1732_LA PRINCIPESSA DEI MOAK (Mohawk), Stati Uniti 1956. Regia di Kurt Neumann

La
principessa dei Moak,
al netto dello scellerato titolo italiano e a dispetto della scarsa
considerazione generale, è un piccolo gioiello. «Moak» è, infatti,
un’italianizzazione inaccettabile e lo era già nel 1956, anno di uscita del
film. Il titolo originale, Mohawk, riporta il nome della fiera e
bellicosa tribù irochese al centro del film di Kurt Neumann scritto nella
grafica corretta. Vero è che si tratta anche in quel caso di una
translitterazione fatta da europei ma, assai probabilmente, molto più fedele
alla pronuncia nella lingua irochese usata dai Mohawk. Inoltre, nel probabile
intento di indorare ulteriormente una pillola che doveva apparire loro non
troppo invitante, i distributori italiani hanno posto l’accento sulla
protagonista femminile Onida, la figlia del capo tribù, interpretata da una
sfavillante Rita Gam. In effetti, a parziale giustificazione del titolo
italiano, va detto che la Gam fa un figurone: mora, bellissima, occhi blu,
fisico particolarmente avvenente e abiti dal taglio non certo attendibili dal
punto di vista storico ma che ne esaltano l’innata eleganza. Tuttavia non è
l’unica attrice al centro del film; piuttosto, lei è la sponda alla fine
prescelta dal protagonista ufficiale del racconto, il pittore Scott Brady
(Jonathan Adams). Siamo ai tempi delle Guerre di Frontiera Americane, ovvero nel
XVIII secolo, nel Nord Est di quelli che saranno gli Stati Uniti; Brady è un
improbabile artista del pennello che deve realizzare una serie di quadri
ambientati in quei selvaggi paesaggi. La principessa dei Moak è un film
realizzato negli anni 50, ma Neumann, forse ancora legato agli stilemi che il
western aveva ai tempi dei suoi esordi col genere, enfatizza la componente
romantica del racconto. A contendere il bel fusto protagonista alla «principessa» indiana sono
infatti ben due fanciulle: la statuaria Greta (Allison Hayes), modella per i
quadri di Scott, e la fidanzatina giunta appositamente dall’est, Cynthia (Lori
Nelson).

Concorrenza agguerrita, insomma: la Allison aveva una presenza scenica
notevole, e solo un paio d’anni più tardi sarebbe diventata celebre come
meravigliosa gigantessa nel classico SF The attack of the 50 foot woman,
[Nathan Juran, 1958], e la Nelson, che nel film appare come la più sofisticata
del trio, aveva comunque la vittoria in un concorso di bellezza nel suo
curriculum vitae. Questi dettagli, che possono sembrare mere curiosità, sono
piuttosto alcuni degli elementi su cui si gioca la sua partita Neumann, il
regista, considerato lo scarso budget a disposizione e i tempi a dir poco risicati
buoni per girare. Il protagonista è un bianco ma non è il tipico colono, poiché
alla zappa e al fucile preferisce i pennelli e l’arte. Questo approccio
artistico gli permette di relazionarsi in modo diverso con i nativi, dal
momento che ne apprezza i manufatti artigianali. L’attenzione a questi elementi
è uno dei pregi maggiori dell’opera: nel film si vedono, infatti, maschere
rituali irochesi, note come False Faces, molto verosimili. Tornando alla
questione sentimentale, il fatto simbolicamente significativo è che Brady scelga
la bruna indiana, sia per le grazie di Rita Gam che per la filosofia dei nativi
su cui ci si sofferma a più riprese. Che tale opzione sia preferita non per
mancanza di alternative, come sarebbe logico aspettarsi in uno sperduto angolo
di frontiera, ma potendo scegliere in un trio che comprende la rossa e
vulcanica Greta e la biondina, deliziosa e sofisticata, Cynthia, avvalora l’aspetto
simbolico del passaggio narrativo.

