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lunedì 21 maggio 2018

MOBY DICK, LA BALENA BIANCA

150_MOBY DICK, LA BALENA BIANCA (Moby Dick). Stati Uniti1956;  Regia di John Huston.

Chi, se non un regista come John Huston, poteva tradurre in film un caposaldo della letteratura universale come il Moby Dick di Melville? L’autore statunitense possiede il piglio giusto, l’audacia e la spavalderia per fronteggiare una simile materia senza vacillare, e possiede anche tutto il bagaglio tecnico per non commettere errori dal punto di vista grammaticale in senso strettamente cinematografico. Perché ridurre un libro in un film è sempre difficile, figuriamoci un capolavoro come quello di Melville, che ha dato luogo per di più ad una marea di interpretazioni su quello che possono essere i significati sottesi alla storia narrata. Huston lavora concentrandosi sull’aspetto più consono alla sua natura, ovvero la sfida tra l’uomo e la creatura, la balena bianca, che in fin dei conti è il punto nevralgico anche del romanzo. Moby Dick è visto come una sorta di dio, una manifestazione di estrema superiorità della Natura; la sfida personale che gli lancia il capitano Achab è un supremo azzardo, un atto apparentemente folle. Non è però volgare pazzia, quella dell’uomo, ma anzi l’esaltazione della natura umana stessa, l’enfatizzazione di una parabola che nasce dalla volontà di non piegarsi al fato, al Destino, e quindi a Dio. E che su questa china si spinge molto più in là: Moby Dick ci parla della vendetta contro il dio carnefice e, in questo senso, in questa sfida a Dio, quella di Achab (e di Huston) è una bestemmia, e ha tutta la forza urlante di un insulto sprezzante all’Onnipotente.

Naturalmente la grammatica, non solo cinematografica, dell’autore nasconde a dovere la blasfemia, ma il senso profondo di disagio nell’ostinazione di vedere morta una simile meraviglia della Natura rimane, anche senza essere animalisti. Il capitano ha sicuramente perso il senno, ma questo ne ha esaltato alcuni aspetti che sono tipicamente umani: la voglia di uccidere, di ergersi a giudice e boia, il liberare la propria natura violenta. Attitudini tipiche dell’uomo, che trovano sfogo nella guerra e nella caccia; grazie a questa indole, comune a tutti gli uomini, Achab non fa poi molta fatica a convincere l’equipaggio (Starbuck, suo secondo ufficiale a parte) nella sua folle competizione mortale contro la balena. Ma non è la generica fame di violenza tipicamente umana il nocciolo della questione: quello che spaventa in Moby Dick è l’esaltazione nella sadica libertà di scelta, libertà di scegliersi un bersaglio su cui poi scatenare il nostro risentimento, il nostro rancore. E la suprema esaltazione consiste proprio nel scegliersi il bersaglio più grosso. La balena bianca del racconto è un capodoglio, un cetaceo dalle enormi dimensioni, e quindi rappresenta la suprema forza esistente in natura; che Moby Dick sia poi un gigante nella sua specie fa di lui addirittura un’espressione sovrannaturale. E il fatto che sia bianca ne conferma l’unicità, la riconoscibilità, e permette di indirizzare, di veicolare, l’odio del capitano, e quindi di esaltarlo e non disperderlo.

Moby Dick è l’essere più grande e forte al mondo, le sue dimensioni e la sua peculiare colorazione permettono questa affermazione: e permettono all’uomo di potersi scegliere l’avversario più potente, per il puro gusto di non avere remore nello sfogare la propria indole rabbiosa. Scegliersi in nemico più forte sgombra il campo da ogni possibile accusa di prepotenza o vigliaccheria, e libera moralmente la voglia di violenza. Perché se Achab accampava scuse o pretesti, la balena gli aveva tolto la gamba, per provare (senza riuscirci) a motivare la propria vendetta personale contro il gigante, come mai il più assennato Starbuck, il secondo ufficiale, l’unico da sempre restìo a seguire la pazzia del capitano, alla fine ne raccoglie la sfida? 

Quali sono i motivi che lo spronano a dare l’ultimo, folle, mortale e suicida assalto al gigante del mare? Non ci sono; o meglio, quelli che adduce Starbuck (“Moby Dick non è il diavolo è una balena. Gigantesca d’accordo, ma una balena e niente più. E noi siamo balenieri e niente meno. Noi non fuggiamo le balene, le uccidiamo. Uccideremo Moby Dick!”) fuori dal quel disperato contesto rientrano nella normalità dell’attività umana. Quello che era eccezionale per il capitano Achab, una missione superiore alla ragione, diviene invece mero dovere per il suo secondo. Insomma, non servono particolari motivazioni se non l’esaltazione di compiere un supremo e immotivato atto di ingiustizia, forse la più grande libertà concessa all’uomo; ovvero la messa in pratica di quello che rappresenta la bestemmia.
Huston filma tutto questo con qualche difficoltà dal punto di vista tecnico degli effetti scenici: per quanto spaventosa la sua balena bianca non è sempre credibilissima. Però fa’ un grandissimo lavoro in tutto quello che gli compete direttamente, con una regia puntuale nel seguire le vicende narrate. Sopraffina la prima parte, con i colori e le immagini del porto resi in modo molto evocativo; notevole la sequenza della funzione, (c’è Orson Welles nei panni di padre Mapple) e struggente, ma in modo totalmente sobrio, la carrellata di primi scavatissimi piani sulle donne che salutano i marinai sul molo: bestemmie anche queste, mute e rassegnate, contro il dio del mare.




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