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giovedì 9 luglio 2020

LE CATENE DELLA COLPA

596_LE CATENE DELLA COLPA (Out of the Past); Stati Uniti, 1947. Regia di Jaques Tourneur.

Jacques Tourneur, il regista francese autore di alcuni notevoli horror (tra cui spicca Il Bacio della Pantera) si cimenta per la prima volta con il genere noir, con il quale trova subito la giusta sintonia. Le catene della colpa è un assoluto capolavoro, oltre che una perfetta interpretazione degli stilemi di quel miscuglio di poliziesco, crime-movie, gangster-movie, giallo, thriller, che è appunto stato etichettato efficacemente con il termine noir, nero. E di nero c’è né molto sullo schermo di questo eccellente Le catene della colpa, sapientemente mescolato a un pizzico di bianco e a molte sfumature di grigio, grazie alla talentuosa mano del direttore della fotografia Nicholas Musuraca. Nel film i dialoghi sono taglienti e ficcanti, come da miglior tradizione americana, e contribuiscono ad imbastire una trama fitta come una rete, una rete da pesca, che finisce per imbrigliare i protagonisti in un gioco al quale è impossibile sfuggire. Uno dei primi tra questi folgoranti scambi di battute può servire come chiave di lettura del film: Joe (Paul Valentine), il tirapiedi del boss Whit Sterling (Kirk Douglas), è alla ricerca di Jeff Bailey (Robert Mitchum) e si imbatte nell’insegna della stazione di servizio che quest’ultimo gestisce da quando è uscito dal giro. Il servizio è chiuso e Joe entra nel bar adiacente per chiedere informazioni: il mondo è piccolo, commenta la barista quando questi gli racconta di come abbia ritrovato una vecchia conoscenza vedendone il nome sull’insegna. O forse è grande l’insegna è la replica di Joe. Ecco, in queste poche righe c’è già il significato del film: tra il tentativo di Jeff di cambiare vita e la concreta possibilità di farlo. O meglio, il senso sembra nel dubbio che rimane che ci sia una reale volontà di cambiare: perché mettere il proprio nome su un’insegna, quando si cerca di sfuggire? 

Il tema del film è infatti l’impossibilità di sfuggire ma non al proprio destino, come si usa in genere dire; no, qui a irretire il protagonista è il suo passato. Out of the past, recita il titolo originale, riferendosi all’impossibilità di sfuggire agli errori del nostro passato, ovvero alle catene della colpa, come altrettanto efficacemente ci ricorda il titolo scelto per l’uscita nelle sale italiane. In destino non è già scritto, come si potrebbe pensare equivocando il senso del film; il nostro destino è nelle nostre mani, siamo noi responsabili di quello che ci accadrà. E il peso delle nostre scelte è tanto grande che nessun fato può alleviarcelo; non basta uscire dal giro, trovarsi un cantuccio appartato, incontrare una ragazza (Ann, intepretata da Virginia Huston) e ricominciare una nuova vita ringraziando la fortuna per il nuovo lavoro e il nuovo amore. Non è così che funziona.


Per quanto Jeff sia una persona interessante e affascinante, non è mai un uomo del tutto corretto; in fin dei conti, prima accetta un incarico che poi non rispetta; poi lascia nei pasticci senza preavviso anche l’incolpevole socio Jack Fisher (Steve Brodie). Quando conosce Kathie Moffat (Jane Greer), la dark-lady della storia che ha avuto un torbido intrigo con With, non approfondisce più di tanto quello che può essere stato il passato della donna. Per Jeff il passato non conta; prima eviterà di indagare su quello della donna di cui si è innamorato, poi cercherà di dimenticare il proprio. Purtroppo per lui il film ci dice che non è possibile.

Nel finale, il suo aiutante, un ragazzo sordomuto, ne tenta una sorta di riscatto alla memoria: il giovane lascia intendere ad Ann che Jeff l’abbia lasciata per tornare con Kathie. In questo modo Ann potrà rifarsi una vita senza rimpianti; il cenno d’intesa che il ragazzo lancia all’insegna, su cui campeggia il nome Jeff Bailey, rivela come quella, nel merito, fosse la volontà dell’uomo. Curioso che anche l’ultimo riscatto di Jeff avvenga in modo ambiguo, con una bugia.
Tourneur è un vero maestro in regia e il torbido intrigo si lascia seguire pur nello spaesamento dei labirintici rimandi della trama. Il cast è d’eccezione: Mitchum interpreta con mestizia virile il ruolo di protagonista, mentre Douglas accetta una parte più defilata, ma è perfetto nel ruolo del boss sicuro e pieno di sé.


Di gran classe la componente femminile: Jane Greer è superlativa nelle scene messicane, ma regge anche nei momenti ambigui; Virginia Huston è semplice come le impone il copione, mentre ad un certo punto salta fuori anche Rhonda Fleming nei panni di Meta Carson, una delle pupe della cricca. Al vederla nel suo statuario personale anche Jeff, che era abituato nientemeno che a Kathie o Ann, ne rimane colpito:
- Meta Carson?
- Sì.
- Mi chiamo Bailey.
- Entra. Ti aspettavo.
- Beh, io non mi aspettavo te.
- Devo prenderlo come un complimento?
- Whit mi ha detto che eri simpatica.
Un film eccellente, che ha moltissimi punti di interesse, quindi, a partire dai dialoghi, al cast, all’avvincente storia, fino agli aspetti più tecnici come la fotografia o la regia.
Capolavoro.









 Virginia Huston




Jane Greer





















Rhonda Fleming

 


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