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sabato 10 febbraio 2018

CORVO ROSSO NON AVRAI IL MIO SCALPO

99_CORVO ROSSO NON AVRAI IL MIO SCALPO  (Jeremiah Johnson). Stati Uniti, 1972;  Regia di Sidney Pollack.

Raramente la scelta di un titolo per l’uscita italiana è stata tanto fuorviante come nel caso di questo Corvo Rosso non avrai il mio scalpo: si voleva forse richiamare alla mente certi spaghetti-western ma, con questa nostrana produzione, quello di Sidney Pollack è un film che non ha praticamente niente in comune. In originale la pellicola si intitola Jeremiah Johnson: si tratta del nome del protagonista (un superlativo Robert Redford) e, quindi, come prima cosa possiamo dedurre che l’opera riguarda un individuo. Il nome Jeremiah è di natura biblica ed è il nome del profeta destinato alla sofferenza (destino condiviso col protagonista del film) che predicava il riavvicinamento a Dio (e, anche questo, in un certo senso, avviene al Jeremiah del lungometraggio di Pollack). Inoltre, nel titolo Jeremiah Johnson, noteremo una sorta di ripetizione, visto che nome e cognome hanno identica lettera iniziale e simile lunghezza. Da questi elementi possiamo già ipotizzare una chiave di lettura per l’opera: tema individuale, riflessione (nome e cognome con similitudini), rapporto con sé stesso (la sofferenza) e con Dio (in un senso ampio, che nel film vedremo essere la Natura, rappresentato e visualizzato sullo schermo dalla solennità della Montagna). La natura riflessiva della pellicola è poi concretizzata dall’ordine degli incontri che Jeremiah compie nel suo peregrinare: ancora inesperto, si trova sulla strada di Mano-che-segna-di-rosso, il capo dei Corvi che, guardandolo da cavallo, lo vede immerso nel torrente gelato, nel goffo tentativo di agguantare qualche pesce con le mani. 

Poi è la volta di Artiglio d’orso, il trapper che lo sfama e gli fa da maestro; in seguito arriva alla capanna del massacro dove trova la donna folle e il ragazzo; infine incontra il calvo Del Gue con il quale arriva al campo della tribù delle Teste Piatte. Qui Jeremiah prende una squaw in moglie, Cigno che, insieme a Caleb, il ragazzo raccolto nella capanna del massacro, formerà la sua famiglia. Questa è la fase più dolce e piacevole dell’esperienza di Johnson, con aspetti su cui varrà la pena ritornare. Si tratta comunque di vicissitudini che arricchiranno l’uomo che, successivamente, affronterà una sorta di cammino di ritorno costellato dagli stessi incontri precedenti, ma in senso cronologico opposto. Il primo è quindi con Del Gue, che si è lasciato crescere i capelli, ed è quindi timoroso di esser diventato un bottino per i cacciatori di scalpi. Rispetto alla spavalderia del primo incontro, questi appare ora sminuito al confronto con Johnson. Il quale si dirige alla capanna del massacro, dove non troverà la donna pazza, che è morta, ma una spaurita famiglia di coloni. Quindi sarà la volta di Artiglio d’orso, al quale offre un pezzo di coniglio; situazione opposta a quella precedente, dove era stato il vecchio a sfamare il giovane. Infine Jeremiah si ritrova a tu per tu con Mano-che-segna-di-rosso, stavolta non in condizione di palese inferiorità, come era accaduto ad inizio cammino. Questo percorso circolare sottolinea quindi il carattere di ricerca interiore del racconto, con un accrescimento formativo che avviene tappa dopo tappa. 



