1733_L'URLO DEI COMANCHES (Fort Dobbs), Stati Uniti 1958. Regia di Gordon Douglas
Si narra che la Warner Bros volesse trasformare in un divo cinematografico Clint Walker, star indiscussa del piccolo schermo grazie alla serie western Cheyenne [108 episodi interpretati tra il 1955 e il 1962] e il primo passo in questo senso fu affidargli il ruolo di protagonista ne L’urlo dei Comanches. Walker era un buon attore, e nel film interpreta dignitosamente Gar Davis, un uomo giusto ma con qualche ombra nel passato; tuttavia bisogna dare atto a Virginia Mayo, che nel film interpreta la controparte femminile, Celia Gray, che aveva qualche dubbio sulla sua adeguatezza al cinema su grande schermo. Walker era un pezzo di marcantonio di quasi due metri e bell’aspetto; il problema e che non rinunciava alla cura personale, ne L’urlo dei Comanches lo vediamo radersi e sempre coi capelli ingellati in stile anni 50. Se a questi elementi estetici un po’ troppo caratteristici, assommiamo una non eccelsa capacità espressiva drammaturgica, ci troviamo per le mani un bel fusto che sembra pavoneggiarsi del tutto fuori luogo col contesto. Proprio grazie al film di Gordon Douglas si può osservare come, ad esempio, Virginia Mayo, che era una bambolina per nulla credibile in una fattoria isolata nel mezzo delle Montagne Rocciose, riuscisse, grazie ad una vitalità sorprendente e alla proverbiale verve, ad essere funzionale a quello che, è bene ricordarlo, rimaneva pur sempre una ricostruzione di finzione in chiave epica e non un mero documentario. La Warner insistette ancora per qualche film, con Clint Walker, a testimonianza che l’attore comunque aveva potenzialità o quantomeno lo studio vi credesse, ma i risultati non furono sufficienti a renderlo iconico come sperato. L’urlo dei Comanches verte proprio sulla personalità del personaggio di Walker, era quindi l’occasione giusta per affermarsi e, come detto, il risultato non è affatto deludente, di per sé. Il riferimento ai nativi, proprio solo del titolo italiano –quello originale è l’altrettanto scarsamente inerente Fort Dobbs– è fuorviante in quanto il ruolo dei Comanches ricalca quello degli Apaches in Ombre rosse [Stagecoach, John Ford, 1939]. Si tratta, cioè, di una presenza ambientale ostile che dà corpo alla pericolosità insita nella conquista del west, in sostanza uno dei fattori di rischio nell’andarsene verso ovest sul continente americano.
Non sono indagate le ragioni dei nativi o le necessità di sicurezza dei bianchi nella loro opera colonizzatrice: tra le tante insidie anche gli indiani erano un pericolo, per la verità erano «il» pericolo e, in questo senso, L’urlo dei Comanches li utilizza come elemento narrativo. Il tema del racconto è la parzialità della visione unilaterale, una soggettività dalla quale possono derivare conclusioni sbagliate. Questo è l’argomento portante di tutta quanta la vicenda, con Celia Gray che si fa un’idea errata, basandosi sulle apparenze, a proposito di Gar Davis, ma è anche esplicitato in qualche scelta prettamente registica. Ad esempio nell’uso della soggettiva della Macchina da Presa, stratagemma enfatizzato nella scena dell’assalto dei Comanche alla casa dei Gray, con un pezzo del serramento della finestra, un piccolo bastone verticale, che si trova giusto in mezzo all’obiettivo intralciando la ripresa. In questo senso, volendo, si può inserire anche la Questione Indiana ne L’urlo dei Comanches, con uno sguardo sui nativi che volutamente li lascia fuori da qualsiasi approfondimento e da cui si può, errando, trarre la conclusione che siano i «cattivi» della vicenda. Un po’ come l’ombra del sospetto che grava su Gar Davis, sin dall’incipit nel quale l’uomo regola il conto ad una sorta di rivale in amore ed è successivamente inseguito dallo sceriffo di Largo (Russ Conway) con l’accusa di omicidio. Il finale, che risolve tutti i vari nodi lasciati aperti, sia quello giudiziario che quello sentimentale, non è un semplice happy ending ma qualcosa di più corposo, in quanto al protagonista è concesso il perdono in base alla sua parola sui fatti avvenuti in apertura grazie soprattutto alla condotta successiva; in un film anche credibile ma, trattandosi di omicidio, forse un po’ troppo semplicistico.
