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giovedì 18 dicembre 2025
lunedì 15 dicembre 2025
IL COMMISSARIO DE VINCENZI - L'ALBERGO DELLE TRE ROSE
1769_L'ALBERGO DELLE TRE ROSE , Italia 1974. Regia di Mario Ferrero
Certamente
la questione ebraica, con l’ignominia delle Leggi Razziali del 1938, rimane una
delle macchie più vergognose del regime fascista ma c’era almeno un altro
aspetto simile che lasciò pesanti strascichi nel tempo e nell’opinione pubblica
nazionale: la scarsa stima, mettiamola così, per la «perfida Albione». Questo elemento
venne successivamente superato, nel secondo dopoguerra, ma in qualche «piega»
della quotidianità, ad esempio in qualche ambito delle rivalità nazionali, tornerà
spesso a fare capolino. Il giallo, genere anglosassone per eccellenza, fu in
questo senso una cartina tornasole: emblematiche le parole del commissario
Alzani (Renato De Carmine) nella serie Aprite: Polizia! che, nel 1958, sosteneva
che “la delinquenza non latina è sempre più crudele, più cinica”. Una
quindicina d’anni dopo, il commissario De Vincenzi stigmatizzerà queste
tendenze ideologiche nel finale del secondo episodio della serie di sceneggiati
a lui dedicati. L’albergo delle tre rose, l’episodio in questione, è
giunto al termine, e le rivelazioni finali hanno fatto un po’ di chiarezza
nell’intricata vicenda sviluppatasi all’interno dell’hotel milanese a cui fa
riferimento il titolo. Ma il giornale che capita sotto mano a De Vincenzi è del
giorno prima, e il poliziotto finge di compiacersi con il suo vice Sani (Franco
Ferri), di essere finito, con le indagini, in prima pagina. Il riferimento è al
titolo dell’articolo del quotidiano che, a proposito del caso dell’albergo
delle tre rose, afferma che sia vittima che probabile assassino siano «inglesi»,
con le virgolette a sottolineare la provenienza di questi turbolenti ospiti
dell’albergo. Sani –come del resto l’altro funzionario di polizia presente nei
racconti, il commissario Bianchi (Giampiero Becherelli)– è ingenuamente
convinto dell’ideologia imperante, e lo sottolinea convintamente. Sibillina la
replica di De Vincenzi che puntualizza che i soggetti implicati nel giallo, i
presunti «inglesi», siano in realtà italianissimi: Al Miretti (Pino Colizzi) è
un italiano emigrato in America per fare il gangster, e Mary Alton Vendramin
(Anna Maria Guarnieri) ha semplicemente sposato un suddito di sua maestà. E per
ricordare come gli italiani possano vantare antenati altrettanto illustri in
materia di crimini, cita Lucrezia Borgia. Da un punto di vista della confezione
formale, L’albergo delle tre rose conferma le impressioni de Il candelabro a
sette fiamme: ben costruito e ben recitato, si lascia seguire con piacere. Il
meccanismo deduttivo non è però perfettamente funzionale o almeno non lo è
secondo gli abituali criteri: è infatti assai arduo seguire le complicate
peripezie della trama gialla e addirittura impossibile anticipare o quantomeno carpire
per tempo le intuizioni del commissario De Vincenzi. Allo spettatore non resta
che seguire passivamente lo svolgersi degli eventi che hanno comunque il pregio
di appassionarlo e incuriosirlo man mano che si dipanano.
domenica 14 dicembre 2025
IL COMMISSARIO DE VINCENZI - IL CANDELABRO A SETTE FIAMME
1768_IL CANDELABRO A SETTE FIAMME , Italia 1974. Regia di Mario Ferrero
Il primo
episodio della serie Il commissario De Vincenzi lascia lo spettatore
disorientato sin dallo spiazzante incipit e ce lo lascia a più riprese. Lo
sceneggiato comincia in modo anonimo, senza titolo o sovraimpressioni: c’è un
signore, nel buio di una strada, una scena inquietante. E a ragione: l’uomo,
che ha con sé una curiosa valigia asimmetrica, verrà ucciso da alcuni sinistri
individui. A quel punto, irrompe una musica d’altri tempi a tutto volume e
compare la scritta «Luce»,
riferimento al celebre Istituto Luce. A meno di non essersi preventivamente
informati sulla natura dello sceneggiato, si potrebbe pensare già a qualche refuso.
Poi, la sigla attacca, il bel motivo musicale di Bruno Nicolai in stile anni 30
è abbinato ad immagini dell’epoca e il tutto assume un’aria più coerente. Ma
per poco: perché la musichetta allegra cambia leggermente tono e compaiono
fotogrammi di repertorio del duce e del fascismo. Quindi è il turno di alcune simpatiche
donnine con relativa soave melodia e, a seguire, un’altra virata stavolta più cupa
accompagnata da Hitler e dalle parate naziste. Un vero frullatore che lascia
basito uno spettatore dei giorni nostri figuriamoci uno di metà anni Settanta,
ma non è ancora finita. Ecco che ricompare di nuovo la scritta «Luce» e,
perlomeno, la scritta «Milano 1933» ci dà qualche minima informazione. A questo
punto dovrebbe cominciare il film vero e proprio; invece no: assistiamo alla
divertente scena finale di Due cuori felici [Due
cuori felici, Baldassarre Negroni, 1932], sebbene lì per lì non è che sia
una cosa immediata da comprendere. Poi, sullo schermo, arrivano Paolo Stoppa e
Gina Sammarco (è Antonietta, la sua governante) che discutono del film appena
visto, con la donna che non è affatto convinta della novità rappresentata dai
film sonori, abituata com’è al cinema muto. Finalmente ci siamo: il racconto
filmico è cominciato ma, come è a questo punto facile intuire, non sarà un
racconto semplice da seguire. De Vincenzi, il personaggio interpretato da
Stoppa, è un commissario di Polizia e si trova coinvolto in un omicidio che è
parte di un gioco spionistico internazionale che introduce nientemeno la
Questione Palestine, faccenda intricata ora figuriamoci negli anni 70 e peggio
ancora negli anni 30. A testimonianza che la trama sia effettivamente difficile
da decifrare nei suoi tanti anfratti, in coda al racconto il commissario fa una
sorta di riassunto e questa è, in genere, una vera e propria ammissione da
parte degli autori che il loro lavoro è un po’ criptico. In effetti, da un
punto di vista investigativo Il candelabro a sette fiamme non entusiasma, dal
momento che l’intrico giallo è poco decifrabile, tuttavia una serie di fattori
contribuiscono a strappare una sufficienza piena. In primo luogo Stoppa, che è
perfettamente a suo agio nel ruolo; poi la scelta di alcuni attori, davvero
congeniali, come Vittorio Sanipoli nei panni del barone Von Wenzel e Walter Bentivegna
in quelli di Johan Veheran, alias il Ragno, formidabile acrobata che sfoggia un
look degno di un nemico di Batman, davvero notevole. In tema di fascino,
nessuno può sognarsi di offuscare quello di Maria Grazia Spina: l’attrice
veneziana è Virginia Olcomb, un’agente israeliana d’elegante bellezza anni 70
eppure adeguata al contesto in cui ambientata la vicenda.
