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venerdì 16 aprile 2021

LADRI DI BICICLETTE

798_LADRI DI BICICLETTE . Italia1948. Regia di Vittorio De Sica.  

Ladri di biciclette è oggi considerato giustamente un capolavoro. Al tempo della sua uscita, nella stagione 1948/49, al botteghino fu un mezzo fiasco; a Roma, alla prima visione, gli spettatori all’uscita del cinema volevano addirittura i soldi indietro. Andò meglio all’estero ma, in Italia, evidentemente, la gente non aveva tanta voglia di sopportare una storia tanto disperata come quella del povero Antonio Ricci (Lamberto Maggiorani), il protagonista del film di De Sica. Antonio è un disoccupato che abita nella periferia di Roma; finalmente gli assegnano un lavoro, l’attacchino comunale. A patto che abbia una bicicletta. Calma, non si salti alle conclusioni affrettate ricordando il titolo del film: Antonio la bici ce l’ha, è solo impegnata al monte dei pegni; e comunque non è un ladro. In ogni caso lascia un corredo di lenzuola in cambio, ritira la bici e si presenta al lavoro. Vedendolo andare al lavoro con la bicicletta che gli è costata il sacrificio della basilare biancheria del letto, è narrativamente quasi scontato ricordare, adesso si, il titolo dell’opera di De Sica. I Ladri di biciclette entrano in azione subito, al primo manifesto che Antonio deve attaccare: la successiva ricerca dell’indispensabile mezzo di locomozione rubato occuperà l’intero lungometraggio. In questo continuo peregrinare di Antonio per la città, accompagnato dal figlioletto Bruno (Enzo Staiola), da Baiocco (Gino Saltamerenda) e dai suoi colleghi netturbini, è riconoscibile la poetica di Cesare Zavattini: nel seguire passo passo i protagonisti nella loro estenuante ricerca trova forma la teoria del pedinamento

Non solo la macchina da presa segue, di fatto, Antonio e gli altri per le strade di Roma ma, soprattutto, li accompagna per una durata quasi reale del percorso, evitando cioè, l’utilizzo del linguaggio cinematografico per sintetizzare le fasi della improvvisata indagine. C’è l’intenzione di Zavattini e De Sica di rendere più realisticamente quello che il furto di una bicicletta significa in Italia, nel 1948. Al cinema, al cinema americano, forse sarebbe stata una cosa da niente, un particolare di una storia da mostrare in dieci minuti, con un montaggio efficace: ma l’Italia del dopoguerra non era l’America e un furto di una bicicletta era quasi una questione di sopravvivenza. E’ forse questo aspetto che affascinò tanto all’estero, ad esempio in Gran Bretagna, dove l’autorevole rivista cinematografica Sight & Sound , nel 1952, nel suo primo sondaggio tra illustri critici, mise Ladri di biciclette al primo posto assoluto. 

La capacità del cinema neorealista di De Sica e Zavattini era quella di adeguare il suo linguaggio a quello della gente più umile. Il cinema, come mezzo di comunicazione, si era forse più evoluto in senso opposto, era in grado cioè di portare sullo schermo azioni eclatanti, imprese eroiche, storie avventurose, passioni romantiche, che potevano ora essere vissute anche dallo spettatore comune. Il cinema era quello strumento che portava l’eccezionale alla portata di tutti. Ma questo, in un certo senso, rischiava di far smarrire il senso delle cose. Un furto di una bicicletta poteva diventare una cosa da nulla, se al cinema era abitudine vedere assalti alla banca o al treno. Ma, in Italia, il furto di una bicicletta, nella realtà quotidiana, era una tragedia, e Zavattini e De Sica stavano lì a ricordarlo. E se nel nostro paese il film fu accolto tiepidamente, fu forse solo perché, probabilmente, nel 1948, la gente questo aspetto drammatico della realtà se lo ricordava già anche troppo. Forse l’approccio (neo)realista fu maggiormente apprezzato proprio in quei paesi in cui la situazione era economicamente meno disperata, e fu visto come un richiamo a quella che era comunque la realtà quotidiana anche da quelle parti. Antonio, naturalmente, essendoci di mezzo Zavattini, la bicicletta non la ritrova. Nella vita di tutti i giorni, a cui fa riferimento il film, ritrovare una bici rubata è, in effetti, una cosa utopistica, specie in una grande città. Il tessuto sociale italiano dell’immediato dopoguerra è mostrato senza sconti: le forze dell’ordine sono sostanzialmente indifferenti a questi piccoli problemi che, come detto, dal punto di vista del derubato tanto piccoli non sono.

 

Se la celere se ne lava sbrigativamente le mani, nemmeno il carabiniere che pur interviene nella disputa tra Antonio e il ladro, per la verità, sembra essere di grande aiuto. Abbiamo infatti seguito Antonio ad un comizio delle cellule dei lavoratori e poi ad una funzione di un’organizzazione religiosa di solidarietà e alla fine una traccia era saltata fuori: così uno dei mariuoli è stato rintracciato. Una volta messo spalle al muro il ladro, tutto il vicinato del malandrino si erge a tutore delle procedure legali: ci vogliono prove documentate per accusare la gente. Il che è indubbiamente vero: curioso però che meno l’ambiente è abitualmente ligio al rispetto dei regolamenti disciplinari, più ne invoca il rispetto quando uno dei suoi è messo sotto accusa. Perfetto lo spaccato mostrato da De Sica e Zavattini di questa particolare e ricorrente caratteristica di molti quartieri popolari del tempo e oggi diffusa in modo orizzontale tra la popolazione dello stivale
A fronte di queste richieste da parte della folla, la guardia, il povero carabiniere citato, non può che applicare le norme della legge, lasciando Antonio solo con le sue accuse senza prove e, di conseguenza, sotto il fuoco delle invettive collettive. Si prosegue così in un peregrinare tra varie peripezie, tra uno screzio tra padre e figlio e il timore che quest’ultimo sia finito nel Tevere, una visita ad una santona locale che prevede banalità in cambio di denaro sonante, una bella mozzarella in carrozza in trattoria, forse non apprezzata appieno per via dello snobismo di una famiglia facoltosa che mangia in punta di forchetta, sottolineando la differenza di ceto nei confronti dei nostri due protagonisti. Alla fine torniamo al punto di partenza: il film si intitola Ladri di biciclette e, al nostro Antonio, ne serve disperatamente una. 

Non è un ladro, Antonio. Ma, disperato, alla fine ci prova. E viene subito colto in fragrante, fermato da quella folla che, c’era da scommetterci, adesso reclama indignata giustizia ai suoi danni. Ora non soltanto si trova solo in un paese ostile, l’Italia (un paese che sa essere terribilmente ostile verso i suoi stessi cittadini) ma, cosa assai peggiore, potrebbe aver perso anche il rispetto di Bruno, suo figlio. Ma poi, provare a rubare una bicicletta o anche rubarne una, non trasforma automaticamente un uomo in un ladro; anche se è un reato ed è assolutamente da condannare, come gesto in sé. Sbagliare, indotti nell’errore dalle circostanze, o approfittare di queste per delinquere deliberatamente, non è la stessa cosa. Intanto Bruno e Antonio si incamminano tra la folla. Il primo piano è sul volto affranto di Bruno; poi la macchina da presa inquadra le persone che camminano davanti a loro, dall’altezza del bambino. Le immagini sembrano quasi sfocate, come se fossero viste tra le lacrime degli occhi. Chissà, forse Bruno si è commosso, cercando di capire quella differenza di cui si diceva; e, nel caso l’avesse colta, tra quella folla sarebbe uno dei pochi.  


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