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domenica 3 agosto 2025

ADDIO ZIO TOM

1708_ADDIO ZIO TOM , Italia 1971. Regia di Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi 

Settembre 1971, sono passati cinque anni da Africa addio ma l’eco dell’indignazione generale a fronte del documentario shock sulla decolonizzazione, non si era per nulla placata. Jacopetti e Prosperi non si erano dati per vinti, nel frattempo, e, anzi, avevano alzato il tiro: Addio zio Tom è un film, ancora una volta, ancora una volta di più, assolutamente spiazzante. Il tentativo, in questo caso, è di schierarsi apertamente con il popolo africano, prendendo a soggetto gli sventurati che vennero deportati come schiavi in America.
Ma, come accennato, e come del resto prevedibile, Jacopetti e Prosperi non rinunciarono al loro, eufemisticamente parlando, linguaggio provocatorio, e scatenarono una ridda di proteste rispetto alle quali, Africa addio si poteva dire che fosse quasi passato inosservato. Addio zio Tom fece quindi la sua uscita nei cinema italiani e i problemi cominciarono presto: il 9 ottobre, a Bologna, le contestazioni raggiunsero l’apice. L’Unità del giorno successivo titolava così un trafiletto a riguardo: “Scontri a Bologna per un film razzista”. In data 14 ottobre 1971 il Ministro dell’Interno scrisse ufficialmente al suo collega del Turismo e dello Spettacolo: “Per notizia, si comunica che nei giorni scorsi a Bologna la proiezione del film in oggetto ha suscitato le proteste di studenti universitari aderenti ai movimenti «lotta continua» e «potere operaio» e di studenti negri, i quali rilevano nel film un carattere razzista. In occasione della proiezione serale del 7 c.m. un centinaio di studenti si sono raccolti nei pressi di due cinematografi tentando anche di impedire l’accesso agli spettatori. Sono previste altre manifestazioni avverso la proiezione del film”[i]. Il 15 ottobre, La Stampa rilanciava una notizia ANSA: “Il film-documentario Addio zio Tom è stato sequestrato oggi, a Rimini, per ordine del Procuratore della Repubblica Giuseppe Scarpa. Il decreto emesso dal magistrato è stato così motivato: «Si tratta di un film contrario al buon costume e al sentimento etico e sociale per le frequenti scene di volgare sessualità, per l’esasperata rappresentazione dell’odio razziale e per le tragiche e sanguinose stragi che la lotta razziale determina nella struttura dello spettacolo». Il provvedimento è valido su tutto il territorio nazionale”. Quello stesso giorno dalle pagine dell’Unità, un altro veloce trafiletto usciva vagamente dal coro unanime di condanna a Addio zio Tom, sebbene vada detto che anche il critico cinematografico di quel giornale, Ugo Casiraghi, in genere assai censorio nei confronti di Jacopetti e compagnia, un po’ a sorpresa non aveva del tutto bocciato il film nella sua recensione. Ma, se è possibile, il veloce richiamo a pagina 7 del 15 ottobre, è anche più interessante. “Il decreto di sequestro reca una motivazione sconcertante perché sembra rivolgersi soprattutto a censurare la materia di cui il film tratta piuttosto che lo spettacolo di per sé stesso. Tale motivazione infatti afferma che il film sarebbe «contrario al buoncostume e al sentimento etico e sociale per le frequenti scene di volgare sessualità, per l’esasperata rappresentazione dell’odio razziale e per le tragiche e sanguinose stragi che la lotta razziale determina nella struttura dello spettacolo» quasi che «l’oscenità» si dovesse attribuire alla storia reale e non alla sua rappresentazione”. Il giorno dopo, al ministro del Turismo e dello Spettacolo, arrivava comunicazione dalla Prefettura di Bari: “Addio Zio Tom sequestrato anche a Bari”. Il film supererà queste noie legali con la sentenza del Tribunale di Milano che assolse gli imputati da ogni accusa –“il fatto non costituisce reato”– e disporrà il dissequestro della pellicola. I guai, tuttavia, non erano ancora finiti: c’era, infatti, un’altra grana, e ben