Ingegnoso il lavoro di De Angelis alla base, sul quale si adeguano gli autori
dello sceneggiato, riuscendo a renderlo fruibile pur tra le troppe divagazioni.
La Questione Palestinese che aleggia su tutta quanta la faccenda, aiuta a
rendere il film interessante ma più a titolo di curiosità, considerata la
complessità dell’argomento.
venerdì 12 dicembre 2025
SANDOKAN - LA PERLA DI LABUAN
1769_SANDOKAN - LA PERLA DI LABUAN , Italia, Francia 2025. Regia di Luca Bernabei e Jan Maria Michelin
Il secondo
episodio, diretto ancora da Jan Maria Michelini, è intitolato a Lady Marianna
(Alanah Bloor) e mette in effetti al centro del racconto la figlia del console
inglese Lord Guillonk (Owen Teale). Alanah Bloor non sembra tuttavia così
convincente, come interprete; ma era una critica che, in principio, si poteva fare
anche a Carole André, tanto per insistere con il paragone con lo sceneggiato
del 1976. Fu solo con l’andar del racconto che l’attrice francese riuscì a rendere
magnetica quella che, inizialmente, sembrava una bellezza troppo acerba. Per
dire, Milla Sannoner, che nel Sandokan di Sollima era un personaggio
comprimario, aveva un appeal più immediato. Quindi, quella di apparire un po’ infantile
è evidentemente una caratteristica di Lady Marianna, che trova conferma nel suo
non sopportare le scarpe e i vestiti da donna. Intanto, accanto a lei, ne La
Perla di Labuan Sandokan tiene costantemente la scena e lo fa in modo
assolutamente carismatico, con Can Yaman che gestisce con naturalezza anche le
scene meno dinamiche nel ruolo dell’innocuo mercante. Bene anche Alessandro Preziosi,
sebbene Yanez sia relegato ferito in prigione e abbia poco spazio di manovra,
ma l’attore napoletano ha infine centrato il ruolo. La trama di questo episodio
ruota intorno alla festa di compleanno di Lady Marianna e il piano di Sandokan
per far evadere i pirati, con un valido bilanciamento tra la traccia romantica
e quella avventurosa. Tra la Tigre della Malesia e l’aristocratica ragazza si
inserisce l’insidioso James Brooke (Ed Westwick) e la tensione è mantenuta alta
su entrambe le piste narrative. Brooke ha guadagnato punti, agli occhi della
ragazza ma soprattutto a quelli di suo padre il console, con il colpo di fucile
con cui ha freddato la tigre, nel finale del precedente episodio. Il salvatore
di Marianna è quindi lui, Brooke, il cacciatore di pirati; ma il suo tempestivo
intervento sarebbe stato fatalmente in ritardo se non fosse per quel mercante
che, armato del solo coltello, si era scagliato contro la belva, ferendola e
proteggendo in modo decisivo la Perla di Labuan. Questo atto di coraggio è un
po’ sospetto, per un semplice commerciante di seta: sia Brooke, che il sergente
Murray (l’ottimo John Hannah) cominciano a sentire puzza di bruciato. Questa
costante attenzione sul protagonista in incognito alimenta la tensione narrativa
che sostiene questo episodio. Tra i personaggi che si ritagliano spazio in
questa puntata si può ricordare Sani (Madeleine Price), la cameriera indigena
di Lady Marianna che si dimostra particolarmente intraprendente. Battibecca più
volte con Sandokan, viene umiliata dal Sultano Muda Hashim (Matt McCooey), un
vero bifolco, e infine è decisiva nella liberazione di Yanez e dei pirati. La
narrativa di Emilio Salgari era un susseguirsi di azione e pregna di sentimento,
e qui va fatto un plauso a Marianna/Alanah Bloor, ed è praticamente impossibile
annoiarsi. Bernabei e Michelini, con il loro toni sempre un po’ enfatici, ne trovano
una loro efficace interpretazione.