In tutto questo, la Natura assume in un primo momento le sembianze di un dio quasi sadico, che sembra divertirsi di fronte alle piccolezze umane: nella scena che segue il bagno iniziale nel torrente in mezzo alla neve, Jeremiah cerca di accendere un falò al riparo di un pino, sotto una pesante nevicata. Pollack inquadra l’uomo che si affanna a strofinare i legnetti per creare calore, poi inquadra le fronde innevate; il fuoco finalmente si appicca e, mentre l’uomo si rinfranca al calore della fiamma, ecco che i rami cedono e la neve cade spegnendo il falò. A quel punto il regista stacca su un carrello a salire, inquadrando la montagna innevata; si ha quasi impressione che questa accenni un mezzo sorriso, mentre rimane impassibile nel vedere le piccole difficoltà dell’uomo. La solennità delle montagne è usata spesso da Pollack in questa pellicola per creare uno stacco sulla loro maestosità al confronto delle miserie della condizione umana, certamente tragiche secondo il nostro punto di vista. L’uso dei carrelli è strepitoso: ad esempio quello all’improvvisato funerale nella capanna della donna pazza, dove la macchina da presa arretra lasciando i personaggi sempre più sperduti nell’immensità del loro dolore e della grandiosità del paesaggio. 


O quello che, inquadrando Jeremiah, Cigno e Caleb all’ombra di una pianta, arretra rivelando via via la forma dell’albero dal cui forte tronco si aprono tre rami; si battezza così la nuova famiglia, composta da tre individui d’ora innanzi uniti. L’uso dei carrelli per riprendere questi momenti toccanti è magistrale, perché rivela la duplice natura di questi passaggi: determinanti se vissuti in primo piano (dal punto di vista umano), quasi insignificanti in un contesto d’insieme (al cospetto della grandezza della Natura). L’accrescimento dell’individuo avviene anche nel rapporto che questi è in grado di instaurare col suo prossimo.

In questo senso nel film vengono sottolineate l’importanza della reciproca comprensione e del rispetto. Il concetto legato alla volontà umana di comunicare, in un film che vede, da parte del protagonista, il rifiuto della comunità a favore della vita solitaria, è sorprendentemente ben sviluppato da Pollack: in primo luogo evidenziato dalle capacità commerciali di Jeremiah, che stabilisce rapidamente un buon rapporto d’affari con i pellerossa proprio grazie alle sua predisposizione al dialogo con l’altro.

Ma questo è un elemento cruciale, e anche più rilevante del sentimento amoroso, nella storia tra l’uomo e Cigno. Detto che il matrimonio è legato a motivi circostanziali, si può notare come Jeremiah inizialmente abbia nel complesso un atteggiamento di non eccesiva stima nei confronti della donna. Non è un bruto o un rozzo che approfitti delle circostanze ma, in maniera forse inconscia, la reputa comunque non esattamente al suo livello. Ne disprezza la lingua (“barbaro dialetto”), e la cucina (sputa subito il boccone di cibo fatto dalla donna, seppur di nascosto). Poi comincia ad apprezzarne le doti estetiche (la scena in cui la scopre dalla coperta mentre questa è coricata) e le abilità manuali (nella caccia e nel realizzargli il pastrano di pelle); ma per potersi congiungere a lei deve prima purificarsi dalla violenza che è innata nell’uomo. Questo passaggio avviene durante l’attacco dei lupi; l’uomo sfoga tutta la sua carica violenta per respingere l’attacco delle belve e, la sera successiva, è pronto per fare l’amore con la propria donna. 


Quindi l’amore deve essere mondato da ogni forma di violenza, di sopruso e deve essere, al contrario, protettivo in modo vicendevole. Se questa protezione dell’uomo sulla donna è di facile lettura, in questo momento viene sottolineato anche il contrario: Jeremiah ferito viene curato da Cigno che, del resto, con il pastrano di pelle, già aveva evidenziato una ricerca di protezione per il congiunto. L’attenzione verso l’altro è poi resa magistralmente da quello che forse è il passaggio più bello dell’intero lungometraggio.

Dopo la notte d’amore, mentre esce per andare a pesca, Jeremiah si accorge che Cigno ha il mento arrossato; chiede spiegazioni alla donna, la quale indica la barba dell’uomo come causa. Al ritorno a casa, Jeremiah si presenta sbarbato, con piacevole sorpresa della ragazza: con un’azione nemmeno mostrata, Pollack riesce a dirci più di una cosa, nell’ambito del rapporto tra i due. Innanzitutto che Jeremiah ha premura nei confronti della compagna, andando a radersi nell’acqua gelata e tagliandosi il viso in più punti, pur di non irritare di nuovo la pelle del viso di lei. E poi che, evidentemente, la sera vuole rifare ancora l’amore. Il successivo atteggiamento con cui l’uomo cerca di sviare l’attenzione in modo un po’ burbero, ci dice anche dell’imbarazzo provato e mascherato in modo maldestro. Ancora una volta, come nella simbolica scena del falò sotto l’albero, è proprio quando le cose sembrano andare per il verso giusto, che volgono al peggio.