peggiore, rispetto alla tumultuosa accoglienza, ovvero un’accusa di plagio. Lo scrittore Joseph Chamberlain Furnas aveva pubblicato Goodbye to Uncle Tom, un testo in cui analizzava come il famoso La capanna dello zio Tom –il celebre romanzo di Harriet Beecher Stowe, in genere considerato benevolmente in qualità di racconto abolizionista– avesse avuto in qualche modo un ruolo determinante nei rapporti tra bianchi e neri americani. A fronte di questa situazione, la Eura International Film fu costretta a ritirare il film e a cambiarne il titolo. Allungato di quasi venti minuti, che lo porteranno a superare abbondantemente le due ore, ancora marchiato con l’inevitabile «Vietato ai Minori di anni 18», nel marzo dell’anno successivo il lungometraggio tornò quindi a circolare con il titolo mutato in Zio Tom. Ad un primo sguardo, la sostanziale differenza, rispetto al precedente Africa addio, è che stavolta la chiave morale c’è eccome: Jacopetti e Prosperi se ne servono per fare una colossale opera di ricostruzione della Storia della Schiavitù in America, andando a ricreare, come in un normale film di finzione, gli avvenimenti cruciali. Un’operazione curiosa, perché l’impostazione prevede i nostri baldi giornalisti visitare le varie ambientazioni, quasi potessero disporre di una sorta di macchina del tempo. A questa già bizzarra architettura di base, si era aggiunta quella indotta dai problemi con il romanzo di Furnas, che avevano portato gli autori ad un’integrazione del materiale girato con ulteriori spezzoni filmati di natura diversa. Il risultato finale è un’opera frammentata in più direzioni, che solo la superba capacità tecnica degli autori, i due registi ma anche i vari collaboratori, riuscì a rendere comprensibile e avvincente.

Anche stavolta, i meriti nella fruibilità di Addio zio Tom non sono attribuibili al solo Jacopetti, la cui peraltro riconosciuta abilità nel montaggio è comunque fondamentale anche qui, dove l’autore la utilizza a dovere per svincolarsi abilmente tra i tanti salti del racconto filmico. Salti che non sono solo cronologici, ma anche metalinguistici, per cui si passa da parti di finzione nel passato, a reportage –apparentemente autentici– provenienti dall’attualità, a nuove finzioni stavolta contemporanee. E in questi passaggi, ci sono naturalmente scene che appartengono alla realtà della finzione imbastita dal racconto, interrotte però da visioni che, all’interno di questa, sono solo proiezioni dell’immaginazione dei personaggi. Insomma, un caleidoscopio magniloquente strutturato con abilità sopraffina, guidato probabilmente dall’idea di Jacopetti comunque supportato, da pari a pari, da Prosperi in cabina di regia tecnica. A garantire l’adeguata resa scenica, Antonio Climati, Claudio Cirillo e Benito Frattari si occupano dell’impeccabile fotografia, la cui natura eterogenea, diversa nelle scene ricostruite da quelle dei reportage, aiuta ad orientarsi e conferisce un aspetto formale più vario ma anche più riuscito. Ad oliare perfettamente questo debordante meccanismo narrativo, sono le stupefacenti musiche di Riz Ortolani: il pezzo rockeggiante che accompagna le scene dei moderni tafferugli, in avvio di pellicola, è un esempio di alta scuola valido ancor oggi per un qualunque film d’azione. Ma Ortolani aveva, ovviamente, nelle sue corde prevalentemente la musica d’orchestra e poté, anche stavolta, darne ampio sfoggio, soprattutto nei tanti passaggi lirici che il film si ritaglia. La struggente e soave canzone “Oh, my love”, cantata da Katyna Ranieri, che introduce il lungometraggio, è uno di questi, nei quali il musicista dà l’ennesima, superba prova delle sue capacità di compositore. E fin qui, abbiamo tergiversato, rendendo comunque il doveroso merito alle eccezionali dimostrazioni di abilità tecnica che compongono ogni dettaglio di Addio zio Tom. In realtà, un primo indizio-chiave che permetta di comprendere se il lavoro di Jacopetti e Prosperi sia in qualche modo meritevole, è già stato dato.