martedì 9 dicembre 2025
SANDOKAN - LA TIGRE DELLA MALESIA
1768_SANDOKAN - LA TIGRE DELLA MALESIA , Italia, Francia 2025. Regia di Luca Bernabei e Jan Maria Michelin
L’approccio del primo capitolo della nuova miniserie dedicata a Sandokan, il leggendario personaggio creato da Emilio Salgari, rischia di compromettere tutta quanta l’audace operazione ideata da Luca Bernabei e firmata in regia da Jan Maria Michelini –suo l’episodio d’esordio– e Nicola Abbatangelo. Un certo ostracismo, legato all’effetto nostalgia per lo storico sceneggiato di Sergio Sollima, era da mettere in conto, come anche tutti gli inevitabilmente deficitari paragoni con i mostri sacri del Sandokan del 1976. Kabir Bedi, Philippe Leroy, Adolfo Celi, Carole André sono divenute autentiche icone e, d’altronde, non si può evitare il confronto dal momento che il Sandokan del 2025 si rifà apertamente allo serie degli anni Settanta e, quindi, si tratta di uno scotto da pagare. Che, per molti spettatori, dopo solo pochi fotogrammi di visione, non ha possibilità di essere saldato e allora tanti saluti; questo almeno leggendo le valanghe di critiche che hanno innondato i social network. Pare che il Sandokan di Sollima, quasi per una sorta di reazione indotta, abbia avuto un’impennata negli streaming sulla piattaforma RaiPlay, dove è disponibile. Una specie di rigetto degli spettatori disgustati dalla nuova versione che si sono rituffati nell’amato sceneggiato che già ben conoscono e in cui si riconoscono. Peccato. Perché il Sandokan del 2025 non è affatto male. Certo, l’impatto, non è semplice: qualcuno ha scomodato il paragone col fumetto, ma quella di Bernabei visivamente è più una via di mezzo tra una serie televisiva e certe docu-fiction che sfoderano quei passaggi degni di un video turistico promozionale. Panoramiche realizzate con droni, grandangoli con aperture enormi, colori sgargianti, insomma, se vogliamo farci del male e tirare in ballo ancora il Sandokan di Sollima, niente a che vedere con la serietà di quelle riprese che, al contrario, erano degne del cinema vero, quello da grande schermo. Un altro tasto un po’ dolente della nuova versione è l’uso sopra le righe della regia, con l’insistito utilizzo della camera a mano, quasi fossimo in presenza di riprese amatoriali: uno stratagemma da due soldi usato per dare una semplicistica idea di verosimiglianza. In aggiunta a ciò, ai colori sgargianti, alle luci artificiali, alla regia su di tono, c’è la recitazione enfatica degli attori. Sul momento, il risultato può sembrare una specie di videogame o, forse anche un fumetto, verrebbe in effetti da dire. A patto che si intenda un fumetto che abbia conservato quell’aspetto giocoso che aveva un tempo e che, in quello stesso tempo, aveva anche il nostro cinema «di genere», per altro. Il tono enfatizzato, per la verità, per quel che riguarda i protagonisti, è legato soprattutto al personaggio di Yanez con Alessandro Preziosi che, in principio di episodio, sembra davvero troppo sopra le righe. Poi, con l’andare del tempo, un po’ forse ci si abitua, un po’ forse Preziosi aggiusta il tiro. Cosa che succede in parte anche con la regia: lo stucchevole tenore votato all’eccesso che sottolinea i passaggi forti trova poi una sua coerenza e, soprattutto, una discreta funzionalità. Quasi che il meccanismo complessivo abbia necessità di andare a regime, di trovare i giri giusti. Chi fatica assai meno a carburare è Can Yaman nei panni di Sandokan. Kabir Bedi è un’icona leggendaria, d’accordo, ma Yaman non teme certo il confronto fisico e compensa l’aura mistica del predecessore con un lato ironico molto indovinato. Questo velato aspetto umoristico potrebbe essere una delle chiavi vincenti di questo Sandokan. Insomma, mentre ci stiamo adeguando ai discutibili stilemi stilistici della serie, la Tigre della Malesia è già a Labuan, trovato sulla spiaggia e salvato da Lady Marianna (Alanah Bloor), Yanez e i pirati sono stati catturati e la storia ben congeniata da Salgari sta ora facendo il suo lavoro egregiamente. Sandokan del 2025 appassiona, altro che balle. E la scena finale, quella dello scontro con la tigre, ne è il momento clou: funziona infatti molto bene.
IL COMMISSARIO DE VINCENZI
1767_IL COMMISSARIO DE VINCENZI , Italia 1974. Regia di Mario Ferrero
È in
genere accettato che la letteratura italiana gialla non abbia radici
paragonabili a quelle anglosassoni e, oltretutto, si deve considerare, per
comprenderne il ritardo, i divieti imposti dal regime fascista che nel 1941 la
mise sostanzialmente al bando. Eppure, proprio durante il Ventennio, ci fu uno
dei pionieri del giallo italiano, ovvero quel Augusto De Angelis, prolifico
scrittore che, in seguito, sprofondò nel dimenticatoio almeno finché Oreste Del
Buono nel 1963 ne curò una ristampa. Undici anni dopo, la televisione di stato
completò la riscoperta, mettendo in cantiere una miniserie televisiva affidando
la regia a Mario Ferrero, e le sceneggiature ad un pool di autori specializzati
in detective stories, Manlio Scarpelli, Bruno Di Geronimo, Paolo Barberio e
Nino Palumbo. I romanzi selezionati avevano protagonista il commissario De
Vincenzi, portato sullo schermo da Paolo Stoppa, attore dall’atteggiamento dolente
ma ostinato che, con la sua naturale umanità, fu il punto di forza degli
sceneggiati. La peculiarità del creatore del commissario De Vincenzi, lo
scrittore Augusto De Angelis, fu quella di scrivere gialli in un’epoca, il
Ventennio fascista, che questo genere proprio non lo digeriva e arrivò
addirittura a metterlo al bando, nel 1941. Va da sé che un simile atto di
coraggio, sfidare un regime tanto prepotente, è già motivo di merito
sufficiente a porgere De Angelis in una posizione di prestigio. La Rai, nella
scelta dei titoli per la sua riduzione televisiva, diede la precedenza a Il
candelabro a sette fiamme, una storia che parlava della Questione
Palestinese più che altro in relazione alla condizione degli ebrei che, al
tempo, erano perseguitati. Il romanzo fu pubblicato nel 1936 mentre le
famigerate Leggi Razziali fasciste, discriminatorie nei confronti degli ebrei,
furono emanate nel 1938. Sembra evidente che queste ignobili leggi non
spuntarono fuori dal nulla e quindi la situazione per gli ebrei fosse già fosca
a partire dagli anni 30, ma va anche ricordato che la politica di Mussolini non
è rimasta nella storia per la coerenza nel tempo. Quello che si può dire con
certezza, perché si tratta di fatti storici, è che De Angelis nel 1943 finirà
accusato di antifascismo per i suoi articoli sulla Gazzetta del Popolo e il
regime impose il sequestro dei suoi romanzi.
