Translate

sabato 12 febbraio 2022

LA MONTAGNA SILENZIOSA

971_LA MONTAGNA SILENZIOSA (Der Stille Berg); Austria, Italia, Stati Uniti, 2014; regia di Ernst Gossner

Lungometraggio un pelo troppo delirante che rispolvera il filone dei bergfilm di matrice bellica in voga tra le due guerre mondiali, La montagna silenziosa può essere affiancato a Standschütze Bruggler (1936, di Werner Klingler) ma certo non al notevole Montagne in fiamme (1931, di Luis Trenker e Karl Hartl) e nemmeno al valido Le scarpe al sole (1935, di Marco Elter). Dimostrando una malsana coerenza, il film di Ernst Gosser, uscito cent’anni dopo lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, non si limita infatti ad una rievocazione degli eventi, inseguita anche tramite l’uso di una fotografia che forse prova a dare l’idea di certe immagini in bianco e nero colorate a posteriori. Nel qual caso l’esperimento non risulta molto efficace: figurativamente l’opera di Goesser è infatti molto deludente. Laddove il lavoro del regista funziona in modo del tutto sorprendente è nel riportarci al clima fazioso e ostile dell’epoca, in modo talmente convinto che La montagna silenziosa può essere appunto equiparato al citato Standschütze Bruggler, film relegato nell’oblio a causa della smaccata propaganda pangermanica che lo permea. Ma quello di Klingler era un prodotto della Germania nazista; l’opera di Gosser vede invece la luce in quell’Unione Europea che nacque anche con il preciso scopo di sanare quelle ruggini tra gli stati che avevano contribuito nella Storia a provocare le continue guerre tra cui quelle mondiali. Questa svolta storica ha in sostanza funzionato e, in campo cinematografico, opere meramente propagandistiche se ne sono poi viste raramente. La montagna silenziosa, con la sua prospettiva di parte, ci riporta invece indietro nel tempo. 

A dirla tutta, chi ha fatto il militare negli alpini nella zona dell’Alto Adige sa che un problema esisteva e forse esiste e non se lo sono immaginato Gosser e i suoi collaboratori. Ma questa è un’aggravante: sotto la bandiera dell’Unione Europea che, in sostanza, unisce i territori al di qua e al di là del Brennero, si poteva (anzi, si doveva) affrontare il tema senza acredine, senza rancore, senza faziosità. Ascoltare le ragioni dei tirolesi del sud finiti all’epoca sotto il Regno d’Italia sarebbe stato interessante; forse più per gli italiani che non per gli stessi abitanti di lingua tedesca della zona o per gli austriaci. Ma vedere un racconto filmico infarcito di luoghi comuni e romanzato alla bisogna in modo tanto puerile, può provocare sentimenti opposti che è meglio lasciare invece da parte. 

Nel film, ovviamente, gli italiani vengono chiamati welsch (pronunciato walsci o qualcosa di simile) termine fortemente dispregiativo che, nel suo essere politicamente scorretto, è una delle poche cose interessanti dell’opera oltre che preoccupante indice del grado di tolleranza forse ancora diffuso da quelle parti. Naturalmente è sottolineata più volte la natura infida dei welsch: clamoroso, per gli austriaci, il tradimento italiano della Triplice Alleanza che viene fortemente ribadito ma, sottilmente, è un traditore anche uno dei protagonisti, il militare Angelo Calzolari (Giulio Cristini). Il soldato, in disaccordo con il proprio comandante che vuol far saltare la montagna presidiata dagli austriaci, rinnega infatti il suo esercito avvisando il nemico delle intenzioni dei propri superiori. A conferma che c’è malizia anche in questa presunta luce positiva in cui è descritto il militare (in fondo si oppone ad un’aggressione tanto violenta alla montagna), il nostro verrà fucilato come infiltrato dagli austriaci: traditore da un lato e spia dall’altro è il bilancio finale per questo personaggio. Certo, in primo piano c’è la storia d’amore tra il protagonista Andreas Gruber (William Moseley), tirolese, e Francesca Calzolari (Eugenia Costantini), italiana purosangue, anche se traspare quasi una sorpresa, dallo stesso racconto, che la cosa possa accadere: più che un tentativo di avvicinare la parti, la relazione sembra l’eccezione che conferma la regola. Lo stesso matrimonio tra Angelo, welsch, ovviamente, ed Elisabeth Gruber (Emily Cox), tirolese, è interrotto dalla dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria: la foto mossa e rovinata della cerimonia, simboleggia come il conflitto abbia di fatto interrotto questa unione. In sostanza: se c’era una possibilità per sanare il conflitto tra i tirolesi e gli ospiti indesiderati, questa è stata vanificata dal tradimento italiano legato alla dichiarazione di guerra. Ma si diceva della montagna che gli italiani faranno saltare, un affronto alla Natura che perfino un welsch come Angelo interpreta come sacrilego e che lo spinge a tradire il suo popolo. 

