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giovedì 18 dicembre 2025

IL COMMISSARIO DE VINCENZI - IL MISTERO DELLE ORCHIDEE

 1770_IL MISTERO DELLE TRE ORCHIDEE , Italia 1974. Regia di Mario Ferrero 

Il terzo e ultimo sceneggiato della prima serie de Il commissario De Vincenzi segue grosso modo lo schema del precedente L’albergo delle tre rose. A caratterizzare questi due episodi è infatti l’unità di luogo che, aiutata da un tempo del racconto non eccessivo, riesce a rendere più ficcanti e convincenti gli avvenimenti. In questo caso la vicenda è ambientata in una casa di moda, il che conferma anche l’attenzione alla presenza femminile di questa serie di sceneggiati. Tra i personaggi muliebri coinvolti ne Il mistero delle tre orchidee vale la pena citare una folgorante Nora Ricci nei panni della stilista madame Firmino, Lia Tanzi in quelli della modella Irma, Giuliana Calandra in quelli di Marta e Gianna Giachetti in quelli di Cristiana Bignardi, la titolare della casa di moda; questo restando alle figure di rilievo. Del resto il ricco cast di questa solida terza puntata sottolinea lo spessore del racconto: accanto a pezzi da novanta come Franco Volpi (è il commendatore), Ferruccio De Ceresa (è Prospero Durante) e Mariolina Bovo (è Virna Campbell) troviamo i personaggi ricorrenti della serie come Antonietta (Gina Sammarco), il commissario Bianchi (Giampiero Becherelli), il brigadiere Cruni (Salvatore Puntillo) e il vice commissario Sani (Franco Ferri). Senza dimenticare il commissario De Vincenzi, alias Paolo Stoppa che, con la sua proverbiale umanità unita ad un pizzico salato di sagacia, saprà districare anche questo caso meglio dello spettatore. Spettatore costretto, anche stavolta, a ammirare la complessità della trama senza aver avuto le informazioni necessarie a comprenderla veramente. Giallo un po’ singolare, quindi, ma non per questo da bocciare.      

lunedì 15 dicembre 2025

IL COMMISSARIO DE VINCENZI - L'ALBERGO DELLE TRE ROSE

1769_L'ALBERGO DELLE TRE ROSE , Italia 1974. Regia di Mario Ferrero 

Certamente la questione ebraica, con l’ignominia delle Leggi Razziali del 1938, rimane una delle macchie più vergognose del regime fascista ma c’era almeno un altro aspetto simile che lasciò pesanti strascichi nel tempo e nell’opinione pubblica nazionale: la scarsa stima, mettiamola così, per la «perfida Albione». Questo elemento venne successivamente superato, nel secondo dopoguerra, ma in qualche «piega» della quotidianità, ad esempio in qualche ambito delle rivalità nazionali, tornerà spesso a fare capolino. Il giallo, genere anglosassone per eccellenza, fu in questo senso una cartina tornasole: emblematiche le parole del commissario Alzani (Renato De Carmine) nella serie Aprite: Polizia! che, nel 1958, sosteneva che “la delinquenza non latina è sempre più crudele, più cinica”. Una quindicina d’anni dopo, il commissario De Vincenzi stigmatizzerà queste tendenze ideologiche nel finale del secondo episodio della serie di sceneggiati a lui dedicati. L’albergo delle tre rose, l’episodio in questione, è giunto al termine, e le rivelazioni finali hanno fatto un po’ di chiarezza nell’intricata vicenda sviluppatasi all’interno dell’hotel milanese a cui fa riferimento il titolo. Ma il giornale che capita sotto mano a De Vincenzi è del giorno prima, e il poliziotto finge di compiacersi con il suo vice Sani (Franco Ferri), di essere finito, con le indagini, in prima pagina. Il riferimento è al titolo dell’articolo del quotidiano che, a proposito del caso dell’albergo delle tre rose, afferma che sia vittima che probabile assassino siano «inglesi», con le virgolette a sottolineare la provenienza di questi turbolenti ospiti dell’albergo. Sani –come del resto l’altro funzionario di polizia presente nei racconti, il commissario Bianchi (Giampiero Becherelli)– è ingenuamente convinto dell’ideologia imperante, e lo sottolinea convintamente. Sibillina la replica di De Vincenzi che puntualizza che i soggetti implicati nel giallo, i presunti «inglesi», siano in realtà italianissimi: Al Miretti (Pino Colizzi) è un italiano emigrato in America per fare il gangster, e Mary Alton Vendramin (Anna Maria Guarnieri) ha semplicemente sposato un suddito di sua maestà. E per ricordare come gli italiani possano vantare antenati altrettanto illustri in materia di crimini, cita Lucrezia Borgia. Da un punto di vista della confezione formale, L’albergo delle tre rose conferma le impressioni de Il candelabro a sette fiamme: ben costruito e ben recitato, si lascia seguire con piacere. Il meccanismo deduttivo non è però perfettamente funzionale o almeno non lo è secondo gli abituali criteri: è infatti assai arduo seguire le complicate peripezie della trama gialla e addirittura impossibile anticipare o quantomeno carpire per tempo le intuizioni del commissario De Vincenzi. Allo spettatore non resta che seguire passivamente lo svolgersi degli eventi che hanno comunque il pregio di appassionarlo e incuriosirlo man mano che si dipanano.  