sabato 6 dicembre 2025
I QUATTRO CAVALIERI DELL'APOCALISSE
1766_I QUATTRO CAVALIERI DELL'APOCALISSE (The Four Horsemen of the Apocalypse), Stati Uniti 1921. Regia di Rex Ingram
Nonostante venga in genere citato per essere stato il film che lanciò Rodolfo Valentino nell’olimpo dorato di Hollywood, I quattro cavalieri dell’Apocalisse è nel suo complesso un’opera di grande rilievo. Nel 1921 fu il film che ottenne il maggiore incasso e ancora oggi gode, per la verità, di un’ottima reputazione. Rex Ingram, il regista, sapeva il fatto suo e in questo racconto dai forti passaggi riesce sempre a tenere la barra dritta. Il testo all’origine è l’omonimo romanzo di Vicente Blasco Ibáñez e, data la trama articolata, era considerato assai poco adatto alla trasposizione sullo schermo. I meriti del successo dell’impresa sono in primis riconducibili alla sceneggiatrice June Mathis che riuscì a cavarne una scrittura di prim’ordine. Visto la qualità dell’autrice, alla Metro Pictures Corporation decisero di ascoltare i suoi suggerimenti sia per la scelta del regista (Ingram, appunto), sia per quella dell’interprete di Julio, per la quale la Mathis indicò inaspettatamente Rodolfo Valentino. Lo studio fece qualche resistenza sul nome di quest’ultimo, all’epoca praticamente uno sconosciuto, ma i fatti diedero ragione alla Mathis visto che Valentino fu l’elemento che trainò il film ad un successo epocale. Celeberrima è la scena del tango, una delle scene cult e senza tempo del cinema, ma tutte quante le apparizioni sullo schermo di Valentino marchiarono a fuoco il pubblico, in particolar modo quello femminile. Va riconosciuto che l’attore italiano aveva una bellezza magnetica che ancora oggi sembra moderna e quindi si può comprendere l’isteria delle fan, tuttavia I quattro cavalieri dell’Apocalisse è anche altro. In effetti, qualche eredità della scarsa natura cinematografica (stando alla fama) del soggetto si può ancora intravvedere, nel numero eccessivo di trame che poi il cinema, e il cinema muto in particolare, ha difficoltà a riannodare completamente. La vicenda racconta di due famiglie, i von Hartrott e i Desnoyers, discendenti da un unico patriarca, il Centauro Madariaga (Pomeroy Cannon). Siamo in Argentina, agli inizi del XX secolo e le sue due figlie si sono maritate rispettivamente con un tedesco e francese. L’ottica del racconto mette già in cattiva luce, una luce militaresca e autoritaria, il ramo tedesco e questa predilezione per la sponda francese è resa esplicita dallo stesso Madariaga che ha eletto il nipote Julio (Valentino, come detto) come favorito, a dispetto dei suoi tre cugini di razza ariana. Alla morte del vecchio le due famiglie si spartiscono l’ingente patrimonio e decidono di far ritorno al paese natale dei capifamiglia, in Europa. A conferma che i favori della storia seguono i transalpini il racconto rimane concentrato sulle questioni di casa Desnoyers, dove il citato Julio se la spassa tra la pittura e le belle donne e non ha alcuna intenzione di arruolarsi per servire la Francia allorché scoppia la Prima Guerra Mondiale.
Non contento di dare queste delusioni al padre Marcelo Desnoyers (Joseph Swickard), patriota francese, Julio si innamora di Marguerite Laurier (Alice Terry) una donna già sposata. Il che provoca un bello scandalo, visto l’ambiente altolocato in cui si muove la nostra storia, sebbene la guerra arriverà a scombinare i piani di Julio e Marguerite. I tedeschi irrompono nel castello di casa Desnoyers, con il povero Marcelo che si ritroverà a tu per tu con uno dei suoi nipoti che non mostrerà, come prevedibile, particolare clemenza nei suoi confronti. E, nel complesso, i tedeschi si comportano da veri vandali saccheggiando le case e molestando le ragazze. La guerra si fa sempre più cruenta e monsieur Lurier rimane cieco in seguito ad una ferita in battaglia: a quel punto sua moglie non se la sente di abbandonarlo per fuggire con il suo grande amore Julio. A questi non rimane che affogare il dispiacere arruolandosi: al fronte ritroverà uno dei suoi cugini ma sarà un incontro assai breve, interrotto bruscamente da una potente esplosione che ucciderà entrambi. Come si vede la trama è ricca di risvolti narrativi che necessitano di essere descritti nello specifico e ne consegue qualche intoppo di troppo da un punto di vista della scorrevolezza che, ad essere onesti, ad un film muto dalla durata di oltre due ore, si può anche concedere. Inoltre, se le escursioni surreali (a cominciare dalle citazioni bibliche) tutto sommato reggono ancora, le vampate melodrammatiche del bel Rudy alle prese con l’amata segnano un po’ il passo a guardarle oggi. In definitiva quello servito da Ingram è un cocktail dai sapori forti: la tragedia è intrisa di sentimento e romanticismo ma il risultato complessivo è quanto mai lucido. Il (presunto) pessimismo che matura nel finale si rivelerà, purtroppo, quanto mai profetico e i Quattro Cavalieri dell’Apocalisse torneranno sulla scena europea e mondiale ancor prima del prevedibile.
