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martedì 7 luglio 2020

UN MALEDETTO IMBROGLIO

595_UN MALEDETTO IMBROGLIO ; Italia, 1959. Regia di Pietro Germi.

Pietro Germi, regista di classe sopraffina, interpretò tre dei suoi film: l’ultimo fu Un maledetto imbroglio, del 1959. In seguito si calerà ancora nei panni d’attore, ma solo per la regia di altri. Può naturalmente essere un caso, ma certamente Un maledetto imbroglio si presta bene ad essere letto come una sorta di congedo, da parte di Germi, per un certo tipo di partecipazione diretta all’attività di cineasta. Un maledetto imbroglio è tratto da un romanzo di Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana che, con le poche migliaia di copie vendute, era però un best-seller nell’Italia del dopoguerra. E in parte già dal cambio di titolo si può intuire come Germi trasformi il soggetto da romanzo pretenzioso nella sua complessità linguistica a pragmatico film che richiama i classici americani, proprio secondo la sua poetica. La difficoltà di districarsi nella ingarbugliata trama gialla è così mutata da barocco pretesto per raccontare una società viziosa nello specchio di un mondo corrotto in ogni suo ramificazione, senza via di uscita, senza speranza, con una intrinseca maggior insofferenza, proprio come nei noir di Hollywood. Germi, nel film, è il commissario Ingravallo: un personaggio che sembra preso di peso da uno dei citati polizieschi americani e, forse, rappresenta simbolicamente anche il tentativo dell’autore di dare il suo contributo, pratico, concreto, nel movimento cinematografico italiano. E questa è una chiave di lettura interessante, che trova molte sponde che potrebbero in effetti confermarla. 

Innanzitutto già il titolo: l’Italia, del dopoguerra (ma si potrebbe dire per esteso in senso generale) è davvero un maledetto imbroglio. Anche solo dal punto di vista linguistico: sebbene la sua versione per lo schermo non abbia la ricercatezza formale del romanzo di Gadda, anche nel film di Germi alcuni personaggi faticano a comunicare tra loro (via radio, via telefono e anche di persona). Il problema, per Germi, sembra anche essere che l’Italia non è un paese che può essere preso seriamente, nemmeno al cinema: Anzaloni (Ildebrando Santafe), la vittima del furto con cui comincia la storia o il maresciallo Saro (Saro Urzì) perennemente intento a mangiare panini, non sono personaggi credibili in un giallo che ha come epicentro narrativo un efferato omicidio. 

Questa discrepanza è evidenziata subito, già dai titoli di testa, con Un maledetto imbroglio scritto a caratteri cubitali sulle immagini di piazza Farnese a Roma, fontana in primo piano e bianco e nero della pellicola fortemente contrastato: fin qui tutto perfetto per ambientare un noir coi controfiocchi. Sennonché la musica e soprattutto l’uso del dialetto nel testo della canzone che accompagna i credits iniziali, Sennò mi moro (di Carlo Rustichelli e Pietro Germi, interpretata da Alida Chelli), fanno pensare a qualunque cosa tranne che ad un poliziesco all’americana. Ingravallo prova a portare avanti l’indagine come un commissario che si rispetti di un poliziesco di Hollywood, con lo stesso piglio deciso e risoluto con cui Germi aveva fino allora affrontato col suo cinema la società italiana. Ma si deve arrendere: qui non ci sono intrighi o complesse vicende da risolvere. 


Banali storie di corna, viziosità diffuse, meschinità, personcine miserabili che si tradiscono una con l’altra: quasi impossibile cavarci niente di serio. E in quel quasi, c’è forse la buona fede dell’autore di turno: in Italia, finché il regista ci si illude, forse si può anche fare un cinema di genere serio, ma quando si renderà conto della sciatteria diffusa, non sarà più credibile. E così, dopo In nome della legge o Il brigante di Tacca del Lupo, dove Germi manteneva un’attinenza seria al genere avventuroso, in Un maledetto imbroglio, è già costretto a virare sulla commedia se non ancora nella farsa grottesca. Ma si potrebbe fare altrimenti, se uno dei motori dell’intrigo giallo è un personaggio come Valdarena, interpretato dal vitellone Franco Fabrizi? 

Per non dire dell’ambientazione principale, tipica della commedia dell’arte, con l’attempato e rispettabile marito (Claudio Gora) che si invaghisce della giovanissima domestica (Cristina Gaioni) che la bella moglie (Eleonora Rossi Drago) incautamente si porta in casa. O del bizzarro Anzaloni, preoccupato dell’apparenza più che della sostanza, anche quando quest’ultima è costituita dalla merce rubata in casa sua. Ma se Germi tratta con malcelato fastidio questa società, che nel 1959, a Roma, si prepara a essere immortalata nella dolce vita felliniana, un trattamento diverso lo riserva a quella protagonista del neorealismo. Che però è rappresentata dalla sola Assuntina (Claudia Cardinale), perché il suo bellimbusto Diomede (Nino Castelnuovo) pur provenendo dallo stesso strato sociale, ha già adottato i sistemi di quella borghesia che già se la spassa sulle sponde del Tevere. 

Mentre la poveretta fa i mestieri presso le facoltose famiglie, Diomede arrotonda prestando i suoi servizi alle turiste americane. Curiosamente, la colpa più importante, in un film che almeno formalmente rimane un giallo imbastito su un omicidio, è proprio del ragazzo, ovvero di colui che tradisce la propria natura neorealista, per inseguire il modello di vita della classe agiata. Al commissario Germi non  resta che arrestare Diomede, mettendo sostanzialmente fine al neorealismo ma arrendendosi, di fatto, alla dolce vita borghese, da raccontare, d’ora in poi, col tono sarcastico della commedia satirica. Alla povera Assuntina, l’ultimo omaggio: la chiusura, nella rincorsa disperata, la vede nei panni della Magnani di Roma città aperta, capolavoro di Rossellini. Il neorealismo è finito, ma senza che sia cambiato poi molto. 






Claudia Cardinale



Cristina Gaioni


Eleonora Rossi Drago

              

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