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mercoledì 18 ottobre 2023

IL PASSO DELL'AVVOLTOIO

1377_IL PASSO DELL'AVVOLTOIO (Raton Pass). Stati Uniti 1951; Regia di Edwin L. Marin.

Regista di solido mestiere, Edwin L. Marin non ha generalmente riconosciuto dalla critica lo status di Autore, passando unicamente per essere il classico onesto artigiano. Il che è una definizione comunque lusinghiera, sia chiaro: essere capaci di fare il proprio lavoro non è cosa da poco, in ogni situazione. In America, nel mondo del cinema, soprattutto dell’immediato secondo dopoguerra, questa attitudine permette di comprendere meglio la capacità del sistema hollywoodiano di produrre arte, perché di questo si tratta, quasi in serie. I generi, con le loro strette codificazioni, erano certo un aiuto oltre che un vincolo, e ad essi ci si poteva affidare quando sorgeva la necessità. Marin svariò tra diversi di questi e verso la fine della carriera, causata dalla prematura morte a soli 52 anni, si concentrò sul western, più che altro di basso profilo. In effetti Il passo dell’avvoltoio, che è il suo penultimo film, è quasi sconosciuto seppure non gli manchino spunti interessanti. D’accordo, già l’assenza di Randolph Scott potrebbe essere annoverata tra i motivi si singolarità della pellicola, visto che l’attore principe dei western di serie B era stato protagonista di sei tra gli ultimi film girati da Marin prima della scomparsa. Ecco, volendo trovare un punto debole de Il passo dell’avvoltoio, si potrebbe azzardare che Dennis Morgan nei panni di Marc Challon, il protagonista della vicenda, non lasci particolarmente il segno. Meglio di lui fanno Basil Ruysdael nel ruolo di Pierre, il padre di Marc, e perlomeno Patricia Neal in quelli eleganti di Ann, moglie del protagonista. 

Tuttavia non è nelle prestazioni attoriali che fonda la sua riuscita Il passo dell’avvoltoio ma nella confezione generale, tra cui va ascritta, naturalmente, anche la professionalità media del cast, che nella Hollywood dell’epoca era difficile lavorasse qualche interprete incompetente. In ogni caso, la regia di Marin, come detto, è affidabile e viene sorretta dalla musica di un asso come Max Steiner e dalla notevole fotografia in bianco e nero di Wilfred M. Cline, che asseconda con perizia la deriva noir, in un certo senso, della storia. Il film è del 1951 e, al tempo, la fase classica del western è già cominciata, tuttavia i temi della fase romantica del genere, che aveva caratterizzato il decennio precedente, non è che siano stati del tutto cestinati. Qui la pista sentimentale è evidenziata subito, con Lena (Dorothy Hart), discendente dei coloni messicani, che confessa di aver messo gli occhi sul rampollo dei Challon, la famiglia yankee che si è imposta nella zona. 

Pierre, il vecchio dei Challon, è il tipico colono americano che quello che non riesce a piegare spezza; suo figlio Marc rivela qualche apertura, ma giusto qualcuna, eppure già abbastanza per farlo ritenere un mezzo smidollato dal genitore. Fatto sta che i Challon sono divenuti padroni di tutto, imponendo la legge della forza; gli altri americani hanno accettato di buon grado la loro superiorità, raccogliendo le briciole. I discendenti dei vecchi abitanti del Nuovo Messico, luogo d’ambientazione della storia, devono invece mangiare polvere e rabbia. Questa esemplare descrizione della conquista del west, è l’aspetto più interessante del film di Marin: per quanto vi siano distribuite qua e là alcune annotazioni di natura progressista, affidate per lo più al personaggio di Lena, non vi è giudizio morale nei confronti di chi non si è fatto alcuno scrupolo per la colonizzazione del paese. 

L’egoismo e l’avidità dei Challon sono spesso stigmatizzati, ma dai rivali e queste critiche possono essere considerate quindi di parte. Soltanto Lena ha qualche idea socialmente più equa, ma va detto che, essendo interessata sentimentalmente a Marc – erede della famiglia rivale nella faida in corso –potrebbe essere da questo influenzata nel suo tentativo di mettere pace. Per la verità la spregiudicata condotta di Ann, che riesce a sedurre e sposare Marc, salvo rivelarsi una vera e propria iena interessata unicamente alla terra, potrebbe essere un’efficace metafora critica dell’ingordigia conquistatrice che caratterizzò gli americani nella conquista del west (e non solo, ahinoi). A far traballare un po’ questa chiave di lettura è la chiamata in soccorso del vecchio Pierre, quando per i Challon si prospettano tempi duri, messi nel sacco dalla scaltra Ann. E’ evidente che ripescare il padre, che non si faceva alcuno scrupolo nei confronti di nessuno, suona un po’ come una sconfessione delle aperture sociali di Marc. Qui, in effetti, vacilla perfino la trama, visto che il giovane Challon passa da cadavere a vispo e aitante in pochi minuti in un modo che, perfino in un western di serie B dell’epoca, lascia un filo perplessi. La pallottola nella schiena – cavatagli in qualche modo da Lena che si improvvisa infermiera, dottoressa e dispensatrice di miracoli – l’aveva in un primo momento spacciato salvo poi rivelarsi imprevedibilmente assai meno letale. A sconfiggere il cattivo, Van Cleave (Steve Cochran), pistolero assoldato da Ann, non poteva mica essere il vecchio Pierre, diamine, su questo si può convenire. Ma forse andava studiata una soluzione narrativa un po’ più credibile del protagonista che risorge d’incanto. Nemmeno Randolph Scott sarebbe arrivato a tanto.     

Patricia Neal 



Dorothy Hart



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