1687_IL CLUB DEI SUICIDI , Italia 1957. Regia di Giacomo Vaccari
L'anno successivo al 1956, che aveva visto il suo esordio alla regia
televisiva con Cabina telefonica, Giacomo Vaccari alza il tiro e prova,
con successo, una trasposizione da un autore davvero illustre: Robert Louis
Stevenson. L’autore scozzese, noto principalmente per Lo strano caso del dottor
Jekyll e del signor Hyde [1886] e L’isola del tesoro [1883], aveva
scritto molti altri romanzi e racconti, e Pier Benedetto Bertoli è incaricato
di trattare Il Club dei Suicidi per una riduzione televisiva, poi messa
in scena e ripresa dal regista Giacomo Vaccari. Lo sceneggiato Rai è un film di
un’ora e mezza scarsa e Bertoli si concentra sul primo dei tre episodi narrati
da Stevenson, ovvero quello che nell’originale si intitolava Storia del
giovane che distribuiva paste alla crema. Nel film, questo giovane (Paolo
Carlini), si presenta bruciando sterline in una locanda, tra lo sgomento degli
astanti. In questa prima carrellata sul volto degli avventori di un bar
piuttosto sordido, si intuisce già la poetica di Vaccari: le facce, riprese
tanto vicine da essere quasi deformate grottescamente, sono immobili, quasi
fossimo di fronte ad un dipinto espressionista. L’effetto grottesco è, per la
verità, troppo teatralmente enfatizzato e, a vederlo oggi, desta certo qualche
perplessità; tuttavia va detto che Vaccari lo utilizza in questo modo estremo
solo in avvio, per suggerire sin da subito il tono del suo racconto. Va infatti
considerato che il film era previsto per la serata televisiva dell’unico canale
Rai che, al tempo, trasmetteva nel Paese con chiari intendi educativi e
divulgativi. Un testo di Robert Louis Stevenson era certo un titolo di merito
per gli autori della rete nazionale, ma va detto che Il Club dei Suicidi,
come lascia già intendere il titolo, affronta un tema molto delicato. L’atto di
togliersi la vita è considerato, oltre che discutibile moralmente, soprattutto
un gravissimo peccato dalla dottrina cristiana e in quegli anni Cinquanta la
televisione aveva ancora un rispetto assoluto per quella che era la religione
più largamente diffusa nel Paese. L’argomento è sviluppato dal racconto di
Stevenson in modo sorprendentemente acuto, perché attraverso la trama abbiamo
la scissione dell’atto suicida nelle due parti che lo compongono: l’omicidio e
la morte. Questo permette di focalizzarsi meglio su ciascuno dei due punti
cruciali che l’autoeliminazione porta con sé, quando, al contrario, il fatto
che queste sue due componenti siano nel suicidio riassunte in un unico gesto,
rischia di mandare ogni riflessione in proposito in cortocircuito. Se chi vuol
morire può legittimamente accettare la morte, è più difficile da condividere l’idea
di uccidere qualcuno, sebbene anche questo si sottoponga volontariamente al
fatto di essere ammazzato.
Qui sta la genialità di Stevenson, che dimostra come
uccidere sia contrario, se non alla nostra natura, quantomeno alla nostra
cultura, alla nostra morale; e non conta che la persona da ammazzare voglia
morire, appare comunque chiaro ed evidente che si tratta di un’azione
abominevole. A questo punto è perfino superfluo sostituire la persona «altra» da uccidere con sé
stessi, per comprendere come il suicidio sia, di fatto, inaccettabile per le
nostre comuni convinzioni morali. Nel film, il famigerato Club dei Suicidi è
gestito dal Presidente (Tino Bianchi), mentre i veri protagonisti del racconto
sono Lord Nevil (Leonardo Cortese) e il fido Gerald (Gainni Bortolotto). I
quali, nella taverna dell’incipit sopradescritto, assistono incuriositi il
baldo giovanotto prima bruciare sterline, poi pagare da bere a tutti gli
avventori, quindi ballare ma sempre lasciando intendere una profonda
disperazione. Nevil e Gerald decidono di scoprire le ragioni di questi bizzarri
comportamenti e, fingendosi a loro volta in condizioni sciagurate, riescono ad
entrare in confidenza con il giovanotto, che li invita a seguirli ad una
misteriosa riunione: il Club dei Suicidi, appunto. In una bella scena pregna di
suspense, i convenuti alla serata si siedono ad un tavolo e il Presidente distribuisce
le carte: l’asse di fiori indicherà chi, per l’occasione, sarà il Gran
Sacerdote della Morte ovvero l’assassino, l’asso di picche chi il prescelto per
raggiungere l’obiettivo comune: morire. In questo modo l’atto di suicidarsi,
che racchiude l’uccidere e il morire in un unico gesto, viene separato in due
azioni distinte: questo consente di aver meno timore in colui che deve
uccidere, in fondo a morire sarà un’altra persona. Ma, nel contempo, questa curiosa
soluzione, uccidere un aspirante suicida, evidenzia l’atto criminoso che
l’uccidere, chiunque sia la vittima, contiene. Stevenson, e di conseguenza lo
sceneggiatore Bertoli e il regista Vaccari, con una manovra narrativa rendono
evidente una questione morale che, spesso, è ancora dibattuta: è lecito,
moralmente parlando, il suicidio? Non secondo la nostra cultura e tradizione di
cui la morale a cui facciamo riferimento, è la più alta espressione: il tutto
ben evidenziato in un semplice film televisivo. Era il 1957 e la Rai, grazie al
prezioso lavoro di autori come Giacomo Vaccari, stava inaugurando la felice
stagione degli sceneggiati.
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