Il tema romantico, a cui si riallaccia La
principessa dei Moak, è quindi utilizzato da Neumann per dare un segnale
politico: la cultura dei nativi va recuperata, rivalutata e valorizzata. Tutti
i dialoghi e le attenzioni alle vicende storiche degli Irochesi –dalla indomita
e orgogliosa fierezza dei Mohawk alla triste esperienza dei Tuscarora, due
tribù che fecero parte della Lega delle Sei Nazioni Irochesi– sono messi in
contrasto con l’approssimazione con cui viene descritto Butler (John Hoyt), il
cattivo della storia. Il Butler de La principessa dei Moak briga in
tutte le maniere per far scatenare la guerra tra i coloni e gli indiani,
arrivando a uccidere a tradimento Keoga (Tommy Cook), figlio del gran capo
mohawk Kowanen (Ted de Corsia). Il riferimento, probabilmente, è al capitano
Butler che guidò i razziatori nel Massacro di Cherry Valley, cercando di far
ricadere la colpa sugli indiani mohawk del capo Joseph Brandt. Peraltro,
l’apparente legame tra il Butler storico e i nativi era solido: suo padre John,
non meno discutibile del figlio, era stato agente indiano e utilizzò la sua
influenza per sfruttare la naturale attitudine battagliera degli Irochesi per
perseguire i propri fini e mai per scopi di pacifica convivenza. Tuttavia la
scelta di mantenere senza nome di battesimo il personaggio del film, per cui il
paragone con la figura storica è solo abbozzata, segna una netta differenza con
l’attenzione dedicata alle vicende degli Irochesi. Pur nell’esiguo tempo a disposizione,
Neumann illustra con ammirazione e rispetto la Lega delle Nazioni Irochesi che
comprendeva tra gli altri i Mohawk e i Tuscarora, di cui Rokhawah (Neville
Brand) è il bellicoso rappresentante. Nel film si dà anche una giustificazione
storica al suo rancore verso i bianchi: effettivamente i Tuscarora vennero
scacciati dalle loro terre nelle Caroline in modo particolarmente cruento dai
coloni americani. Detto tutto ciò, il film in genere ottiene tiepidi commenti
nel migliore di casi, per via di alcuni innegabili limiti. A cominciare dalle
location scelte per girare, lo Utah è un Nord Est assai poco credibile, e anche
l’abbigliamento degli Irochesi ha troppi debiti con quello più famoso delle
tribù delle pianure, come i Sioux o i Cheyenne. Ed è anche senz’altro vero che
utilizzare molte sequenze del film La più grande avventura [Drums along
the Mohawk, John Ford, 1939] è un autogol perché induce un paragone inopportuno
con un autentico capolavoro. L’intreccio sentimentale è certamente banale e, a
quanto si racconta, le riprese vennero girate rapidamente e senza particolare impegno:
insomma, difficile trovare recensioni entusiaste de La principessa dei Moak.
Tuttavia si tratta di valutazioni troppo severe perché l’opera di Neumann ha la
giusta ingenuità, un rispetto non smaliziato né malizioso, nei confronti dei
nativi americani e, in ogni caso, non c’è un tentativo di farne un’agiografia
come altre volte, in tempi più recenti, è capitato. Gli indiani sono anche
bellicosi e tra loro vi sono persone rispettabili e personaggi discutibili,
come ad esempio l’intemperante Rokhawah. In ogni caso, nel finale, il
dongiovanni Brady si accasa presso la tenda di Onida, come ad intendere che è
meglio vivere come i nativi piuttosto che nelle città dell’est, dove
l’attendeva Cynthia, o nelle terre da colonizzare, eventualmente con Greta. Ma qualcosa
di buono anche gli invasori bianchi l’avevano portata: ad esempio, l’idea di
chiudere gli occhi durante i focosi baci indispensabili in un western romantico.
Una metafora ingenua ma innegabile: meglio i baci a occhi chiusi che le
terribili armi da fuoco. Anche senza avere tra le braccia una sventola come
Rita Gam.
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