domenica 14 dicembre 2025

IL COMMISSARIO DE VINCENZI - IL CANDELABRO A SETTE FIAMME

1768_IL CANDELABRO A SETTE FIAMME , Italia 1974. Regia di Mario Ferrero

Il primo episodio della serie Il commissario De Vincenzi lascia lo spettatore disorientato sin dallo spiazzante incipit e ce lo lascia a più riprese. Lo sceneggiato comincia in modo anonimo, senza titolo o sovraimpressioni: c’è un signore, nel buio di una strada, una scena inquietante. E a ragione: l’uomo, che ha con sé una curiosa valigia asimmetrica, verrà ucciso da alcuni sinistri individui. A quel punto, irrompe una musica d’altri tempi a tutto volume e compare la scritta «Luce», riferimento al celebre Istituto Luce. A meno di non essersi preventivamente informati sulla natura dello sceneggiato, si potrebbe pensare già a qualche refuso. Poi, la sigla attacca, il bel motivo musicale di Bruno Nicolai in stile anni 30 è abbinato ad immagini dell’epoca e il tutto assume un’aria più coerente. Ma per poco: perché la musichetta allegra cambia leggermente tono e compaiono fotogrammi di repertorio del duce e del fascismo. Quindi è il turno di alcune simpatiche donnine con relativa soave melodia e, a seguire, un’altra virata stavolta più cupa accompagnata da Hitler e dalle parate naziste. Un vero frullatore che lascia basito uno spettatore dei giorni nostri figuriamoci uno di metà anni Settanta, ma non è ancora finita. Ecco che ricompare di nuovo la scritta «Luce» e, perlomeno, la scritta «Milano 1933» ci dà qualche minima informazione. A questo punto dovrebbe cominciare il film vero e proprio; invece no: assistiamo alla divertente scena finale di Due cuori felici [Due cuori felici, Baldassarre Negroni, 1932], sebbene lì per lì non è che sia una cosa immediata da comprendere. Poi, sullo schermo, arrivano Paolo Stoppa e Gina Sammarco (è Antonietta, la sua governante) che discutono del film appena visto, con la donna che non è affatto convinta della novità rappresentata dai film sonori, abituata com’è al cinema muto. Finalmente ci siamo: il racconto filmico è cominciato ma, come è a questo punto facile intuire, non sarà un racconto semplice da seguire. De Vincenzi, il personaggio interpretato da Stoppa, è un commissario di Polizia e si trova coinvolto in un omicidio che è parte di un gioco spionistico internazionale che introduce nientemeno la Questione Palestine, faccenda intricata ora figuriamoci negli anni 70 e peggio ancora negli anni 30. A testimonianza che la trama sia effettivamente difficile da decifrare nei suoi tanti anfratti, in coda al racconto il commissario fa una sorta di riassunto e questa è, in genere, una vera e propria ammissione da parte degli autori che il loro lavoro è un po’ criptico. In effetti, da un punto di vista investigativo Il candelabro a sette fiamme non entusiasma, dal momento che l’intrico giallo è poco decifrabile, tuttavia una serie di fattori contribuiscono a strappare una sufficienza piena. In primo luogo Stoppa, che è perfettamente a suo agio nel ruolo; poi la scelta di alcuni attori, davvero congeniali, come Vittorio Sanipoli nei panni del barone Von Wenzel e Walter Bentivegna in quelli di Johan Veheran, alias il Ragno, formidabile acrobata che sfoggia un look degno di un nemico di Batman, davvero notevole. In tema di fascino, nessuno può sognarsi di offuscare quello di Maria Grazia Spina: l’attrice veneziana è Virginia Olcomb, un’agente israeliana d’elegante bellezza anni 70 eppure adeguata al contesto in cui ambientata la vicenda.
Ingegnoso il lavoro di De Angelis alla base, sul quale si adeguano gli autori dello sceneggiato, riuscendo a renderlo fruibile pur tra le troppe divagazioni. La Questione Palestinese che aleggia su tutta quanta la faccenda, aiuta a rendere il film interessante ma più a titolo di curiosità, considerata la complessità dell’argomento.  


venerdì 12 dicembre 2025

SANDOKAN - LA PERLA DI LABUAN

1769_SANDOKAN - LA PERLA DI LABUAN  , Italia, Francia 2025. Regia di Luca Bernabei e Jan Maria Michelin 

Il secondo episodio, diretto ancora da Jan Maria Michelini, è intitolato a Lady Marianna (Alanah Bloor) e mette in effetti al centro del racconto la figlia del console inglese Lord Guillonk (Owen Teale). Alanah Bloor non sembra tuttavia così convincente, come interprete; ma era una critica che, in principio, si poteva fare anche a Carole André, tanto per insistere con il paragone con lo sceneggiato del 1976. Fu solo con l’andar del racconto che l’attrice francese riuscì a rendere magnetica quella che, inizialmente, sembrava una bellezza troppo acerba. Per dire, Milla Sannoner, che nel Sandokan di Sollima era un personaggio comprimario, aveva un appeal più immediato. Quindi, quella di apparire un po’ infantile è evidentemente una caratteristica di Lady Marianna, che trova conferma nel suo non sopportare le scarpe e i vestiti da donna. Intanto, accanto a lei, ne La Perla di Labuan Sandokan tiene costantemente la scena e lo fa in modo assolutamente carismatico, con Can Yaman che gestisce con naturalezza anche le scene meno dinamiche nel ruolo dell’innocuo mercante. Bene anche Alessandro Preziosi, sebbene Yanez sia relegato ferito in prigione e abbia poco spazio di manovra, ma l’attore napoletano ha infine centrato il ruolo. La trama di questo episodio ruota intorno alla festa di compleanno di Lady Marianna e il piano di Sandokan per far evadere i pirati, con un valido bilanciamento tra la traccia romantica e quella avventurosa. Tra la Tigre della Malesia e l’aristocratica ragazza si inserisce l’insidioso James Brooke (Ed Westwick) e la tensione è mantenuta alta su entrambe le piste narrative. Brooke ha guadagnato punti, agli occhi della ragazza ma soprattutto a quelli di suo padre il console, con il colpo di fucile con cui ha freddato la tigre, nel finale del precedente episodio. Il salvatore di Marianna è quindi lui, Brooke, il cacciatore di pirati; ma il suo tempestivo intervento sarebbe stato fatalmente in ritardo se non fosse per quel mercante che, armato del solo coltello, si era scagliato contro la belva, ferendola e proteggendo in modo decisivo la Perla di Labuan. Questo atto di coraggio è un po’ sospetto, per un semplice commerciante di seta: sia Brooke, che il sergente Murray (l’ottimo John Hannah) cominciano a sentire puzza di bruciato. Questa costante attenzione sul protagonista in incognito alimenta la tensione narrativa che sostiene questo episodio. Tra i personaggi che si ritagliano spazio in questa puntata si può ricordare Sani (Madeleine Price), la cameriera indigena di Lady Marianna che si dimostra particolarmente intraprendente. Battibecca più volte con Sandokan, viene umiliata dal Sultano Muda Hashim (Matt McCooey), un vero bifolco, e infine è decisiva nella liberazione di Yanez e dei pirati. La narrativa di Emilio Salgari era un susseguirsi di azione e pregna di sentimento, e qui va fatto un plauso a Marianna/Alanah Bloor, ed è praticamente impossibile annoiarsi. Bernabei e Michelini, con il loro toni sempre un po’ enfatici, ne trovano una loro efficace interpretazione.   

martedì 9 dicembre 2025

SANDOKAN - LA TIGRE DELLA MALESIA

1768_SANDOKAN - LA TIGRE DELLA MALESIA  , Italia, Francia 2025. Regia di Luca Bernabei e Jan Maria Michelin