Nel trafiletto citato tratto dall’Unità riferito al sequestro del film, l’anonimo giornalista si chiedeva perplesso il senso delle parole del magistrato Giuseppe Scarpa. In effetti, il Procuratore della Repubblica, si era rivelato acuto recensore cinematografico: forse non è tanto Addio zio Tom ad essere osceno, quanto piuttosto è stata la schiavitù ad esserlo. Perché se il “buoncostume e il sentimento etico e sociale” hanno taciuto, e continuano a tacere, sulla reale portata delle atrocità commesse in quel periodo storico, solo per non turbare l’opinione pubblica, forse sono osceni anch’essi. Una simile ipocrisia, perdurata per secoli e perdurante, aveva quindi lasciato aperta la porta ai cattivi maestri, ai profeti dell’immondo, della violenza, del sadismo, e di tutto il Male della Terra –Jacopetti e Prosperi, ça va sans dire– ma l’opera di questi non può certo essere considerata peggio di quanto da loro scovato. Nel finale del film, da una didascalia apprendiamo che “Questo film è un documentario. I fatti sono storicamente avvenuti ed i personaggi sono realmente esistiti”, sebbene, trattandosi di Jacopetti e Prosperi, qualche dubbio nel merito è più che giustificato. Anche perché, con la solita ficcante ironia, in un testo che dà l’idea di prestare rigore nella ricostruzione storica, viene rispettato il cliché della bufala dichiarata, esplicita, uno dei passaggi obbligati dei Mondo movie. Ad un certo punto, il personaggio storico di Samuel Cartwright –il medico, schiavista, inventore di assurde teorie come la drapetomania, ovvero una «malattia» che altro non era che il desiderio di libertà degli schiavi– risponde di essere ebreo. Cartwright non lo era, e questo in genere è segnalato come errore nella ricostruzione storica del film, ad esempio sul sito IMDb. Si tratta, in realtà, di un piccolo saggio dell’abilità dialettica di Jacopetti: l’errore c’è, ed è l’ironica firma del giornalista, ma non è del commento –e quindi propriamente del documentario– visto che, essendo messo in bocca al personaggio, narrativamente, potrebbe semplicemente trattarsi di una bugia di questi. Ovviamente, l’aggancio agli ebrei è un rimando all’Olocausto –una tragedia evocata più volte dalle immagini del film– ed è un ulteriore esempio di come Jacopetti riesca a creare intrecci e castelli narrativi anche con un semplice stacco del montaggio o con una battuta dei dialoghi. Ma il succo del discorso sembra comunque autentico, e quello che vediamo, per quanto abominevole, è la forma visiva, la ricostruzione filmica, dei resoconti storici o anche solo di certe teorie odiosamente razziste al tempo diffuse apertamente. Perfino un severo censore della coppia di registi, il critico Ugo Casiraghi, come accennato, ebbe un approccio meno tranciante del solito: “Tuttavia molto potrà essergli contestato, salvo l’estrema civetteria degli autori che, pur non avendo mai realizzato in passato un «vero» documentario, ma sempre dei reportage sensazionalistici, questa volta che fanno davvero sensazione con il loro pamphlet storico, osano più legittimamente –a uso e consumo del pubblico borghese– chiamarlo «documentario», perché basato su fatti avvenuti e su personaggi esistiti”. Non mancarono, peraltro, le pesanti stroncature, a partire dal medesimo quotidiano:

