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lunedì 23 giugno 2025

IL CLUB DEI SUICIDI

1687_IL CLUB DEI SUICIDI , Italia 1957. Regia di Giacomo Vaccari

L'anno successivo al 1956, che aveva visto il suo esordio alla regia televisiva con Cabina telefonica, Giacomo Vaccari alza il tiro e prova, con successo, una trasposizione da un autore davvero illustre: Robert Louis Stevenson. L’autore scozzese, noto principalmente per Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde [1886] e L’isola del tesoro [1883], aveva scritto molti altri romanzi e racconti, e Pier Benedetto Bertoli è incaricato di trattare Il Club dei Suicidi per una riduzione televisiva, poi messa in scena e ripresa dal regista Giacomo Vaccari. Lo sceneggiato Rai è un film di un’ora e mezza scarsa e Bertoli si concentra sul primo dei tre episodi narrati da Stevenson, ovvero quello che nell’originale si intitolava Storia del giovane che distribuiva paste alla crema. Nel film, questo giovane (Paolo Carlini), si presenta bruciando sterline in una locanda, tra lo sgomento degli astanti. In questa prima carrellata sul volto degli avventori di un bar piuttosto sordido, si intuisce già la poetica di Vaccari: le facce, riprese tanto vicine da essere quasi deformate grottescamente, sono immobili, quasi fossimo di fronte ad un dipinto espressionista. L’effetto grottesco è, per la verità, troppo teatralmente enfatizzato e, a vederlo oggi, desta certo qualche perplessità; tuttavia va detto che Vaccari lo utilizza in questo modo estremo solo in avvio, per suggerire sin da subito il tono del suo racconto. Va infatti considerato che il film era previsto per la serata televisiva dell’unico canale Rai che, al tempo, trasmetteva nel Paese con chiari intendi educativi e divulgativi. Un testo di Robert Louis Stevenson era certo un titolo di merito per gli autori della rete nazionale, ma va detto che Il Club dei Suicidi, come lascia già intendere il titolo, affronta un tema molto delicato. L’atto di togliersi la vita è considerato, oltre che discutibile moralmente, soprattutto un gravissimo peccato dalla dottrina cristiana e in quegli anni Cinquanta la televisione aveva ancora un rispetto assoluto per quella che era la religione più largamente diffusa nel Paese. L’argomento è sviluppato dal racconto di Stevenson in modo sorprendentemente acuto, perché attraverso la trama abbiamo la scissione dell’atto suicida nelle due parti che lo compongono: l’omicidio e la morte. Questo permette di focalizzarsi meglio su ciascuno dei due punti cruciali che l’autoeliminazione porta con sé, quando, al contrario, il fatto che queste sue due componenti siano nel suicidio riassunte in un unico gesto, rischia di mandare ogni riflessione in proposito in cortocircuito. Se chi vuol morire può legittimamente accettare la morte, è più difficile da condividere l’idea di uccidere qualcuno, sebbene anche questo si sottoponga volontariamente al fatto di essere ammazzato. 

Qui sta la genialità di Stevenson, che dimostra come uccidere sia contrario, se non alla nostra natura, quantomeno alla nostra cultura, alla nostra morale; e non conta che la persona da ammazzare voglia morire, appare comunque chiaro ed evidente che si tratta di un’azione abominevole. A questo punto è perfino superfluo sostituire la persona «altra» da uccidere con sé stessi, per comprendere come il suicidio sia, di fatto, inaccettabile per le nostre comuni convinzioni morali. Nel film, il famigerato Club dei Suicidi è gestito dal Presidente (Tino Bianchi), mentre i veri protagonisti del racconto sono Lord Nevil (Leonardo Cortese) e il fido Gerald (Gainni Bortolotto). I quali, nella taverna dell’incipit sopradescritto, assistono incuriositi il baldo giovanotto prima bruciare sterline, poi pagare da bere a tutti gli avventori, quindi ballare ma sempre lasciando intendere una profonda disperazione. Nevil e Gerald decidono di scoprire le ragioni di questi bizzarri comportamenti e, fingendosi a loro volta in condizioni sciagurate, riescono ad entrare in confidenza con il giovanotto, che li invita a seguirli ad una misteriosa riunione: il Club dei Suicidi, appunto. In una bella scena pregna di suspense, i convenuti alla serata si siedono ad un tavolo e il Presidente distribuisce le carte: l’asse di fiori indicherà chi, per l’occasione, sarà il Gran Sacerdote della Morte ovvero l’assassino, l’asso di picche chi il prescelto per raggiungere l’obiettivo comune: morire. In questo modo l’atto di suicidarsi, che racchiude l’uccidere e il morire in un unico gesto, viene separato in due azioni distinte: questo consente di aver meno timore in colui che deve uccidere, in fondo a morire sarà un’altra persona. Ma, nel contempo, questa curiosa soluzione, uccidere un aspirante suicida, evidenzia l’atto criminoso che l’uccidere, chiunque sia la vittima, contiene. Stevenson, e di conseguenza lo sceneggiatore Bertoli e il regista Vaccari, con una manovra narrativa rendono evidente una questione morale che, spesso, è ancora dibattuta: è lecito, moralmente parlando, il suicidio? Non secondo la nostra cultura e tradizione di cui la morale a cui facciamo riferimento, è la più alta espressione: il tutto ben evidenziato in un semplice film televisivo. Era il 1957 e la Rai, grazie al prezioso lavoro di autori come Giacomo Vaccari, stava inaugurando la felice stagione degli sceneggiati.  


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