L’approccio del primo capitolo della nuova miniserie dedicata a Sandokan, il leggendario personaggio creato da Emilio Salgari, rischia di compromettere tutta quanta l’audace operazione ideata da Luca Bernabei e firmata in regia da Jan Maria Michelini –suo l’episodio d’esordio– e Nicola Abbatangelo. Un certo ostracismo, legato all’effetto nostalgia per lo storico sceneggiato di Sergio Sollima, era da mettere in conto, come anche tutti gli inevitabilmente deficitari paragoni con i mostri sacri del Sandokan del 1976. Kabir Bedi, Philippe Leroy, Adolfo Celi, Carole André sono divenute autentiche icone e, d’altronde, non si può evitare il confronto dal momento che il Sandokan del 2025 si rifà apertamente allo serie degli anni Settanta e, quindi, si tratta di uno scotto da pagare. Che, per molti spettatori, dopo solo pochi fotogrammi di visione, non ha possibilità di essere saldato e allora tanti saluti; questo almeno leggendo le valanghe di critiche che hanno innondato i social network. Pare che il Sandokan di Sollima, quasi per una sorta di reazione indotta, abbia avuto un’impennata negli streaming sulla piattaforma RaiPlay, dove è disponibile. Una specie di rigetto degli spettatori disgustati dalla nuova versione che si sono rituffati nell’amato sceneggiato che già ben conoscono e in cui si riconoscono. Peccato. Perché il Sandokan del 2025 non è affatto male. Certo, l’impatto, non è semplice: qualcuno ha scomodato il paragone col fumetto, ma quella di Bernabei visivamente è più una via di mezzo tra una serie televisiva e certe docu-fiction che sfoderano quei passaggi degni di un video turistico promozionale. Panoramiche realizzate con droni, grandangoli con aperture enormi, colori sgargianti, insomma, se vogliamo farci del male e tirare in ballo ancora il Sandokan di Sollima, niente a che vedere con la serietà di quelle riprese che, al contrario, erano degne del cinema vero, quello da grande schermo. Un altro tasto un po’ dolente della nuova versione è l’uso sopra le righe della regia, con l’insistito utilizzo della camera a mano, quasi fossimo in presenza di riprese amatoriali: uno stratagemma da due soldi usato per dare una semplicistica idea di verosimiglianza. In aggiunta a ciò, ai colori sgargianti, alle luci artificiali, alla regia su di tono, c’è la recitazione enfatica degli attori. Sul momento, il risultato può sembrare una specie di videogame o, forse anche un fumetto, verrebbe in effetti da dire. A patto che si intenda un fumetto che abbia conservato quell’aspetto giocoso che aveva un tempo e che, in quello stesso tempo, aveva anche il nostro cinema «di genere», per altro. Il tono enfatizzato, per la verità, per quel che riguarda i protagonisti, è legato soprattutto al personaggio di Yanez con Alessandro Preziosi che, in principio di episodio, sembra davvero troppo sopra le righe. Poi, con l’andare del tempo, un po’ forse ci si abitua, un po’ forse Preziosi aggiusta il tiro. Cosa che succede in parte anche con la regia: lo stucchevole tenore votato all’eccesso che sottolinea i passaggi forti trova poi una sua coerenza e, soprattutto, una discreta funzionalità. Quasi che il meccanismo complessivo abbia necessità di andare a regime, di trovare i giri giusti. Chi fatica assai meno a carburare è Can Yaman nei panni di Sandokan. Kabir Bedi è un’icona leggendaria, d’accordo, ma Yaman non teme certo il confronto fisico e compensa l’aura mistica del predecessore con un lato ironico molto indovinato. Questo velato aspetto umoristico potrebbe essere una delle chiavi vincenti di questo Sandokan. Insomma, mentre ci stiamo adeguando ai discutibili stilemi stilistici della serie, la Tigre della Malesia è già a Labuan, trovato sulla spiaggia e salvato da Lady Marianna (Alanah Bloor), Yanez e i pirati sono stati catturati e la storia ben congeniata da Salgari sta ora facendo il suo lavoro egregiamente. Sandokan del 2025 appassiona, altro che balle. E la scena finale, quella dello scontro con la tigre, ne è il momento clou: funziona infatti molto bene.       


    


IL COMMISSARIO DE VINCENZI

1767_IL COMMISSARIO DE VINCENZI , Italia 1974. Regia di Mario Ferrero

È in genere accettato che la letteratura italiana gialla non abbia radici paragonabili a quelle anglosassoni e, oltretutto, si deve considerare, per comprenderne il ritardo, i divieti imposti dal regime fascista che nel 1941 la mise sostanzialmente al bando. Eppure, proprio durante il Ventennio, ci fu uno dei pionieri del giallo italiano, ovvero quel Augusto De Angelis, prolifico scrittore che, in seguito, sprofondò nel dimenticatoio almeno finché Oreste Del Buono nel 1963 ne curò una ristampa. Undici anni dopo, la televisione di stato completò la riscoperta, mettendo in cantiere una miniserie televisiva affidando la regia a Mario Ferrero, e le sceneggiature ad un pool di autori specializzati in detective stories, Manlio Scarpelli, Bruno Di Geronimo, Paolo Barberio e Nino Palumbo. I romanzi selezionati avevano protagonista il commissario De Vincenzi, portato sullo schermo da Paolo Stoppa, attore dall’atteggiamento dolente ma ostinato che, con la sua naturale umanità, fu il punto di forza degli sceneggiati. La peculiarità del creatore del commissario De Vincenzi, lo scrittore Augusto De Angelis, fu quella di scrivere gialli in un’epoca, il Ventennio fascista, che questo genere proprio non lo digeriva e arrivò addirittura a metterlo al bando, nel 1941. Va da sé che un simile atto di coraggio, sfidare un regime tanto prepotente, è già motivo di merito sufficiente a porgere De Angelis in una posizione di prestigio. La Rai, nella scelta dei titoli per la sua riduzione televisiva, diede la precedenza a Il candelabro a sette fiamme, una storia che parlava della Questione Palestinese più che altro in relazione alla condizione degli ebrei che, al tempo, erano perseguitati. Il romanzo fu pubblicato nel 1936 mentre le famigerate Leggi Razziali fasciste, discriminatorie nei confronti degli ebrei, furono emanate nel 1938. Sembra evidente che queste ignobili leggi non spuntarono fuori dal nulla e quindi la situazione per gli ebrei fosse già fosca a partire dagli anni 30, ma va anche ricordato che la politica di Mussolini non è rimasta nella storia per la coerenza nel tempo. Quello che si può dire con certezza, perché si tratta di fatti storici, è che De Angelis nel 1943 finirà accusato di antifascismo per i suoi articoli sulla Gazzetta del Popolo e il regime impose il sequestro dei suoi romanzi. 


sabato 6 dicembre 2025

I QUATTRO CAVALIERI DELL'APOCALISSE

 1766_I QUATTRO CAVALIERI DELL'APOCALISSE (The Four Horsemen of the Apocalypse), Stati Uniti 1921. Regia di Rex Ingram