“In realtà c’era da fare poco affidamento sulla volontà dei registi di Africa addio di dare effettivo congedo al loro razzismo. Il quale continuerà a manifestarsi nel modo, lubrico e feroce, con cui essi rappresentano il popolo nero d’America. Certo, il film elenca dati, fornisce elementi sulla «storia» della questione razziale degli Stati Uniti, a partire dallo schiavismo ottocentesco. E i bianchi non ci fanno una bella figura. Ma lo scopo di questo pseudo-documentario, dove tutto è «ricostruito» grossolanamente e sfacciatamente, è soprattutto quello di sollecitare e soddisfare le tendenze sadiche latenti negli spettatori, fingendo di fustigarle. Non si poteva, è chiaro, pretendere da due personaggi come Jacopetti e Prosperi, un’analisi politica, sociale ed economica seria del passato e del presente di un dramma sanguinosamente aperto nel cuore del maggior paese capitalistico del mondo. Si poteva, forse, chiedere che, essendo stati tanto tempo oltre oceano, e avendo speso tanti soldi, ne riportassero almeno una qualche testimonianza giornalistica, e non un volgare fumettaccio su schermo grande a colori, che sembra la caricatura di Via col vento, o meglio, una sua versione bordellesca”. Addirittura più drastici altri giudizi: dal caustico “film fogna”, al “È inventato, per di più, da fantasie sguazzanti nel torbido e nell’orrido”. Meglio articolato, ma non per questo meno duro, il commento di Giovanni Grazzini sulle pagine del Corriere della Sera: “Nulla è vero, dunque, in questo Addio zio Tom, salvo l’inverecondia con cui Jacopetti e Prosperi mettono la loro abilità di fotografi al servizio di istinti esecrandi, del proprio sadismo e della piccola tesi che la schiavitù non è affatto abolita, essendo ancora schiavi, tutti noi del lavoro. (…) Abbiamo detto che il sapore di fondo di Addio zio Tom è sarcastico. Ora aggiungiamo che tutto il film vuol essere una parodia delle inchieste etnografiche e sociologiche (e, in certi passi, di Fellini). Questo però non basta a renderlo accettabile. L’umorismo di Jacopetti e Prosperi, di qualità spesso nefanda, infatti si arresta di fronte alla voluttà dello scandalo: la caricatura dei bianchi, affidata sovente a immagini goliardiche e a dialoghi penosi, non può perciò ripagare la sostanziale odiosità di un film che –mentre sembra volersi servire del ridicolo e dell’assurdo per condannare lo schiavismo– ricorre poi al realismo più crudo quando sono in scena i «poveri negri». Sicché non soltanto rifiuta il minimo cenno di commozione e di vergogna ma totalmente si infischia del problema razziale”.
Con gli anni, il giudizio della critica non è sostanzialmente mutato: “Se i registi (autori anche della sceneggiatura) pretendono che il testo letto fuori campo si basi su documenti rigorosamente storici, il montaggio effettistico, l’intento voyeurista e il gusto perverso per le immagini scioccanti fanno di questo finto documentario un esempio del peggior qualunquismo razzista”.
Insomma, stavolta Jacopetti e Prosperi avevano dichiarato esplicitamente le proprie convinzioni antirazziste, provato a portare un testo attendibile nella sostanza, per quanto con l’implicita ammissione che tutto quanto si potesse vedere fosse ricostruito ad arte; non mancava nemmeno la condanna morale al fenomeno del razzismo, eppure la critica non rimase comunque convinta. Il punto è, come visto, nel gusto compiaciuto delle scene più efferate, un gusto sadico, violento, maligno: una critica estensibile, volendo, a tutti i generi del cinema estremo. Gli autori, in effetti, non sembrano volerla smentire, anzi, forse con Addio zio Tom diviene unicamente più nitido il loro intento: il finale del film, con la scena vista dall’elicottero, sulle note di Oh, my love, riprende pedestremente l’inizio del lungometraggio. Come dire che tutto quel tourbillon di eventi e personaggi, sangue, morte, violenza, non è valso a nulla, si è ritornati punto e a capo. In effetti il concetto ripetuto più volte, nel commento recitato da Stefano Sibaldi, è che ora, siamo di fronte ad un razzismo alla rovescia, da parte dei neri americani nei confronti dei bianchi. Era un aspetto con il quale si era aperto, in effetti, anche Africa addio, nel segmento ambientato nell’Angola portoghese. Se per la legge portoghese, non esistevano, almeno formalmente, differenze di razze, gli angolani si erano premuniti di farle, ribadendo di essere gli unici padroni a casa loro.