mercoledì 3 dicembre 2025
NOI ERAVAMO
1765_NOI ERAVAMO , Italia 2017. Regia di Leonardo Tiberi
Dopo Fango e Gloria, Leonardo Tiberi ci riporta
ancora indietro di un secolo per farci conoscere un protagonista poco noto
della Prima Guerra Mondiale italiana: Fiorello La Guardia (nel film, Yari
Gugliucci). L’impronta storica del film di Tiberi è ben riconoscibile nell’opera,
dal momento che, esattamente come nel citato Fango e Gloria, moltissimi
passaggi sono filmati d’epoca colorati e adeguati al resto del lungometraggio,
che è una normale fiction. Dall’aspetto e dal “rango generale” –interpretazioni
degli attori, dialoghi, inquadrature– troppo televisiva ma, questo, è un limite
di molto del nostro cinema. Al netto di ciò, quella di Tiberi è una bella
sfida: e, fosse anche solo per la possibilità data allo spettatore di vedere
contestualizzati i filmati storici, va segnalata come scelta coraggiosa. Le
immagini storiche sono state accuratamente colorate e, per quanto possibile,
sincronizzate con le odierne riprese; anche da un punto di vista cromatico si
tratta di un lavoro apprezzabile, ma, purtroppo, non “invisibile”. La differenza
tra i filmati di diversa provenienza rimane evidente e, per attenuarla, gli
autori hanno ricorso ad uno stratagemma che rivela un certo acume: visto che
era impossibile portare le immagini di repertorio all’aspetto di quelle della
fiction, si è in parte operato nella direzione opposta. La colorazione delle
immagini di finzione ha quindi delle accentuazioni, delle enfatizzazioni di
parti del fotogramma, poco naturali, andando quindi ad amalgamarsi con quelle
storiche ricolorate.
Un altro merito che va riconosciuto a Tiberi è l’attenzione ad un personaggio
come La Guardia, che ci permette di capire come il sentimento patriottico
italiano fosse diffuso per il mondo cent’anni fa probabilmente più di quanto lo
è oggi entro i nostri confini. Se Fiorello viveva a New York, altri personaggi
importanti nel film sono, infatti, i fratelli Cusin che arrivano sul fronte
italiano della Grande Guerra dall’Argentina. Guglielmo (Alessandro Tersigni) è
il meccanico dell’areo su cui vola La Guardia –un mitico Caproni Ca.33– Luciano
(Davide Giordano), dopo Caporetto, è relegato suo malgrado al ruolo di reporter
di guerra. Il più giovane dei Cusin vorrebbe infatti avere ancora parte attiva
in battaglia ma finirà più che altro per scontrarsi col fratello maggiore, per
questioni di cuore oltre che di autonomia. Oggetto al centro delle attenzioni
dei fratelli italoargentini, la bella infermiera di turno, Agnese (Beatrice
Arnera), ma, sul piano sentimentale, il racconto lascia onestamente molto a
desiderare. Il melodramma avrebbe anche gli elementi per incendiarsi –Guglielmo
che presta il sangue per salvare il fratello moribondo, Agnese che fa
l’altezzosa, Luciano che prova ad approfittare della condizione di ferito per
conquistare l’infermiera – ma né la regia, né tantomeno gli attori, sembrano a
loro agio in questo ambito.
Per chiudere a dovere, su quella che è un’operazione
comunque nel complesso meritevole, meglio tornare a rimarcare la felice scelta
di riproporre le immagini restaurate in un contesto di svago come lo è un film
di guerra. Uno svago intelligente e istruttivo, beninteso.
domenica 30 novembre 2025
TESTAMENT OF YOUTH - GENERAZIONE PERDUTA
1764_TESTAMENT OF YOUTH - GENERAZIONE PERDUTA (Testament of Youth), Regno Unito 2014. Regia di James Kent
Innanzitutto va detto che per la vicenda all’origine di Generazione Perduta, raccontata nel romanzo autobiografico di Vera Brittan (nel film omonimo interpretata da Alicia Vikander), bisogna avere il massimo rispetto. Durante la Prima Guerra Mondiale, la ragazza perse infatti il fratello, il fidanzato e un caro amico, e si prodigò come infermiera volontaria sul fronte occidentale. D’innanzi ad una simile sciagura personale, che si somma a quella collettiva che fu la Grande Guerra, qualunque reazione, anche la più becera, sarebbe, se non giustificabile, almeno comprensibile. Invece, dopo un paio di ore nel complesso un po’ stucchevoli, il film Generazione perduta di James Kent, cala l’asso che rende la visione forse non del tutto gratificante ma perlomeno sufficientemente appagante. Per comprendere perché quella breve scena del dibattito post bellico in cui si discute come farla pagare ai tedeschi sia così importante occorre però inquadrare un minimo la questione. La protagonista del film, la citata Vera Brittan, pur se di gradevole aspetto, non è che ispiri tutta questa simpatia. Certo, potrà raccogliere i favori delle adolescenti (di nome e di fatto) iper problematiche e che rappresentano il normale bacino di utenza per il tipo di storia che prevalentemente si snoda. Roland (Kit Harington) alla nostra ragazza sembra un cafone e quindi lei se ne innamorerà inevitabilmente mentre Victor (Colin Morgan), che è dolce e carino, finirà relegato nella tremenda friend-zone: tutto come da copione prevedibilissimo delle tipiche storie sentimentali amate dal pubblico femminile. Non a caso il libro della Brittan, che unitamente alle disgrazie belliche si fonda su queste beghe di cuore, divenne un autentico best seller. Meno scontato è il rapporto solidale col fratello Edward (Taron Egerton) mentre con il padre (Dominic West) e la madre (Emily Watson) va riconosciuto a Vera di anticipare i temi della contestazione giovanile di moltissimi anni dopo. Se vogliamo possiamo intendere le rivendicazioni della protagonista (il diritto anche per una donna di studiare a Oxford) come la certificazione che la Grande Guerra fu il vero spartiacque che ci portò nel XX secolo di fatto. Tuttavia la personalità problematica di Vera può legittimamente suscitare qualche dubbio: ha probabilmente le sue ragioni quando si inalbera col padre perché questi gli ha regalato un pianoforte. Non che la musica non piaccia alla ragazza, ma quei soldi le avrebbero permesso di pagare la retta di un’intera annata all’università.
