentrandosi sull’aspetto più consono alla sua natura,
ovvero la sfida tra l’uomo e la creatura, la balena bianca, che in fin dei
conti è il punto nevralgico anche del romanzo. Moby Dick è visto come una sorta
di dio, una manifestazione di estrema superiorità della Natura; la sfida
personale che gli lancia il capitano Achab è un supremo azzardo, un atto
apparentemente folle. Non è però volgare pazzia, quella dell’uomo, ma anzi
l’esaltazione della natura umana stessa, l’enfatizzazione di una parabola che
nasce dalla volontà di non piegarsi al fato, al Destino, e quindi a Dio. E che
su questa china si spinge molto più in là: Moby
Dick ci parla della vendetta contro il dio carnefice e, in questo senso, in
questa sfida a Dio, quella di Achab (e di Huston) è una bestemmia, e ha tutta
la forza urlante di un insulto sprezzante all’Onnipotente.
Naturalmente la grammatica, non solo cinematografica, dell’autore nasconde a dovere la blasfemia, ma il senso profondo di disagio nell’ostinazione di vedere morta una simile meraviglia della Natura rimane, anche senza essere animalisti. Il capitano ha sicuramente perso il senno, ma
questo ne ha esaltato alcuni aspetti che sono tipicamente umani: la voglia di
uccidere, di ergersi a giudice e boia, il liberare la propria natura violenta.
Attitudini tipiche dell’uomo, che trovano sfogo nella guerra e nella caccia;
grazie a questa indole, comune a tutti gli uomini, Achab non fa poi molta fatica
a convincere l’equipaggio (Starbuck, suo secondo ufficiale a parte) nella sua folle
competizione mortale contro la balena. Ma non è la generica fame di violenza
tipicamente umana il nocciolo della questione: quello che spaventa in Moby Dick è l’esaltazione nella sadica
libertà di scelta, libertà di scegliersi un bersaglio su cui poi scatenare il
nostro risentimento, il nostro rancore. E la suprema esaltazione consiste
proprio nel scegliersi il bersaglio più grosso. La balena bianca del racconto è
un capodoglio, un cetaceo dalle enormi dimensioni, e quindi rappresenta la
suprema forza esistente in natura; che Moby Dick sia poi un gigante nella sua
specie fa di lui addirittura un’espressione sovrannaturale. E il fatto che sia
bianca ne conferma l’unicità, la riconoscibilità, e permette di indirizzare, di
veicolare, l’odio del capitano, e quindi di esaltarlo e non disperderlo.
Moby Dick è l’essere più grande e forte al mondo, le sue dimensioni e la sua peculiare colorazione permettono questa affermazione: e permettono all’uomo di potersi scegliere l’avversario più potente, per il puro gusto di non avere remore nello sfogare la propria indole rabbiosa. Scegliersi in nemico più forte sgombra il campo da ogni possibile accusa di prepotenza o vigliaccheria, e libera moralmente la voglia di violenza. Perché se Achab accampava scuse o pretesti, la balena gli
aveva tolto la gamba, per provare (senza riuscirci) a motivare la propria
vendetta personale contro il gigante, come mai il più assennato Starbuck, il
secondo ufficiale, l’unico da sempre restìo a seguire la pazzia del capitano, alla fine ne raccoglie la sfida?
Quali sono i motivi che lo spronano a dare l’ultimo, folle, mortale e suicida assalto al gigante del mare? Non ci sono; o meglio, quelli che adduce Starbuck (“Moby Dick non è il diavolo è una balena. Gigantesca d’accordo, ma una balena e niente più. E noi siamo balenieri e niente meno. Noi non fuggiamo le
balene, le uccidiamo. Uccideremo Moby Dick!”) fuori dal quel disperato
contesto rientrano nella normalità dell’attività umana. Quello che era
eccezionale per il capitano Achab, una missione superiore alla ragione, diviene
invece mero dovere per il suo secondo. Insomma, non servono particolari
motivazioni se non l’esaltazione di compiere un supremo e immotivato atto di
ingiustizia, forse la più grande libertà concessa all’uomo; ovvero la messa in
pratica di quello che rappresenta la bestemmia.
Huston filma tutto questo con qualche difficoltà dal punto
di vista tecnico degli effetti scenici: per quanto spaventosa la sua balena
bianca non è sempre credibilissima. Però fa’ un grandissimo lavoro in tutto
quello che gli compete direttamente, con una regia puntuale nel seguire le
vicende narrate. Sopraffina la prima parte, con i colori e le immagini del porto
resi in modo molto evocativo; notevole la sequenza della funzione, (c’è Orson
Welles nei panni di padre Mapple) e struggente, ma in modo totalmente sobrio,
la carrellata di primi scavatissimi piani sulle donne che salutano i marinai
sul molo: bestemmie anche queste, mute e rassegnate, contro il dio del mare.
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