Tornando al nuovo documentario, il corteo funebre di Martin Luther King –uno dei frammenti aggiunti dopo l’accusa di plagio– rappresentava simbolicamente l’uscita di scena del mansueto zio Tom, che lasciava il campo alle Pantere Nere e alle violente rivendicazioni dei militanti afroamericani. Il film si chiude simbolicamente sull’immagine del predicatore nero nel trancio narrativo finale –quello stile black-esploitation che, imprevedibilmente, cita Indovina chi viene a cena?– che sta leggendo Le confessioni di Nat Turner, romanzo storico di William Styron. Pare un uomo religioso –l’abito nero sembra proprio da prete cattolico– acculturato –sta leggendo un libro– e pacifico –sopporta l’impertinente passaggio dei giovani bianchi a bordo di una dune buggy che lo schizza d’acqua. Ecco, in realtà qui si lascia sfuggire un’imprecazione non proprio in linea con la sua veste. La sua natura, almeno in apparenza, calma e riflessiva, è sottolineata poi dal suo sedersi appoggiato ad una palma sulla spiaggia, continuando la lettura. E qui, il film, aprendo uno dei tanti piani narrativi di diversa natura, dà corpo alle sue fantasie, legate tanto alla lettura del testo di Styron, quanto alla sua immaginazione, istigata dai bianchi che vede sulla spiaggia a prendere il sole. Le vittime del massacro commesso da Nat Turner, il protagonista del libro, assumono quindi i volti e l’aspetto dei bagnanti bianchi mentre guardando una bella ragazza bionda, l’uomo seduto sotto la palma ironizza pensando al citato film di Stanley Kramer, del resto il personaggio ha la stessa voce, quella di Pino Locchi, che nell’edizione italiana ha doppiato Sidney Poitier. Il nostro lettore delle imprese di Nat Turner si presenta quindi come lo stimato dottor John Prentice, il protagonista del manifesto liberal dell’America, e non solo, di quegli anni: unicamente, guardando quei bianchi, ricchi e borghesi, sembra avere sentimenti assai meno nobili. E poi c’è anche l’attrazione per la ragazza bionda, bella, giovane, sexy: in fin dei conti, sono tutte attenuanti per i suoi istinti poco edificanti. E così, il passaggio più duro, dell’intero film, che supera in pessimismo anche le atrocità mostrate per tutta la fase della ricostruzione storica, non mostra nulla di poi così efferato. Mentre il nostro amico sta fantasticando di affogare la ragazza bianca, gli rotola vicino un palloncino, seguito appresso da un bambino che, vedendo l’uomo di colore, vestito completamente di scuro, si ferma intimorito. L’uomo afferra la sfera e chiama a sé il ragazzino bianco, come per tranquillizzarlo: ma intanto, strizza il palloncino con forza tra le mani. Il bambino è come paralizzato e gli spettatori con lui: davvero quel tizio, quello che ha la rassicurante voce di Sidney Poitier, vuole far scoppiare il palloncino? Davvero vuole fare un dispetto gratuito, una pura cattiveria, ad un ragazzino che, data la giovanissima età, non ha alcuna colpa nella questione razziale? Il palloncino, alla fine, esplode, e l’uomo sorride, compiaciuto. Questa scena, atroce nella sua pura cattiveria, nella sua mancanza di speranza, non ha suscitato particolari proteste, da parte dei recensori. Il che è un fatto curioso, quasi che il citato “buoncostume” tolleri la cattiveria più banale e senza motivo, e sia infastidito solo dall’esibizione della macelleria violenta o sessuale che sia. L’ultimo fotogramma del film, è, simbolicamente, lo sguardo beffardo dell’uomo dopo che ha fatto il suo dispetto, una volta che si è preso la sua piccola vendetta. Piccola, ma significativa perché ci dice che la spirale dell’odio non è affatto interrotta, anche quando le apparenze sembrano indicarlo. Inoltre, la scena, rivela che il sadismo, non è solo legato alle scene truculente che si trovano nei film alla Jacopetti, ma è presente piuttosto nella vita di tutti i giorni, in dettagli banali, ma forse più dolorosi, per chi ne subisce gli effetti, rispetto alla visione di una proiezione cinematografica. È innegabile che il cinema di Jacopetti e Prosperi, così come molti altri film, “solletichi il sadismo latente” per citare una delle recensioni riportate, o il gusto morboso per il torbido che, in un modo o nell’altro, è più diffuso di quanto si possa pensare. Il dubbio, che in fondo può anche rimanere, è se il vedere queste cose, il portarle alla luce, possa avere un benefico effetto catartico, oppure, come sostengono i vari recensori presi qui a campione, alimentare le proprie deviazioni.
Era forse a questo a cui si riferiva Friedrich Nietzsche con il suo famoso aforisma, «chi lotta contro i mostri deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro. E se tu riguarderai a lungo in un abisso, anche l'abisso vorrà guardare dentro di te»?
Ma può bastare girarsi dall’altra parte?



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