Nonostante venga in genere citato per essere stato il film che lanciò Rodolfo Valentino nell’olimpo dorato di Hollywood, I quattro cavalieri dell’Apocalisse è nel suo complesso un’opera di grande rilievo. Nel 1921 fu il film che ottenne il maggiore incasso e ancora oggi gode, per la verità, di un’ottima reputazione. Rex Ingram, il regista, sapeva il fatto suo e in questo racconto dai forti passaggi riesce sempre a tenere la barra dritta. Il testo all’origine è l’omonimo romanzo di Vicente Blasco Ibáñez e, data la trama articolata, era considerato assai poco adatto alla trasposizione sullo schermo. I meriti del successo dell’impresa sono in primis riconducibili alla sceneggiatrice June Mathis che riuscì a cavarne una scrittura di prim’ordine. Visto la qualità dell’autrice, alla Metro Pictures Corporation decisero di ascoltare i suoi suggerimenti sia per la scelta del regista (Ingram, appunto), sia per quella dell’interprete di Julio, per la quale la Mathis indicò inaspettatamente Rodolfo Valentino. Lo studio fece qualche resistenza sul nome di quest’ultimo, all’epoca praticamente uno sconosciuto, ma i fatti diedero ragione alla Mathis visto che Valentino fu l’elemento che trainò il film ad un successo epocale. Celeberrima è la scena del tango, una delle scene cult e senza tempo del cinema, ma tutte quante le apparizioni sullo schermo di Valentino marchiarono a fuoco il pubblico, in particolar modo quello femminile. Va riconosciuto che l’attore italiano aveva una bellezza magnetica che ancora oggi sembra moderna e quindi si può comprendere l’isteria delle fan, tuttavia I quattro cavalieri dell’Apocalisse è anche altro. In effetti, qualche eredità della scarsa natura cinematografica (stando alla fama) del soggetto si può ancora intravvedere, nel numero eccessivo di trame che poi il cinema, e il cinema muto in particolare, ha difficoltà a riannodare completamente. La vicenda racconta di due famiglie, i von Hartrott e i Desnoyers, discendenti da un unico patriarca, il Centauro Madariaga (Pomeroy Cannon). Siamo in Argentina, agli inizi del XX secolo e le sue due figlie si sono maritate rispettivamente con un tedesco e francese. L’ottica del racconto mette già in cattiva luce, una luce militaresca e autoritaria, il ramo tedesco e questa predilezione per la sponda francese è resa esplicita dallo stesso Madariaga che ha eletto il nipote Julio (Valentino, come detto) come favorito, a dispetto dei suoi tre cugini di razza ariana. Alla morte del vecchio le due famiglie si spartiscono l’ingente patrimonio e decidono di far ritorno al paese natale dei capifamiglia, in Europa. A conferma che i favori della storia seguono i transalpini il racconto rimane concentrato sulle questioni di casa Desnoyers, dove il citato Julio se la spassa tra la pittura e le belle donne e non ha alcuna intenzione di arruolarsi per servire la Francia allorché scoppia la Prima Guerra Mondiale

Non contento di dare queste delusioni al padre Marcelo Desnoyers (Joseph Swickard), patriota francese, Julio si innamora di Marguerite Laurier (Alice Terry) una donna già sposata. Il che provoca un bello scandalo, visto l’ambiente altolocato in cui si muove la nostra storia, sebbene la guerra arriverà a scombinare i piani di Julio e Marguerite. I tedeschi irrompono nel castello di casa Desnoyers, con il povero Marcelo che si ritroverà a tu per tu con uno dei suoi nipoti che non mostrerà, come prevedibile, particolare clemenza nei suoi confronti. E, nel complesso, i tedeschi si comportano da veri vandali saccheggiando le case e molestando le ragazze. La guerra si fa sempre più cruenta e monsieur Lurier rimane cieco in seguito ad una ferita in battaglia: a quel punto sua moglie non se la sente di abbandonarlo per fuggire con il suo grande amore Julio. A questi non rimane che affogare il dispiacere arruolandosi: al fronte ritroverà uno dei suoi cugini ma sarà un incontro assai breve, interrotto bruscamente da una potente esplosione che ucciderà entrambi. Come si vede la trama è ricca di risvolti narrativi che necessitano di essere descritti nello specifico e ne consegue qualche intoppo di troppo da un punto di vista della scorrevolezza che, ad essere onesti, ad un film muto dalla durata di oltre due ore, si può anche concedere. Inoltre, se le escursioni surreali (a cominciare dalle citazioni bibliche) tutto sommato reggono ancora, le vampate melodrammatiche del bel Rudy alle prese con l’amata segnano un po’ il passo a guardarle oggi. In definitiva quello servito da Ingram è un cocktail dai sapori forti: la tragedia è intrisa di sentimento e romanticismo ma il risultato complessivo è quanto mai lucido. Il (presunto) pessimismo che matura nel finale si rivelerà, purtroppo, quanto mai profetico e i Quattro Cavalieri dell’Apocalisse torneranno sulla scena europea e mondiale ancor prima del prevedibile. 