Ne La montagna silenziosa ci sono dei rimandi storici, quelli utili alla causa di Gosser, e questo è il più evidente: storicamente, in effetti, gli italiani si daranno un gran d’affare nella guerra di mine (famosissima è quella che fece saltare la sommità del Col di Lana, ad esempio) ma fu un’attività bellica condivisa da entrambi gli schieramenti. Se poi si vuole sindacare ulteriormente, la guerra di mine fu iniziata dagli austriaci sul Lagazuoi Piccolo, il giorno di capodanno del 1916. E prima dell’esordio italiano in questa particolare guerra di montagna, che avvenne col botto nella citata mina del Col di Lana, ci fu un’altra esplosione provocata dagli austriaci. E’ chiaro che la guerra di mine era un pesante oltraggio alla natura delle montagne, che però subirono in modo massiccio tutte le fasi della guerra ad esempio quella di artiglieria in cui gli stessi austriaci non si risparmiarono. Ancora una volta il film travisa i fatti raccontando di uno scempio, la distruzione di un monumento naturale, che non fu della portata mostrata dalle immagini in quanto, se è vero che si aprirono devastanti crateri o vennero create gigantesche frane, non venne sostanzialmente abbattuta un’intera montagna. Naturalmente le licenze poetiche ci stanno, al cinema, peccato che in La montagna silenziosa siano tutte utili a forzare la prospettiva del racconto in modo fazioso. 

Ma c’è, nell’intenzione degli autori, probabilmente il tentativo di far passare i tirolesi come sorta di pellerossa delle dolomiti: la montagna, a cui in fondo è dedicato il film sin dal titolo, è da loro rispettata mentre gli italiani, pur di conquistarla, sono disposti a farla saltare. Significative, in tal senso, le parole del capitano Karl Gruber (Harald Windisch), padre di Andreas e Elisabeth nonché ufficiale austriaco. Sulla cima della montagna, informato dal genero Angelo dell’intenzione degli italiani di farla saltare, afferma che quello è un bel posto per morire, un’uscita che riecheggia la famosa frase attribuita a Cavallo Pazzo, leader storico dei Sioux, “oggi è un buon giorno per morire”. Sotto questo aspetto si può leggere il rinnovo del tentativo di fare dei bergfilm, i film di montagna di lingua tedesca, l’equivalente dei western americani: nel caso, con film della qualità di La montagna silenziosa, sarà dura. Nel passaggio narrativo specifico, ci si può chiedere, naturalmente, perché diamine Karl non se la sia data a gambe, una volta avvisato: non poteva, perché l’arrivo dei mitici Cacciatori di Montagna della Fanteria Bavarese, accolti come divinità dai tirolesi, aveva anche il suo lato oscuro. Con i tedeschi in squadra, in ossequio al loro tipico e rigoroso rispetto per gli ordini, nessuno lasciava il suo posto, anche a costo di rimetterci la pelle. Pur se stereotipata, la figura del luogotenente Sven Kornatz (Werner Daehn) è intrisa di muta ammirazione, nel suo rimanere al fianco del capitano Gruber e ai suoi uomini ad attendere la morte ostentando indifferenza. 

Ma La montagna silenziosa è un film pieno zeppo di stereotipi: se gli austriaci sono furbi nel senso intelligente della parola (l’accensione dei tanti falò per ingannare il nemico sul loro effettivo numero), gli italiani sono rappresentati, probabilmente in un’accezione del termine ancora diffusa in Austria (se no come si spiega che opere del genere siano prodotte e distribuite?), dall’ufficiale Quinzano (Corrado Invernizzi). Il Quinzano è un folle esaltato che sembra godere nel mandare al massacro i propri soldati e non esita a farli mitragliare se non si dànno una mossa; ascolta e canta l’opera ad alto volume mentre cena con tavola imbandita sulla linea del fronte e partorisce idee folli come quella di far saltare l’intera montagna dove sono arroccati gli austriaci. Peraltro va riconosciuto che, nella sua rozza stilizzazione, la sua figura decisamente sopra le righe è forse la migliore dell’intero film. Tra gli interpreti c’è, anche se fa male al cuore dirlo, anche Claudia Cardinale, in un cameo forse inserito per cercare di smorzare l’evidente sentimento anti-italiano che permea tutta quanta la storia. Purtroppo, a parte il ruolo insignificante all’interno di un film di scarsissimo rilievo, anche di suo la Cardinale non ci fa una gran figura. Oltre al richiamo tricolore che una diva come Claudia forniva al film, gli autori provano a stemperare l’opera con una cornice narrativa onirica che potrebbe lasciar intendere che quello a cui assistiamo è un brutto sogno oppure che la guerra sia un incubo. Forse, ma sarebbe sorprendente, il militare italiano che avanza col bollitore del tè sognato dal protagonista, vorrebbe richiamare il famoso MacGuffin di Hitchockiana memoria: la valigia il cui contenuto non era importante ma che serviva da pretesto per imbastire una storia. Peccato che, stavolta, la metafora non funziona in modo pretestuoso ma, semmai, rappresenta concretamente il significato del film. La rozza teiera che il milite italico porta avanti è, infatti, vuota.


Claudia Cardinale


Eugenia Costantini 

1 commento:

  1. un film fatto di vuoti e di silenzi, verrebbe da dire... Di quelli pesanti, però...

    RispondiElimina