Peggio che in questo caso è rappresentato da un’intrusione della civiltà all’interno dell’equilibrio naturale della vita sulle montagne. Jeremiah e la sua famiglia vivono sulle terre dei Corvi con rispetto e ne sono rispettati e hanno trovato un equilibrio naturale tra loro e nel loro ambiente. Il confronto tra Natura e Civiltà, con un rifiuto di quest’ultima a favore della prima, è uno dei presupposti dell’opera: ad inizio film, emblematicamente, Johnson scende da una barca vestito ancora da militare, ma via via cancellerà queste tracce di civiltà dalla sua figura.

Mano a mano adeguerà i suoi vestiti alla vita dei boschi e con il suo aspetto cambierà anche il suo modo di vivere, divenendo sempre meno civilizzato e più in sintonia con la Natura. Nel dover formare la sua famiglia, dovrà però trovare un punto di mediazione, tra la naturale e selvaggia vita nei boschi del trapper e quella semicivilizzata del colono: ecco la costruzione della capanna, grande e confortevole, con ripetuto taglio di alberi. In quel momento, la capanna, la composizione multiculturale della famiglia, l’armonia raggiunta, sembrano la sintesi perfetta tra Natura e Civiltà. All’inizio del film, l’appartenenza di Johnson alla civiltà era manifestata dall’uniforme indossata e uomini con la stessa uniforme fanno ora irruzione nella sua vita. 

Una colonna di soldati deve prestare soccorso ad una carovana bloccata dalla neve sulle montagne e viene richiesto l’aiuto di Johnson come guida. Controvoglia, e sotto pressione per il ricatto morale del religioso che accompagna il convoglio, Jeremiah accetta; nel corso del cammino si arriva ad un cimitero indiano, luogo sacro dei Corvi, attraversando il quale si commetterebbe sacrilegio, almeno secondo i pellerossa. Ancora una volta l’uomo è più che reticente, non per credenza ma per rispetto delle credenze altrui, ma ancora una volta cederà alle pressioni degli intrusi, che fanno opportunisticamente leva sugli scrupoli del trapper. La reazione dei Corvi sarà feroce: la famiglia di Johnson viene massacrata senza pietà. L’amico Mano-che-segna-di-rosso è ora un acerrimo nemico. La vendetta di Jeremiah non si fa attendere ed è spietata: da solo attacca a testa bassa gli indiani colpevoli, falcidiandoli. Mentre insegue l’ultimo sopravvissuto del gruppo, un indiano sovrappeso e un po’ goffo, Jeremiah appare come una belva scatenata, disumanizzato. Con Jonhson che incombe su di lui, l’indiano si ferma in fondo alla valle innevata e intona il proprio canto di morte.


La solenne dignità dell’uomo che si prepara a morire ferma Jeremiah che sembra tornare umano. Non si ferma però la faida con i Corvi che proveranno ripetutamente a strappare lo scalpo di un nemico tanto valoroso. Adesso Jeremiah deve farsi valere, guadagnarsi il rispetto con il valore sul campo che è la più grande e suprema legge della Natura.
Alla fine, anche Mano-che-sega-di-rosso non può che riconoscerlo, Jeremiah Johnson non è un grande guerriero da uccidere, ma un grande uomo da rispettare. Un giudizio che si posa su una condizione di precario equilibro. Un uomo allo stadio selvaggio che si batte strenuamente, con onore e dignità, per difendersi la vita. Ma questo equilibrio, l’uomo può trovarlo da solo, come un eremita, fuggendo la civiltà ma anche il vivere quel minimo di socialità che può dare una famiglia; un'esistenza senza alcun futuro. 
Quel futuro che poteva essere l’unione tra Civiltà e Natura, tra la cultura bianca e quella rossa, che insieme a Cigno e Caleb è stato spazzato via dalla stupida e ottusa arroganza degli uomini.     

  
Delle Bolton






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