mercoledì 3 dicembre 2025

NOI ERAVAMO

1765_NOI ERAVAMO , Italia 2017. Regia di Leonardo Tiberi 

Dopo Fango e Gloria, Leonardo Tiberi ci riporta ancora indietro di un secolo per farci conoscere un protagonista poco noto della Prima Guerra Mondiale italiana: Fiorello La Guardia (nel film, Yari Gugliucci). L’impronta storica del film di Tiberi è ben riconoscibile nell’opera, dal momento che, esattamente come nel citato Fango e Gloria, moltissimi passaggi sono filmati d’epoca colorati e adeguati al resto del lungometraggio, che è una normale fiction. Dall’aspetto e dal “rango generale” –interpretazioni degli attori, dialoghi, inquadrature– troppo televisiva ma, questo, è un limite di molto del nostro cinema. Al netto di ciò, quella di Tiberi è una bella sfida: e, fosse anche solo per la possibilità data allo spettatore di vedere contestualizzati i filmati storici, va segnalata come scelta coraggiosa. Le immagini storiche sono state accuratamente colorate e, per quanto possibile, sincronizzate con le odierne riprese; anche da un punto di vista cromatico si tratta di un lavoro apprezzabile, ma, purtroppo, non “invisibile”. La differenza tra i filmati di diversa provenienza rimane evidente e, per attenuarla, gli autori hanno ricorso ad uno stratagemma che rivela un certo acume: visto che era impossibile portare le immagini di repertorio all’aspetto di quelle della fiction, si è in parte operato nella direzione opposta. La colorazione delle immagini di finzione ha quindi delle accentuazioni, delle enfatizzazioni di parti del fotogramma, poco naturali, andando quindi ad amalgamarsi con quelle storiche ricolorate.
Un altro merito che va riconosciuto a Tiberi è l’attenzione ad un personaggio come La Guardia, che ci permette di capire come il sentimento patriottico italiano fosse diffuso per il mondo cent’anni fa probabilmente più di quanto lo è oggi entro i nostri confini. Se Fiorello viveva a New York, altri personaggi importanti nel film sono, infatti, i fratelli Cusin che arrivano sul fronte italiano della Grande Guerra dall’Argentina. Guglielmo (Alessandro Tersigni) è il meccanico dell’areo su cui vola La Guardia –un mitico Caproni Ca.33– Luciano (Davide Giordano), dopo Caporetto, è relegato suo malgrado al ruolo di reporter di guerra. Il più giovane dei Cusin vorrebbe infatti avere ancora parte attiva in battaglia ma finirà più che altro per scontrarsi col fratello maggiore, per questioni di cuore oltre che di autonomia. Oggetto al centro delle attenzioni dei fratelli italoargentini, la bella infermiera di turno, Agnese (Beatrice Arnera), ma, sul piano sentimentale, il racconto lascia onestamente molto a desiderare. Il melodramma avrebbe anche gli elementi per incendiarsi –Guglielmo che presta il sangue per salvare il fratello moribondo, Agnese che fa l’altezzosa, Luciano che prova ad approfittare della condizione di ferito per conquistare l’infermiera – ma né la regia, né tantomeno gli attori, sembrano a loro agio in questo ambito.
Per chiudere a dovere, su quella che è un’operazione comunque nel complesso meritevole, meglio tornare a rimarcare la felice scelta di riproporre le immagini restaurate in un contesto di svago come lo è un film di guerra. Uno svago intelligente e istruttivo, beninteso.    






    


domenica 30 novembre 2025

TESTAMENT OF YOUTH - GENERAZIONE PERDUTA

1764_TESTAMENT OF YOUTH - GENERAZIONE PERDUTA (Testament of Youth), Regno Unito 2014. Regia di James Kent

Innanzitutto va detto che per la vicenda all’origine di Generazione Perduta, raccontata nel romanzo autobiografico di Vera Brittan (nel film omonimo interpretata da Alicia Vikander), bisogna avere il massimo rispetto. Durante la Prima Guerra Mondiale, la ragazza perse infatti il fratello, il fidanzato e un caro amico, e si prodigò come infermiera volontaria sul fronte occidentale. D’innanzi ad una simile sciagura personale, che si somma a quella collettiva che fu la Grande Guerra, qualunque reazione, anche la più becera, sarebbe, se non giustificabile, almeno comprensibile. Invece, dopo un paio di ore nel complesso un po’ stucchevoli, il film Generazione perduta di James Kent, cala l’asso che rende la visione forse non del tutto gratificante ma perlomeno sufficientemente appagante. Per comprendere perché quella breve scena del dibattito post bellico in cui si discute come farla pagare ai tedeschi sia così importante occorre però inquadrare un minimo la questione. La protagonista del film, la citata Vera Brittan, pur se di gradevole aspetto, non è che ispiri tutta questa simpatia. Certo, potrà raccogliere i favori delle adolescenti (di nome e di fatto) iper problematiche e che rappresentano il normale bacino di utenza per il tipo di storia che prevalentemente si snoda. Roland (Kit Harington) alla nostra ragazza sembra un cafone e quindi lei se ne innamorerà inevitabilmente mentre Victor (Colin Morgan), che è dolce e carino, finirà relegato nella tremenda friend-zone: tutto come da copione prevedibilissimo delle tipiche storie sentimentali amate dal pubblico femminile. Non a caso il libro della Brittan, che unitamente alle disgrazie belliche si fonda su queste beghe di cuore, divenne un autentico best seller. Meno scontato è il rapporto solidale col fratello Edward (Taron Egerton) mentre con il padre (Dominic West) e la madre (Emily Watson) va riconosciuto a Vera di anticipare i temi della contestazione giovanile di moltissimi anni dopo. Se vogliamo possiamo intendere le rivendicazioni della protagonista (il diritto anche per una donna di studiare a Oxford) come la certificazione che la Grande Guerra fu il vero spartiacque che ci portò nel XX secolo di fatto. Tuttavia la personalità problematica di Vera può legittimamente suscitare qualche dubbio: ha probabilmente le sue ragioni quando si inalbera col padre perché questi gli ha regalato un pianoforte. Non che la musica non piaccia alla ragazza, ma quei soldi le avrebbero permesso di pagare la retta di un’intera annata all’università. 

Peraltro non sembra sia un problema economico, quando il preconcetto famigliare sul fatto che una ragazza perda tempo con gli studi. Tuttavia il genitore è meno rigido di quanto la storia (raccontata dal punto di vista di Vera) lo dipinga perché quanto prima la ragazza ottiene il via libera paterno. Ma quando si presenta a Oxford all’esame di ammissione, con la presunzione di prepararsi in autonomia, senza aver nemmeno compreso su cosa vertesse l’esame, si rimane un po’ spiazzati. Insomma, la dichiarazione programmatica della protagonista (pronunciata proprio quando entra in scena il suo futuro partner) “io non mi sposerò mai”, unita al colpo di scena che fa giungere la notizia della morte di Roland proprio nel giorno previsto dalle nozze, sembra fornire un quadro delle contraddizioni, caratteriali e circostanziali, che caratterizzarono la vita della giovane. Vera era una persona che prendeva a testate la vita e che, dalla vita stessa, ricevette altrettante botte sul cranio. Insomma, non la persona dalla quale attendersi una riflessione ponderata e ragionevole. O, forse, proprio per questo suo scontrarsi vis a vis con le avversità dell’esistenza, era proprio lei che poteva cogliere la verità delle cose. Come in effetti accade nella citata scena finale che rivaluta, in un’ottica decisamente più interessante, lo strappalacrime racconto giunto fin lì. Agli ottusi compatrioti riuniti nell’assemblea, Vera rivela che gli odiati tedeschi, gli unni, i barbari nemici che ora tutti vogliono crocefiggere visto che han perso la guerra, altro non sono che uomini quanto gli inglesi. Una rivelazione scioccante e non accettata dalla platea presente nel racconto filmico. Ma, ancora più scioccante, è constatare, visto che il film di Kent è del 2014 e fonda la sua ragion d’essere proprio su questo passaggio, che da quelle parti lo sia ancora oggi.



giovedì 27 novembre 2025

LA SPIA DELLE GIUBBE ROSSE

 1763_LA SPIA DELLE GIUBBE ROSSE (The Pathfinder)Stati Uniti 1952. Regia di Sideney Salkow