Peraltro non sembra sia un problema economico, quando il preconcetto famigliare sul fatto che una ragazza perda tempo con gli studi. Tuttavia il genitore è meno rigido di quanto la storia (raccontata dal punto di vista di Vera) lo dipinga perché quanto prima la ragazza ottiene il via libera paterno. Ma quando si presenta a Oxford all’esame di ammissione, con la presunzione di prepararsi in autonomia, senza aver nemmeno compreso su cosa vertesse l’esame, si rimane un po’ spiazzati. Insomma, la dichiarazione programmatica della protagonista (pronunciata proprio quando entra in scena il suo futuro partner) “io non mi sposerò mai”, unita al colpo di scena che fa giungere la notizia della morte di Roland proprio nel giorno previsto dalle nozze, sembra fornire un quadro delle contraddizioni, caratteriali e circostanziali, che caratterizzarono la vita della giovane. Vera era una persona che prendeva a testate la vita e che, dalla vita stessa, ricevette altrettante botte sul cranio. Insomma, non la persona dalla quale attendersi una riflessione ponderata e ragionevole. O, forse, proprio per questo suo scontrarsi vis a vis con le avversità dell’esistenza, era proprio lei che poteva cogliere la verità delle cose. Come in effetti accade nella citata scena finale che rivaluta, in un’ottica decisamente più interessante, lo strappalacrime racconto giunto fin lì. Agli ottusi compatrioti riuniti nell’assemblea, Vera rivela che gli odiati tedeschi, gli unni, i barbari nemici che ora tutti vogliono crocefiggere visto che han perso la guerra, altro non sono che uomini quanto gli inglesi. Una rivelazione scioccante e non accettata dalla platea presente nel racconto filmico. Ma, ancora più scioccante, è constatare, visto che il film di Kent è del 2014 e fonda la sua ragion d’essere proprio su questo passaggio, che da quelle parti lo sia ancora oggi.
giovedì 27 novembre 2025
LA SPIA DELLE GIUBBE ROSSE
1763_LA SPIA DELLE GIUBBE ROSSE (The Pathfinder), Stati Uniti 1952. Regia di Sideney Salkow
lunedì 24 novembre 2025
DECADENCE (1994)
1762_DECADENCE , Regno Unito 1994. Regia di Steven Berkoff
Quando Joan Collins ricevette la chiamata per interpretare Alexis in Dynasty,
era in vacanza ma, nei mesi precedenti, era impegnata sul palcoscenico teatrale.
L’attrice inglese, appena aveva avuto una svolta decisiva nella carriera
–grazie al successo di The Stud – Lo stallone e The Bitch–, ne
aveva approfittato per tornare a calcare i palchi dal vivo, per quella che in
fondo era stata la sua prima vera passione artistica: il teatro. Figuriamoci
come possa essersi sentita quando, nel 1994, fu chiamata da Steven Berkoff per
portare sul grande schermo Decadence, un film tratto dall’omonima pièce
teatrale del 1981, opera dello stesso polivalente e bizzarro artista inglese. Accanto
a Berkoff, per il doppio ruolo di Helen/Sybill, si era pensato di ingaggiare
qualcuno tra Helen Mirrell, Miranda Richardson o Diana Rigg ma, alla fin fine,
la scelta di Joan Collins può essere considerata una delle cose più riuscite di
Decadence. L’idea di trasportare al cinema un teatro così estremo
–espressionista, eccessivo, volgare, autocompiaciuto– non è particolarmente
funzionale e, in effetti, il film non riesce a cogliere tutti gli spunti
dell’opera teatrale. Certo, la critica alla Gran Bretagna thatcheriana graffia
ancora, tuttavia a quel tempo gli anni Ottanta erano passati da un pezzo. In
ogni caso, le scene memorabili riguardano, ancora una volta, le derive sadomaso
o fetish che la Collins interpreta con particolare attitudine. Per fare un
esempio, si possono prendere i passaggi che, in ambito pornografico, verrebbero
etichettati come «ponyplay»,
e in cui vediamo Joan, con tanto di frustino, cavalcare Berkoff messo a carponi.
Iconica, ça va sans dire.
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venerdì 21 novembre 2025
JACK LONDON - L'AVVENTURA DEL GRANDE NORD
1761_JACK LONDON - L'AVVENTURA DEL GRANDE NORD , Italia, Jugoslavia 1974. Regia di Angelo D'Alessandro
Nel 1973 uscì il film Jack London – La mia grande avventura, per la regia di Angelo D’Alessandro; si trattava di una versione condensata per l’uscita nelle sale cinematografiche di una lunga miniserie, sette episodi per oltre sei ore, che sarebbe stata trasmessa l’anno seguente dalla Rai. Il titolo dello sceneggiato fu cambiato leggermente, divenendo Jack London – L’avventura del Grande Nord ma, nel complesso, si tratta di un’operazione piuttosto deludente. La Produzione era una collaborazione italo jugoslava e nel paese balcanico vennero girato prevalentemente gli esterni che avrebbero dovuto «interpretare» il Grande Nord americano. Il racconto è impostato come una sorta di biografia dello scrittore Jack London, nello specifico degli anni della sua gioventù nei quali si recò nel Klondike, per la Febbre dell’Oro. Gli autori della sceneggiatura, oltre al regista Angelo D’Alessandro, Piero Pieroni e Antonio Saguera, punteggiano quest’avventura con episodi che possano essere stati poi l’ispirazione nell’attività di scrittore di London. Ci sono, quindi, riferimenti ai famosi cani protagonisti dei libri dello scrittore americano, da Buck de Il richiamo della foresta a Zanna Bianca dell’omonimo romanzo. Si tratta, come intuibile, di una forzatura, che gli stessi autori non riescono a rendere propriamente fluida. La scarsa fruibilità dello sceneggiato, le lunghe fasi di stanca, soprattutto nei primi episodi, e l’incoerente ritmo generale, tarpano le ali ad un progetto che, in linea teorica, sarebbe anche interessante. Per la verità, con il proseguo delle puntate la situazione generale migliora, ma certo difficilmente si può dire che il risultato finale sia soddisfacente. Rimane un mistero perché, a fronte di episodi in cui succede davvero pochissimo, il sesto è zeppo di azione e di passaggi davvero avvincenti. In questa puntata ci sono almeno tre situazioni che avrebbero potuto reggere il peso di un singolo episodio, equilibrando un po’ meglio tutto quanto lo sceneggiato. C’è un incontro di pugilato di London, una prova di forza di Zanna Bianca e, per finire, l’assurdo processo allo stesso cane, reo di aver aggredito e ucciso un uomo. Gli scenari jugoslavi non sono molto credibili, in particolar modo quelli non innevati che contraddistinguono la prima parte; successivamente, il manto bianco ha un intrinseco potere evocativo che mitiga la sensazione deprimente complessiva.
