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martedì 20 marzo 2018

A SANGUE FREDDO

118_A SANGUE FREDDO (In cold blood). Stati Uniti 1967;  Regia di Richard Brooks

Un  autobus di linea nel middleast degli Stati Uniti corre veloce verso di noi, quando sfreccia alla nostra destra, una rapida panoramica della macchina da presa lo segue, ma ora è un treno che si allontana a tutta velocità. E’ uno dei violenti stacchi di A sangue freddo di Richard Brooks, forse il più evidente ma non certo l’unico: ce ne sono anche troppi, di questi passaggi, per cui se vediamo un tizio aprire la porta, l’immagine successiva ci mostra qualcun altro che sta’ entrando in un altro locale, oppure se qualcuno si lava la faccia nel lavandino, poi la scena si sposta in un altro bagno dove qualcun altro sta facendo lo stesso, o ancora il cambio di scena può avvenire sull’accensione di una luce, di una risposta ad una telefonata e così via. Forse Brooks tiene a farci sapere che accanto al tema di questo film, ce n’è un altro simile, speculare, e quindi contrario ma al tempo stesso identico. Ecco quindi che il film è in bianco e nero (colori contrapposti) e che parte della scena di svolge a Kansas City, una città doppia divisa dal fiume Kansas (in realtà sono due municipalità diverse, Kansas City Missouri e Kansas City Kansas). E ovviamente i protagonisti sono due, specularmente diversi: Perry (Robert Blake) è moro e tarchiato, mentre Dick (Scott Wilson) è biondo e magro. Anche le personalità dei due sbandati, perché di questo si tratta, seguono la stessa linea: Perry è tendenzialmente tranquillo, ma se perde il controllo sono guai; Dick è un fanfarone, ma al momento cruciale si squaglia. Dick è venuto a conoscenza, o almeno ne è convinto, che in una fattoria di Holcomb, Kansas, siano tenuti in cassaforte almeno 20.000 dollari.

Si tratta solo di andarci, costringere il padrone di casa, il signor Clutter, ad aprire la cassaforte, prendere i soldi, fare fuori tutti i presenti per evitare di lasciare testimoni, e svignarsela col bottino. Perry non muove nemmeno troppe obiezioni, e quindi l’affare si può fare; a patto che poi si vada nel Messico a cercare un fantomatico tesoro. I due compiono la rapina nel modo previsto pur senza l’esito sperato, non essendo fondata la voce circa la presenza delle cassaforte. In ogni caso Brooks non mostra le scene dell’incursione, almeno non durante la linea temporale della narrazione.

E questa è un’altra scelta forte del regista, altrimenti molto scrupoloso nel mostrarci i preparativi per l’impresa o i momenti successivi. Sempre in linea con lo stile cinematografico del film, appena Dick si congratula con la fortuna, i due vengono catturati dalla polizia. Gli interrogatori permettono al regista americano di sbizzarrirsi con un montaggio alternato spostandosi tra domanda e risposta da una cella all’altra, mettendo ancora in risalto la doppia corsia della vicenda. Messi alle strette, i due finiscono per crollare: prima confessa Dick, poi Perry ripercorre con un racconto dettagliato la sera della rapina. Brooks, a questo punto, decide di mostrare quello che è successo nella fattoria Clutter: è una scelta strana, e anche un po’ sadica. Strana perché non c’è un mistero da chiarire, bene o male quello che è successo si è capito dalle indagini;

sadica perché mostrare la violenza immotivata dei due uomini, che uccidono a sangue freddo i poveri abitanti della fattoria, a questo punto della storia, sembra a sua volta un’azione gratuita come quegli omicidi. Ovviamente meno efferata, per fortuna dello spettatore. Un ulteriore raddoppio di questo film, che vuole evidentemente farci riflettere su come si possano paragonare atti criminali riconosciuti come tali, ad altri legalmente permessi. E alla fine si arriva, finalmente, al dunque. Quando i nostri due baldi protagonisti sono incarcerati, processati e condannati a morte (come era prevedibile), Brooks cambia registro nella regia. Introduce addirittura una voce narrante, quella di un giornalista che si interessa al caso, creando un effetto davvero straniante visto che sono passate circa un paio di ore di film. In sostanza, è come se fossimo di fronte ad un altro film, speculare, più corto dove l’altro è più lungo, e dove subisce un ribaltamento anche l’omicidio a sangue freddo (descrizione buona per definire anche un’impiccagione), che non è perpetrato da Perry e Dick ma ai loro danni. Le istituzioni valgono quindi quanto i due volgari assassini di gente a sangue freddo: deduzione conclusiva a cui è difficile obiettare.
A chiudere la pellicola, non già la canonica scritta The End che, in un certo senso, permetterebbe di uscire da questo continuo rimpallo ossessivo che permea tutto il film; invece nessuna  fine, nessuna salvezza, ma piuttosto compare ancora il titolo dell’opera A sangue freddo: se la Legge si comporta alla stregua dei criminali che deve punire, siamo davvero in un mondo allo specchio, senza via di uscita.



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