C’è un aspetto che salta subito all’occhio, guardando La spia delle Giubbe Rosse di Sidney Salkow: si intuisce, infatti, che il soggetto abbia una struttura perlomeno solida e, a quel punto, la messa in scena quasi amatoriale desta una certa perplessità. Anche perché sono troppi elementi che concordano a creare un certo disagio visivo per poter soprassedere: la prima nota stonata riguarda unicamente l’uscita italiana, ma cronologicamente, è solo il primo motivo di perplessità che si incontra. Il film è degli anni 50, nel pieno del momento d’oro dei Mountie Movie e, per quanto si trattò di un filone poco conosciuto, probabilmente i distributori del Belpaese provarono a sfruttarne l’effetto traino. Perché, perlomeno in Italia, quando si parla di «giubbe rosse» si pensa sempre al glorioso North West Mounted Police, la polizia canadese a cavallo, mentre i soldati in casacca scarlatta del film di Salkow sono i militari inglesi del XVIII secolo. Niente di grave, per carità, ma suscita sempre un certo fastidio accorgersi che ci sia una informazione fuorviante proprio nel titolo, che spesso è il primo elemento che si prende in considerazione per decidere la visione di un film. Nel quale, l’ambientazione è dunque quella delle Guerre di Frontiera nordamericane che vedeva fronteggiarsi Inglesi e Francesi che si disputavano la supremazia anche in ambito coloniale. Questi continui conflitti videro coinvolti, da una parte e dall’altra, gli Indiani, che ne La spia delle Giubbe Rosse hanno naturalmente un ruolo rilevante. E qui veniamo al vero punto debole del film, perché la razzia nel campo mohicano ad opera dei guerrieri Mingo è realizzata in modo davvero poco convincente e per nulla evocativo. Il film di Salkow delude in modo particolare nelle scene con protagonisti i nativi americani, raffigurati in modo troppo semplicistico ma, in generale, tutte le riprese in esterni non riescono a persuadere nemmeno il più ben disposto spettatore. Le foreste del nord est americano, che sono il teatro degli avvenimenti narrati, hanno, al solo parlarne, un fascino che, ne La spia delle Giubbe Rosse, è totalmente assente. 
Vanno un po’ meglio le scene d’interni e le sequenze che vedono all’opera i soldati europei, gli Inglesi in divisa rossa e i Francesi in completo bianco: si tratta forse di un’impressione opinabile, ma una ricostruzione posticcia è più credibile se raffigura quei militari in uniforme che siamo abituati a vedere nei musei o sui libri di scuola. Per la storia americana, a cui, in qualche modo La spia delle Giubbe Rosse fa riferimento, il rimando comune è il cinema e la pellicola di Salkow, spiace dirlo, non onora a dovere il media stesso a cui appartiene. Non si è fatto ancora menzione di quella che forse è la fonte di maggiore scorno, per lo spettatore appassionato ai temi nordamericani, guardando La spia delle Giubbe Rosse. Il soggetto del film è, infatti, il romanzo La staffetta di James Fenimore Cooper, in pratica uno dei capitoli della saga di cui è parte anche il notissimo L’ultimo dei Mohicani. In effetti, nell’originale, il titolo è The Pathfinder, ovvero lo stesso del testo di Fenimore Cooper, e protagonisti del racconto sono Pathfinder (George Montgomery), che altro non è che Occhio di Falco, Nathaniel Bumppo o Calzadicuoio, ovvero l’eroe con più soprannomi della letteratura americana, e Chingachgook (Jay Silverheels), il suo padre putativo mohicano. Occhio di Falco e Chingachgook sono i protagonisti anche de L’ultimo dei Mohicani, vicenda nella quale perderà la vita Uncas (Edward Coch), che qui vediamo ancora bambino. Come lascia intendere, stavolta giustamente, il titolo italiano, nella storia ci sono elementi tipici dello spionaggio e, come facile intuire, il soggetto, avendo solida origine letteraria, è ben costruito. Il che è pienamente avvertibile ma, purtroppo, questa valida impostazione alla base non fa che acuire il disappunto e la delusione per una messa in scena tanto fiacca in troppi passaggi. Insomma, un film ambientato nelle tenebrose foreste della Guerra di Frontiera americana che difetta proprio da un punto di vista scenico è un autentico delitto cinematografico.




lunedì 24 novembre 2025

DECADENCE (1994)

1762_DECADENCE , Regno Unito 1994. Regia di Steven Berkoff

Quando Joan Collins ricevette la chiamata per interpretare Alexis in Dynasty, era in vacanza ma, nei mesi precedenti, era impegnata sul palcoscenico teatrale. L’attrice inglese, appena aveva avuto una svolta decisiva nella carriera –grazie al successo di The Stud – Lo stallone e The Bitch–, ne aveva approfittato per tornare a calcare i palchi dal vivo, per quella che in fondo era stata la sua prima vera passione artistica: il teatro. Figuriamoci come possa essersi sentita quando, nel 1994, fu chiamata da Steven Berkoff per portare sul grande schermo Decadence, un film tratto dall’omonima pièce teatrale del 1981, opera dello stesso polivalente e bizzarro artista inglese. Accanto a Berkoff, per il doppio ruolo di Helen/Sybill, si era pensato di ingaggiare qualcuno tra Helen Mirrell, Miranda Richardson o Diana Rigg ma, alla fin fine, la scelta di Joan Collins può essere considerata una delle cose più riuscite di Decadence. L’idea di trasportare al cinema un teatro così estremo –espressionista, eccessivo, volgare, autocompiaciuto– non è particolarmente funzionale e, in effetti, il film non riesce a cogliere tutti gli spunti dell’opera teatrale. Certo, la critica alla Gran Bretagna thatcheriana graffia ancora, tuttavia a quel tempo gli anni Ottanta erano passati da un pezzo. In ogni caso, le scene memorabili riguardano, ancora una volta, le derive sadomaso o fetish che la Collins interpreta con particolare attitudine. Per fare un esempio, si possono prendere i passaggi che, in ambito pornografico, verrebbero etichettati come «ponyplay», e in cui vediamo Joan, con tanto di frustino, cavalcare Berkoff messo a carponi. Iconica, ça va sans dire.