Gli attori se la cavano con mestiere, per quanto non è che ci si entusiasmi troppo: Orso Maria Guerrini è Jack London, oltre che l’interprete del brano I want to go, sigla delle puntate; Arnaldo Bellofiore è Fred Thompson; Andrea Checchi è Matt Gustavson; Alfano Sarlo è Jacob Shepard; Carlo Gasparri è Merritt Sloper; Husein Cokic è Jim Goodman. Insomma, a parte qualche nome, non siamo di fronte ad un cast particolarmente memorabile. Manca quasi totalmente la componente femminile; in compenso, c’è una storia d’amore canina. Per dare corpo al «richiamo della foresta», per fare riferimento all’omonimo romanzo, viene coinvolta una lupa che va ad intessere una love-story con il cane Buck, nella prima parte dello sceneggiato. Se già, in qualche caso, nei film di avventura per ragazzi le scene romantiche tra umani erano noiose e stucchevoli, si può ben immaginare che effetto possano avere, sul povero spettatore, le infinite scene di due cani che corrono gioiosi nei campi. Ma, come detto, col passare degli episodi lo sceneggiato migliora e si potrebbe anche arrivare ad accordargli una sufficienza, mettiamola così. Se non fosse per un piccolo passaggio che difficilmente può essere trascurato. Un passaggio assolutamente discutibile che, in un simile contesto, risulta particolarmente sconveniente: è evidente, infatti, che un film su Jack London sia un prodotto che solletichi l’interesse dei più giovani.
Se si fa riferimento a quello, come si evince dal titolo, in Jack London – L’avventura del Grande Nord non si parla tanto di un generico scrittore americano ma di quello scrittore che ha fatto innamorare migliaia di ragazzi dei paesaggi innevati, dei cani dai slitta, dei lupi selvaggi: un autore che è lui stesso un personaggio praticamente leggendario. Nello sceneggiato, ad un certo punto, una coppia di cercatori vuole comprare il vecchio Dog, un cane scansafatiche e ladro che si è affezionato a Matt, l’anziano che si è aggregato alla comitiva di London in viaggio verso il Klondike. Matt è un pover’uomo che nell’amicizia del vecchio Dog ha uno dei pochi motivi di conforto; il cane, da parte sua, non è di alcuna utilità e, piuttosto, sottrae il cibo delle sparute provviste che i viaggiatori portano con sé. Tuttavia Dog ha delle qualità insospettabili: è furbo, scaltro, sa arrampicarsi sugli alberi e, in un certo senso, è in grado di contare. Per questo attira l’attenzione degli acquirenti che offrono una bella sommetta di denaro, che potrebbe essere utile successivamente per comprare i cani da slitta. Ma con che coraggio si potrebbe convincere il vecchio Matt a separarsi dal suo cane? Un coraggio che il London interpretato da Guerrini trova e che, vedendolo esortare Matt ad accettare, provoca più disagio nello spettatore che nel vecchio. Davvero imperdonabile, questo passaggio. Per quanti soldi possano aver offerto, non possono aver raggiunto il valore dell’affetto per un cane, anche per uno che non fosse raccontato da Jack London. E il fatto che Dog lo sia, almeno stando a D’Alessandro, è una sorta di beffa per gli amanti dello scrittore americano. E, nel film, il fatto che a convincere Matt a cedere all’offerta sia proprio London, la rende ancora più amara.
martedì 18 novembre 2025
LA LETTERA ACCUSATRICE
1760_LA LETTERA ACCUSATRICE (Cause for Alarm!), Stati Uniti 1951. Regia di Tay Garnett
È una cosa un po’ sorprendente che un regista che nel 1946 abbia diretto un classico come Il postino suona sempre due volte [The Postman always rings twice, Tay Garnett, 1946], si ritrovi, cinque anni dopo, alle prese con la regia di un film come La lettera accusatrice. In sé, Cause for Alarm! non è certo un’onta all’interno di una filmografia, tuttavia è troppo evidente la sua matrice minore per essere davvero ritenuto interessante per un cineasta che avesse diretto, oltre a Lana Turner, anche Marlene Dietrich e Jean Harlow, solo per restare alle attrici famose. Per la verità, ne La lettera accusatrice, c’è Loretta Young, star di un certo rango che può quindi aggiungersi alla lista, ma questo è uno dei pochi elementi davvero di rilievo del film. Che non è brutto, come accennato, ma, unicamente, si fonda su un pretesto narrativo che poteva essere valido per un film televisivo se non addirittura un telefilm. Stando alle cronache, la Young insistette con il marito Tom Lewis, produttore della pellicola, per avere la parte di Ellen Jones, la protagonista. Il ruolo, in effetti, prevede una certa intensità emotiva e, su questo, Loretta si impegna a dovere oltre ad essere particolarmente predisposta per le situazioni di stoica sofferenza amorosa. La lettera accusatrice è classificato come Noir o Thriller e tale è l’impostazione ma se ci aggiungiamo il carico sentimentale che la Young dispensa e il colpo di scena risolutivo, degno di una commedia se non di un film comico, si può ben capire come i conti fatichino a tornare. In effetti, per la MGM, lo studio di produzione, si trattò di un fiasco commerciale e la ragione è, molto probabilmente, la sensazione di incompiutezza che lascia nello spettatore. Non è, tuttavia, un’opera noiosa o malfatta, sia chiaro, manca però uno sviluppo vero e articolato: la situazione è sempre quella e si aggrava sempre più, fino alla risoluzione che, per quanto possa far sorridere, allo stesso tempo si rivela una delusione. Il soggetto non sembra lavorato a dovere e, oltre a prevedere un forte salto temporale, elemento sempre di un certo disturbo, questo è anche giustificato in modo approssimativo: l’idea di rendere tutto quanto un flashback prova infatti a rendere omogeneo il racconto, ma è palese che si tratti unicamente di un espediente. Durante la guerra, Ellen, sorta di infermiera adibita al supporto morale dei feriti, è assistente del dottor Ranney (Bruce Cowling), evidentemente innamorato di lei.