La regia di Gordon Douglas è adeguata, le musiche di Max Steiner sono una garanzia ma la nota di merito, in questo caso, va allo sceneggiatore Burt Kennedy. Kennedy, ne L’urlo dei Comanches, prepara uno script che è la quintessenza del cinema americano: ogni azione, ogni dettaglio, porta in grembo gli sviluppi per lo snodo successivo in un susseguirsi di concatenazioni perfino eccessive ma sempre godibili. Tra i passaggi emblematici in questo senso si possono ricordare quello della giacca che Gar Davis si scambia con il morto che trova mentre sta scappando dalla posse dello sceriffo. Uno stratagemma per ingannare i suoi inseguitori ma anche il dettaglio che lo metterà successivamente in cattiva luce agli occhi di Celia Gray. Quest’ultimo è il passaggio migliore del lungometraggio, anche grazie alla capacità artistiche di Virginia Mayo, sempre eccellente quando deve sfoderare gli artigli, ma i meccanismi narrativi di Kennedy perdurano imperterriti lungo tutti gli incastri della trama, in qualche caso con sincronismo persino esagerato. Si veda l’arrivo al forte, il successivo ritorno sulla scena di Davis con lo stratagemma dei cavalli che sembrano capitare lì a bella posta, e via di questo passo. Tra gli aspetti toccati da L’urlo dei Comanches c’è quello delle armi a ripetizione, nello specifico il fucile Henry, capaci di sparare 15 colpi di fila senza dover ricaricare. A portarli in dote al racconto è Clett (Brian Keith), furfante che ha come scopo principale quello di mettere in luce le qualità di Davis, per contrasto, dopo, peraltro, aver rivelato qualche particolare oscuro del passato del protagonista. I fucili a ripetizione sono l’asso nella manica che permette di risolvere la partita e anche questo elemento certifica il lavoro maniacale in sede di sceneggiatura per cui tutti quanti i dettagli sono asserviti al funzionamento del racconto. Clett prova anche a scaldare dal punto di vista erotico il racconto, elemento inevitabile se si considera l’avvenenza della Mayo; per la verità, in questo campo non è che Clint Walker fosse da meno e gli autori, per smorzare questa traccia, inseriscono la figura del bambino, Chad (Richard Eyer), figlio della donna.
La presenza di Chad, oltre a questo aspetto di monito, introduce una nota umoristica che serve da lubrificante in una vicenda che, per il resto, si basa sulla tensione costante mantenuta viva dalla minaccia dei Comanches. Se la prima scena in cui appare Chad è comica a scoppio ritardato, ovvero solo quando scopriamo che è stato il bambino a sparare a Davis, nella scena dell’assalto degli indiani c’è almeno un passaggio ai limiti della commedia slapstick. Più divertente e anche piccante la citata in precedenza sequenza in cui Celia finisce per sospettare Davis di aver ucciso suo marito. La donna, cocciutamente, aveva provato ad attraversare da sola un fiume in piena, venendo poi sopraffatta dalla forza della corrente. Davis si era tuffato e l’aveva tratta in salvo; con la donna priva di sensi, l’aveva evidentemente spogliata dagli abiti bagnati e l’aveva coperta con la giacca che teneva nella sacca. Questa giacca non era più la sua; era la giacca che aveva scambiato con un cadavere, ucciso da una freccia comanche, al fine di ingannare lo sceriffo. L’uomo ucciso dagli indiani era, naturalmente, il marito di Celia. Intanto era scesa la sera e, al calore del fuoco, la donna si era destata; Davis stava pulendo il fucile di Chad, in quel momento opportunamente a nanna. Dopo un attimo di smarrimento, la gratitudine inondava la ragazza, che si rendeva conto di essere viva grazie all’uomo che l’accompagnava e l’aveva salvata dalle acque. Poi, anche vedendo i suoi abiti stesi ad asciugare, si rendeva conto di essere nuda mentre, colui il quale l’aveva spogliata, stava strofinando con vigore la canna del fucile. Ogni riferimento erotico era, evidentemente, ricercato dallo zelo di Kennedy se non da Douglas che, comunque, aveva approvato in ultima analisi. Passaggi di questo tipo non sono infrequenti, nel cinema di Hollywood, ma nel western non sono poi così abituali come lo furono, ad esempio, nelle commedie brillanti. La Mayo, in questi frangenti, è formidabile e lo è in particolare quando si accorge che la giacca che la copre è quella di suo marito, con tanto di foro insanguinato sulla schiena, di cui, ovviamente, finisce per accusare Davis. La gattina si trasforma rapidamente in una tigre e poco ci manca che faccia la festa al suo salvatore ma nel western chirurgicamente calcolato di Kennedy e Douglas il rischio è sempre calcolato con precisione affinché rimanga solo tale. La Mayo farà di meglio, nella carriera, per quanto non è che sia un’attrice particolarmente apprezzata; eppure riesce sempre a dare una nota di valore alle produzioni a cui partecipa. Ne L’urlo dei Comanches, oltre alla confezione formale molto buona, alla sceneggiatura perfino troppo puntuale, è proprio la sua presenza a rimanere nella memoria.
Virginia Mayo
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