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venerdì 21 novembre 2025

JACK LONDON - L'AVVENTURA DEL GRANDE NORD

1761_JACK LONDON - L'AVVENTURA DEL GRANDE NORD , Italia, Jugoslavia 1974. Regia di Angelo D'Alessandro

Nel 1973 uscì il film Jack London – La mia grande avventura, per la regia di Angelo D’Alessandro; si trattava di una versione condensata per l’uscita nelle sale cinematografiche di una lunga miniserie, sette episodi per oltre sei ore, che sarebbe stata trasmessa l’anno seguente dalla Rai. Il titolo dello sceneggiato fu cambiato leggermente, divenendo Jack London – L’avventura del Grande Nord ma, nel complesso, si tratta di un’operazione piuttosto deludente. La Produzione era una collaborazione italo jugoslava e nel paese balcanico vennero girato prevalentemente gli esterni che avrebbero dovuto «interpretare» il Grande Nord americano. Il racconto è impostato come una sorta di biografia dello scrittore Jack London, nello specifico degli anni della sua gioventù nei quali si recò nel Klondike, per la Febbre dell’Oro. Gli autori della sceneggiatura, oltre al regista Angelo D’Alessandro, Piero Pieroni e Antonio Saguera, punteggiano quest’avventura con episodi che possano essere stati poi l’ispirazione nell’attività di scrittore di London. Ci sono, quindi, riferimenti ai famosi cani protagonisti dei libri dello scrittore americano, da Buck de Il richiamo della foresta a Zanna Bianca dell’omonimo romanzo. Si tratta, come intuibile, di una forzatura, che gli stessi autori non riescono a rendere propriamente fluida. La scarsa fruibilità dello sceneggiato, le lunghe fasi di stanca, soprattutto nei primi episodi, e l’incoerente ritmo generale, tarpano le ali ad un progetto che, in linea teorica, sarebbe anche interessante. Per la verità, con il proseguo delle puntate la situazione generale migliora, ma certo difficilmente si può dire che il risultato finale sia soddisfacente. Rimane un mistero perché, a fronte di episodi in cui succede davvero pochissimo, il sesto è zeppo di azione e di passaggi davvero avvincenti. In questa puntata ci sono almeno tre situazioni che avrebbero potuto reggere il peso di un singolo episodio, equilibrando un po’ meglio tutto quanto lo sceneggiato. C’è un incontro di pugilato di London, una prova di forza di Zanna Bianca e, per finire, l’assurdo processo allo stesso cane, reo di aver aggredito e ucciso un uomo. Gli scenari jugoslavi non sono molto credibili, in particolar modo quelli non innevati che contraddistinguono la prima parte; successivamente, il manto bianco ha un intrinseco potere evocativo che mitiga la sensazione deprimente complessiva. 

Gli attori se la cavano con mestiere, per quanto non è che ci si entusiasmi troppo: Orso Maria Guerrini è Jack London, oltre che l’interprete del brano I want to go, sigla delle puntate; Arnaldo Bellofiore è Fred Thompson; Andrea Checchi è Matt Gustavson; Alfano Sarlo è Jacob Shepard; Carlo Gasparri è Merritt Sloper; Husein Cokic è Jim Goodman. Insomma, a parte qualche nome, non siamo di fronte ad un cast particolarmente memorabile. Manca quasi totalmente la componente femminile; in compenso, c’è una storia d’amore canina. Per dare corpo al «richiamo della foresta», per fare riferimento all’omonimo romanzo, viene coinvolta una lupa che va ad intessere una love-story con il cane Buck, nella prima parte dello sceneggiato. Se già, in qualche caso, nei film di avventura per ragazzi le scene romantiche tra umani erano noiose e stucchevoli, si può ben immaginare che effetto possano avere, sul povero spettatore, le infinite scene di due cani che corrono gioiosi nei campi. Ma, come detto, col passare degli episodi lo sceneggiato migliora e si potrebbe anche arrivare ad accordargli una sufficienza, mettiamola così. Se non fosse per un piccolo passaggio che difficilmente può essere trascurato. Un passaggio assolutamente discutibile che, in un simile contesto, risulta particolarmente sconveniente: è evidente, infatti, che un film su Jack London sia un prodotto che solletichi l’interesse dei più giovani. 

Se si fa riferimento a quello, come si evince dal titolo, in Jack London – L’avventura del Grande Nord non si parla tanto di un generico scrittore americano ma di quello scrittore che ha fatto innamorare migliaia di ragazzi dei paesaggi innevati, dei cani dai slitta, dei lupi selvaggi: un autore che è lui stesso un personaggio praticamente leggendario. Nello sceneggiato, ad un certo punto, una coppia di cercatori vuole comprare il vecchio Dog, un cane scansafatiche e ladro che si è affezionato a Matt, l’anziano che si è aggregato alla comitiva di London in viaggio verso il Klondike. Matt è un pover’uomo che nell’amicizia del vecchio Dog ha uno dei pochi motivi di conforto; il cane, da parte sua, non è di alcuna utilità e, piuttosto, sottrae il cibo delle sparute provviste che i viaggiatori portano con sé. Tuttavia Dog ha delle qualità insospettabili: è furbo, scaltro, sa arrampicarsi sugli alberi e, in un certo senso, è in grado di contare. Per questo attira l’attenzione degli acquirenti che offrono una bella sommetta di denaro, che potrebbe essere utile successivamente per comprare i cani da slitta. Ma con che coraggio si potrebbe convincere il vecchio Matt a separarsi dal suo cane? Un coraggio che il London interpretato da Guerrini trova e che, vedendolo esortare Matt ad accettare, provoca più disagio nello spettatore che nel vecchio. Davvero imperdonabile, questo passaggio. Per quanti soldi possano aver offerto, non possono aver raggiunto il valore dell’affetto per un cane, anche per uno che non fosse raccontato da Jack London. E il fatto che Dog lo sia, almeno stando a D’Alessandro, è una sorta di beffa per gli amanti dello scrittore americano. E, nel film, il fatto che a convincere Matt a cedere all’offerta sia proprio London, la rende ancora più amara.  



martedì 18 novembre 2025

LA LETTERA ACCUSATRICE

1760_LA LETTERA ACCUSATRICE (Cause for Alarm!)Stati Uniti 1951. Regia di Tay Garnett