Un giorno, all’ambulatorio arriva un amico del dottore, George Z. Jones (Barry Sullivan), pilota d’aereo che, colpito dalla bellezza della ragazza, si infila in un letto e si finge malato, riuscendo a conquistarne l’attenzione prima e il cuore poi. Con un balzo temporale si passa quindi a guerra finita: Ellen e George si sono alfine sposati. Ironia della sorte, l’ex militare sta ancora sotto le coperte in condizioni di malattia, non si capisce bene se vera o presunta, tuttavia questa volta i suoi intenti sono meno nobili. L’uomo si è, infatti, convinto dell’infedeltà di sua moglie, sospettando una tresca con l’amico Ranney; in realtà George soffre di disturbi mentali, probabilmente causati dal conflitto bellico, e arriva a progettare di uccidere la propria consorte. Per vendicarsi scrive quindi una lettera al procuratore, nel quale accusa Ellen e Ranney di avvelenarlo con la scusa dei medicinali; la donna, convinta dal marito che si tratti di una innocente missiva all’assicurazione, la consegna al postino. Quando, ormai completamente in preda al suo delirio, George cerca di uccidere Ellen, sparandole, viene colpito da infarto ma, prima di morire, rivela alla moglie il contenuto della lettera. Il tema del racconto diviene ora il disperato tentativo, da parte della donna, di recuperare per tempo la lettera in questione: il contenuto, infatti, l’accuserebbe dell’omicidio del marito. La tensione sale di tono ma, proprio in questo momento, il film si sgonfia perché che ad ostacolare il tentativo di riprendersi la lettera la donna trovi solo l’apparato burocratico delle poste è un mezzo autogol degli sceneggiatori. Prima il portalettere (Irvin Bacon) –un postino cocciuto pasticcione di pasta ben diversa dal John Garfield de Il postino suona sempre due volte– poi il sovraintendente (Art Baker) si appellano al regolamento e a cavilli burocratici per non restituire la lettera. Che poi, ironia della sorte, viene resa al mittente perché troppo pesante in relazione al valore dei francobolli affrancati: simpatica soluzione, d’accordo, ma assolutamente non adeguata alla tensione provocata dal film.
Loretta Young
venerdì 14 novembre 2025
THE NEST OF THE CUCKOO BIRDS
1759_THE NEST OF THE CUCKOO BIRDS , Stati Uniti 1965. Regia di Bert Williams
“Era una
leggenda, non lo aveva mai visto nessuno”. Queste le lapidarie parole di
Nicolas Winding Refn a proposito di The nest of the cuckoo birds di Bert
Williams. Refn, da tempo, si occupa di recuperare e restaurare film sconosciuti
e quello di Williams è uno dei suoi lavori più illustri. Il Southern Gothic, o
Gotico Sudista, è un genere cinematografico ben definito, con opere mirabili e
note come La morte corre sul fiume [Night of the hunter, Charles
Laughton, 1955] o Un tram chiamato desiderio [A streetcar named
desire, Elia Kazan, 1951] tanto per fare due nomi. Ma The nest of the
cuckoo birds, sebbene condivida alcuni temi caratteristici del Southern
Gothic, l’ambientazione negli Stati Uniti del sud, l’atmosfera malsana, il
disagio diffuso, li porta però all’eccesso, apparentandosi alla corrente
estrema del genere. Qui si può inserire in quel filone che vede opere abbastanza
famose come Mudhoney [Russ Meyer, 1965] o Non aprite quella porta
[The Texas Chain Saw Massacre, Tobe Hooper, 1974], quest’ultimo film,
tra l’altro, probabilmente ispirato proprio da The nest of the cuckoo birds.
In generale, queste pellicole non brillano per la confezione formale
impeccabile e, anzi, fanno di una certa trascuratezza visiva uno dei punti di
forza. Quello di Bert Williams, tuttavia, forse esagera un po’, dando
l’impressione, ad esempio all’inizio, di essere un filo troppo sgangherato. In
effetti l’introduzione della vicenda è abbastanza confusa: il detective protagonista
(lo stesso regista, Bert Williams), per sfuggire ad una banda di
contrabbandieri, si dilegua nelle paludi infestate dagli alligatori. Infine
trova rifugio al Cuckoo Birds Inn, una locanda abitata da tre soggetti
particolarmente singolari: lo strano inserviente Harold (Chuck Frankle), l’inquietante
padrona (Ann Long) e la sua povera figlia Lisa (Jackie Scelza). La giovane
ragazza è tenuta incatenata in soffitta ed è evidente, al di là delle stranezze
di facciata, che qualcosa di profondamente malsano si nasconda nella locanda. La
recitazione non è certo convincente e anche il ritmo narrativo ogni tanto tende
ad assopirsi, salvo poi avere dei passaggi traumatizzanti che possono
sorprendere perfino lo scafato spettatore moderno. Anche per questo motivo,
quello di Williams non è un film che va sottovalutato, nonostante le sue
imperfezioni. Ben sorretto dalle musiche di Peggy Williams, The nest of the
cuckoo birds riesce, in definitiva, a trasmettere perfettamente il senso di
un genere, il Southern Gothic, che è particolarmente utile se si vuole
comprendere meglio la vera anima dell’America. Quella oscura.













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