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lunedì 12 marzo 2018

U-BOOT 96

114_U-BOOT 96 (Das Boot). Germania Occidentale 1991;  Regia di Wolfgang Petersen.

Del film di guerra U-Boot 96 ne esistono due versioni: per quanto anche quella originale del 1981 sia quasi unanimemente già considerata la miglior espressione del sottogenere dei lungometraggi ambientati nei sommergibili, la più recente directors’ cut del 1997 ha perlomeno un vantaggio. I suoi 209 minuti sono un’esperienza, certamente non paragonabile alle vicissitudini dell’equipaggio del sottomarino in questione, ma sicuramente ad essa più simile rispetto ai soli 150 della prima versione. Il regista Wolfgang Petersen, infatti, non si lascia intenerire e confeziona un film ad altissimo tasso di ansia, angoscia, claustrofobia, che  mette a dura prova la resistenza dello spettatore, davvero incatenato dalla tensione alla poltrona e costretto a subire una prova di resistenza durissima. Intendiamoci, queste affermazioni sono provocatoriamente scherzose, e non devono spaventare o essere equivocate: il film del regista tedesco è un capolavoro, e tra i suoi meriti c’è anche l’enorme carico emotivo con cui travolge lo spettatore. La maggioranza dei punti a favore dell’opera sono legati all’ambientazione claustrofobica, che inserisce tensione già come elemento di base nella vicenda: e sotto questo aspetto, U-Boot 96 non è secondo a nessun altro film. E’ poi curioso come sia proprio un film tedesco, espressione di quella nazione che durante la Seconda Guerra Mondiale fece l’uso più smodato della retorica bellica, ad esserne maggiormente privo, anche in un particolare tipo di pellicole, quali sono i film coi sommergibili, che, per loro natura, tendono sempre a veicolarne almeno un poco.

Infatti, una caratteristica delle operazioni di guerra a bordo di un sottomarino è quella della mancanza di contatto, sostanzialmente nemmeno visivo, con il nemico, e questo rende le pellicole di questo tipo sempre molto coinvolgenti, con un’azione simile, se vogliamo, alla stessa retorica di guerra. Ma se c’è un aspetto in cui forse la pellicola di Petersen si rivela unica, è proprio nell’assenza di retorica, nello sguardo lucido sulla follia della guerra, rivendicando, e in questo si tratta davvero di un testo imprescindibile, un punto di vista tedesco che sia obiettivo e non ovviamente ottusamente allineato coi dettami nazisti, ma nemmeno con la palese faziosità di troppe produzioni anglo-americane, che in tema di film bellici non sono mai state troppo attendibili in questo senso. In ogni caso il regista non edulcora il suo racconto, che ha passaggi spietati: come il non salvataggio, da parte dell’equipaggio protagonista del film, dei superstiti della nave cisterna alleata affondata in precedenza dagli stessi tedeschi. 

L’ordine è del comandante che, sul ponte del sottomarino, comanda di arretrare, lasciando in pieno oceano i pochi disperati superstiti nemici in balia delle onde: il muto silenzio mortificato degli ufficiali, che non hanno nemmeno il coraggio di guardare il proprio comandante che ha dato un ordine tanto spietato, (e contrario alle comuni convenzioni marine) ci ricorda che anche i tedeschi della Seconda Guerra Mondiale erano uomini, con senso di giustizia, di pietà, di solidarietà, come tutti gli esseri umani.
Ma anche lo stesso comandante (di cui non viene mai fatto il nome) è consapevole della durezza della propria scelta, e non manca di rimarcarla sul giornale di bordo: scrivendo apertamente ‘non soccorso i superstiti’, sembra quasi confessare un atto ignobile, pur nella ferma convinzione che sia uno dei tanti effetti collaterali che la guerra impone, disumanizzando gli uomini una volta messi alle strette e sotto una pressione enorme. Una pressione che, per i marinai di un sottomarino, compressi a vivere e combattere in uno spazio tanto angusto, è molto superiore anche di quella delle profondità marine dove lo scafo finisce in più di un’occasione, in particolar modo quando si arena sul fondo dello stretto di Gibilterra

Ma nonostante le riuscitissime scene di battaglia, con il sottomarino martellato dalle bombe di profondità, compresso dall’enorme pressione marina, in balia dei tantissimi guasti, delle falle che imbarcano acqua, dove l’equipaggio può dar sfoggio della proverbiale efficienza e tempra teutonica (sebbene trovino spazio anche moti di disperazione), quello che rimane maggiormente nella mente dello spettatore è forse una canzone.  It’s a long way to Tipperary, è una canzoncina, ma inglese, già simbolo della Prima Guerra Mondiale; anche in quella occasione, in quel conflitto, non è certo necessario ricordarlo, i figli di albione erano nemici dei tedeschi, il che rende quanto meno inaspettato che i marinai dell'U-Boot 96  la intonino a squarcia gola. 

In uno degli ambiti più spregevoli della guerra, quella combattuta dai sottomarini, che si aggiravano famelici e infingardi, nascosti dalle profondità marine e dal buio notturno, evitando ogni contatto col nemico, spietati a tal punto da non soccorrere i naufraghi (anche per questioni tecniche, avendo lo spazio davvero limitato), pronti a lanciarsi come pirati sulle prede affondandole senza nessuno scrupolo, ecco quindi che si apre uno spiraglio. Sono le note che ci conducono a Tipperary, in Irlanda, ad incontrare la ragazza più dolce, e con noi ci sono anche i tedeschi dell’U Boot 96, gente come noi, che vuole solo tornare a casa. Già, quella casa che i tre quarti dei marinai dei sottomarini tedeschi, almeno stando alla didascalia iniziale del film, non avrebbero visto mai più. Ma c’era anche un’altra “lontananza da casa”, (intesa come propria umanità), per i sodati tedeschi, per troppi anni dipinti tutti quanti indistintamente come biechi servitori del III Reich, E’ stata una strada lunga, ragazzi, ma finalmente vi è stata fatta giustizia.
E’ una lunga, lunga strada per Tipperary, ma il nostro cuore è proprio la’.






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