È una cosa un po’ sorprendente che un regista che nel 1946 abbia diretto un classico come Il postino suona sempre due volte [The Postman always rings twice, Tay Garnett, 1946], si ritrovi, cinque anni dopo, alle prese con la regia di un film come La lettera accusatrice. In sé, Cause for Alarm! non è certo un’onta all’interno di una filmografia, tuttavia è troppo evidente la sua matrice minore per essere davvero ritenuto interessante per un cineasta che avesse diretto, oltre a Lana Turner, anche Marlene Dietrich e Jean Harlow, solo per restare alle attrici famose. Per la verità, ne La lettera accusatrice, c’è Loretta Young, star di un certo rango che può quindi aggiungersi alla lista, ma questo è uno dei pochi elementi davvero di rilievo del film. Che non è brutto, come accennato, ma, unicamente, si fonda su un pretesto narrativo che poteva essere valido per un film televisivo se non addirittura un telefilm. Stando alle cronache, la Young insistette con il marito Tom Lewis, produttore della pellicola, per avere la parte di Ellen Jones, la protagonista. Il ruolo, in effetti, prevede una certa intensità emotiva e, su questo, Loretta si impegna a dovere oltre ad essere particolarmente predisposta per le situazioni di stoica sofferenza amorosa. La lettera accusatrice è classificato come Noir o Thriller e tale è l’impostazione ma se ci aggiungiamo il carico sentimentale che la Young dispensa e il colpo di scena risolutivo, degno di una commedia se non di un film comico, si può ben capire come i conti fatichino a tornare. In effetti, per la MGM, lo studio di produzione, si trattò di un fiasco commerciale e la ragione è, molto probabilmente, la sensazione di incompiutezza che lascia nello spettatore. Non è, tuttavia, un’opera noiosa o malfatta, sia chiaro, manca però uno sviluppo vero e articolato: la situazione è sempre quella e si aggrava sempre più, fino alla risoluzione che, per quanto possa far sorridere, allo stesso tempo si rivela una delusione. Il soggetto non sembra lavorato a dovere e, oltre a prevedere un forte salto temporale, elemento sempre di un certo disturbo, questo è anche giustificato in modo approssimativo: l’idea di rendere tutto quanto un flashback prova infatti a rendere omogeneo il racconto, ma è palese che si tratti unicamente di un espediente. Durante la guerra, Ellen, sorta di infermiera adibita al supporto morale dei feriti, è assistente del dottor Ranney (Bruce Cowling), evidentemente innamorato di lei. 

Un giorno, all’ambulatorio arriva un amico del dottore, George Z. Jones (Barry Sullivan), pilota d’aereo che, colpito dalla bellezza della ragazza, si infila in un letto e si finge malato, riuscendo a conquistarne l’attenzione prima e il cuore poi. Con un balzo temporale si passa quindi a guerra finita: Ellen e George si sono alfine sposati. Ironia della sorte, l’ex militare sta ancora sotto le coperte in condizioni di malattia, non si capisce bene se vera o presunta, tuttavia questa volta i suoi intenti sono meno nobili. L’uomo si è, infatti, convinto dell’infedeltà di sua moglie, sospettando una tresca con l’amico Ranney; in realtà George soffre di disturbi mentali, probabilmente causati dal conflitto bellico, e arriva a progettare di uccidere la propria consorte. Per vendicarsi scrive quindi una lettera al procuratore, nel quale accusa Ellen e Ranney di avvelenarlo con la scusa dei medicinali; la donna, convinta dal marito che si tratti di una innocente missiva all’assicurazione, la consegna al postino. Quando, ormai completamente in preda al suo delirio, George cerca di uccidere Ellen, sparandole, viene colpito da infarto ma, prima di morire, rivela alla moglie il contenuto della lettera. Il tema del racconto diviene ora il disperato tentativo, da parte della donna, di recuperare per tempo la lettera in questione: il contenuto, infatti, l’accuserebbe dell’omicidio del marito. La tensione sale di tono ma, proprio in questo momento, il film si sgonfia perché che ad ostacolare il tentativo di riprendersi la lettera la donna trovi solo l’apparato burocratico delle poste è un mezzo autogol degli sceneggiatori. Prima il portalettere (Irvin Bacon) –un postino cocciuto pasticcione di pasta ben diversa dal John Garfield de Il postino suona sempre due volte– poi il sovraintendente (Art Baker) si appellano al regolamento e a cavilli burocratici per non restituire la lettera. Che poi, ironia della sorte, viene resa al mittente perché troppo pesante in relazione al valore dei francobolli affrancati: simpatica soluzione, d’accordo, ma assolutamente non adeguata alla tensione provocata dal film.   



Loretta Young 






venerdì 14 novembre 2025

THE NEST OF THE CUCKOO BIRDS

1759_THE NEST OF THE CUCKOO BIRDS , Stati Uniti 1965. Regia di Bert Williams 

“Era una leggenda, non lo aveva mai visto nessuno”. Queste le lapidarie parole di Nicolas Winding Refn a proposito di The nest of the cuckoo birds di Bert Williams. Refn, da tempo, si occupa di recuperare e restaurare film sconosciuti e quello di Williams è uno dei suoi lavori più illustri. Il Southern Gothic, o Gotico Sudista, è un genere cinematografico ben definito, con opere mirabili e note come La morte corre sul fiume [Night of the hunter, Charles Laughton, 1955] o Un tram chiamato desiderio [A streetcar named desire, Elia Kazan, 1951] tanto per fare due nomi. Ma The nest of the cuckoo birds, sebbene condivida alcuni temi caratteristici del Southern Gothic, l’ambientazione negli Stati Uniti del sud, l’atmosfera malsana, il disagio diffuso, li porta però all’eccesso, apparentandosi alla corrente estrema del genere. Qui si può inserire in quel filone che vede opere abbastanza famose come Mudhoney [Russ Meyer, 1965] o Non aprite quella porta [The Texas Chain Saw Massacre, Tobe Hooper, 1974], quest’ultimo film, tra l’altro, probabilmente ispirato proprio da The nest of the cuckoo birds. In generale, queste pellicole non brillano per la confezione formale impeccabile e, anzi, fanno di una certa trascuratezza visiva uno dei punti di forza. Quello di Bert Williams, tuttavia, forse esagera un po’, dando l’impressione, ad esempio all’inizio, di essere un filo troppo sgangherato. In effetti l’introduzione della vicenda è abbastanza confusa: il detective protagonista (lo stesso regista, Bert Williams), per sfuggire ad una banda di contrabbandieri, si dilegua nelle paludi infestate dagli alligatori. Infine trova rifugio al Cuckoo Birds Inn, una locanda abitata da tre soggetti particolarmente singolari: lo strano inserviente Harold (Chuck Frankle), l’inquietante padrona (Ann Long) e la sua povera figlia Lisa (Jackie Scelza). La giovane ragazza è tenuta incatenata in soffitta ed è evidente, al di là delle stranezze di facciata, che qualcosa di profondamente malsano si nasconda nella locanda. La recitazione non è certo convincente e anche il ritmo narrativo ogni tanto tende ad assopirsi, salvo poi avere dei passaggi traumatizzanti che possono sorprendere perfino lo scafato spettatore moderno. Anche per questo motivo, quello di Williams non è un film che va sottovalutato, nonostante le sue imperfezioni. Ben sorretto dalle musiche di Peggy Williams, The nest of the cuckoo birds riesce, in definitiva, a trasmettere perfettamente il senso di un genere, il Southern Gothic, che è particolarmente utile se si vuole comprendere meglio la vera anima dell’America. Quella oscura.