149_IO CONFESSO (I confess). Stati Uniti, 1953; Regia di Alfred Hitchcock.
Alfred Hitchcock non fu particolarmente soddisfatto
di questo film, al quale, secondo lui, mancava uno sguardo ironico che
alleggerisse un po’ la presunta pesantezza della vicenda. Dato l’argomento
trattato, probabilmente non si trattava ovviamente di spargere un po’ di umorismo
qua e là, quanto di filmare la drammaticità del racconto con una sorta di
complicità condivisa con lo spettatore. Perché l’impressione di Hitch era il
che il film fosse un po’ troppo pesante;
ora, è indiscutibile che un certo grado di morbosità l’intrigo ce l’abbia, e
forse anche eccessivo. Ma questo è dovuto alla presenza, al centro della scena,
di un prete, un prete cattolico, per la precisione; e allora dobbiamo ammettere
che anche noi, nel momento in cui diamo maggior rilievo alla cosa, siamo un po’
come i cittadini di Quebec City nel finale, quando circondano con fare
accusatorio il povero padre Logan (uno strepitoso Montgomery Clift, che da solo
vale il cosiddetto prezzo del biglietto).
C’è forse un po’ di moralismo, insomma, nel nostro eventuale sottolineare che
il prete aveva avuto una storia d’amore e che potesse, sotto sotto, essere
ancora innamorato della sua vecchia
fiamma (Ruth Grandfort, interpretata da una Anne Baxter non poi così vecchia). Il film non è un capolavoro,
questo no, ma si sbaglia se lo si liquida come un’opera minore tout court. C’è almeno un passaggio
filmico notevole, quando Alma, la moglie del sacrestano, serve la colazione ai
tre sacerdoti e, passando dietro a padre Logan, cerca di capirne le intenzioni.
La scena è girata con maestria perché, mentre il dialogo è del tutto
estemporaneo, assistiamo ad un’azione che ha uno scopo completamente diverso e specifico.
Un altro aspetto molto interessante è la figura del
procuratore, mostrato in un paio di occasioni mentre si diletta in puerili
esibizioni di equilibrismo: nella parte finale sarà proprio lui ad accusare
padre Logan ma, almeno simbolicamente, come ministro della giustizia viene appunto preventivamente presentato
come un individuo poco attendibile proprio per i suoi giochetti di bilanciamento. Ma la valenza dell’opera
è legata al fatto che verte su un classico tema hitchockiano, ovvero lo scambio di colpa, tra l’altro appena
affrontato dal maestro inglese nel precedente Delitto per delitto (L’altro uomo). Se nel film con Farley Granger
e Robert Walker il discorso era stato più evidente, qui l’argomento è trattato
con maggior sottigliezza; padre Logan, infatti, finisce per beneficiare di un delitto commesso dal
suo sacrestano, l’immigrato tedesco Otto (Otto Keller).
E qui, è evidente, cominciano i problemi: perché mai un prete dovrebbe
trarre vantaggio dalla morte di una persona? Nonostante a prima vista
Montgomery Clift conceda a padre Logan un aspetto che ispira grande fiducia,
per via della faccia pulita e dei grandi occhi chiari, è altrettanto evidente,
nel suo camminare con la tonaca un’ideale retta via, nei suoi sguardi
riflessivi ma un po’ smarriti, che qualcosa, nella figura del prete, non torni,
perlomeno non al cento per cento. Infatti, il poliziotto della vicenda,
l’ispettore Larrue che, grazie all’interpretazione di Karl Malden, ha lo
sguardo acuto da vero segugio, lo nota subito, focalizzando la sua attenzione
fuori dalla finestra, osservando padre Logan che dialoga con la signora
Granfort. E dire che d’innanzi a sé aveva, proprio in quel momento, il vero
colpevole dell’omicidio, Otto, che stava appunto interrogando.
L’omicidio raccontato nel film è cosa banale: oltre
che sacrestano, Otto prestava lavoro anche come giardiniere presso il signor
Villette e, proprio mentre stava cercando di rubare in casa del suo datore di
lavoro, viene da questi scoperto e la cosa finisce in tragedia. In tutto questo
padre Logan non c’entra, a ben vedere; ma è proprio a lui che, in
confessionale, Otto rivela sotto sacramento il delitto. E il legame tra il
prete e la scomparsa con Villette non si esaurisce qui: quest’ultimo, infatti,
ricattava Ruth, per via della passata storia d’amore proprio con padre Logan.
La morte di Villette scioglie questo nodo, ma lascia qualche dubbio sul fatto
che padre Logan possa, in un qualche modo, sentirsi sollevato da questa
evoluzione della vicenda.
Il che non sarebbe certo un atteggiamento da buon
cristiano. Naturalmente l’ispettore Larrue alla fine arriva al punto della
situazione, e il prete viene quindi accusato dell’omicidio di cui ha, in fin
dei conti, un movente plausibile (a differenza del vero assassino). Il tema
della colpa è quindi servito da Hitchcock in modo sublime: è colpevole (almeno
moralmente) un uomo se in fondo approfitta, o comunque si avvantaggia, grazie
ad una circostanza criminale, sebbene non da lui provocata? La trama
concretizza questo aspetto con l’impossibilità di difendersi del prete, che non
può rivelare ciò che ha saputo sotto sacramento. Clift, nonostante i problemi
di alcolismo, o forse grazie anche a quelli, sfodera una prestazione superba,
da cui traspare un tormento interiore che non sembra poter essere legato alla
sola impossibilità di difendersi per il vincolo di segretezza.
Da parte del regista, nel film c’è anche un evidente ed esplicito omaggio, anzi
meglio, un tributo, alla moglie Alma, nome condiviso anche dalla sposa di Otto,
e che è indicata dallo stesso uomo indirettamente come causa, come
movente, dell’omicidio. L’immigrato tedesco avrebbe ucciso Villette anche
perché questi si approfittava della povera Alma, una donna troppo dedita al
lavoro. Una condizione che questo personaggio condivideva con la moglie di
Hitchcock, Alma Reville in Hitchcock, e a cui il regista vuole così rendere il
giusto e pubblico merito. E, se l’equivalenza funziona, allora Otto, marito di
Alma, immigrato europeo nel nuovo mondo, incarna per bene la figura di
Hitchcock.
Un uomo che, per lenire il proprio ossessivo senso di colpa,
arriva a mettere in scena il delitto. E poi cerca, nel confessionale del
cinema, di condividere la sua colpa con noi.
Meno male che noi non abbiamo vincoli di segretezza, e possiamo parlare
apertamente del suo sublime operare.
Anne Baxter
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