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martedì 14 aprile 2020

RIFLESSI SULLA PELLE

551_RIFLESSI SULLA PELLE (The Reflecting Skin); Regno Unito 1990. Regia di Philip Ripley.

Spiazzante opera prima del polivalente artista inglese Philip Ridley, Riflessi sulla pelle è un dramma che ha la potenza visiva e, soprattutto, la penetrante angoscia di un sontuoso horror. Ridley è un autore che, nella sua variegata produzione artistica, spesso si rivolge ai ragazzi e anche Riflessi sulla pelle è in genere inteso come una sorta di percorso di iniziazione per il giovanissimo protagonista, Seth Dove (Jeremy Cooper). In effetti il film è impostato sul punto di vista del ragazzino di nove anni e, in un certo senso, asseconda anche le aberrazioni della realtà che il piccolo percepisce, dalle quali Ridley attinge per caricare di tensione le sue immagini. Sarebbe però riduttivo pensare che Riflessi sulla pelle racconti di come il suo giovane protagonista impari a distinguere il bene dal male e si renda conto solo nel finale, splendido e terribile, dei suoi errori. Quello della difficoltà di lasciare l’infanzia ed entrare nel mondo degli adulti, con le sue sfumature e complessità, è certamente un tema ma Ridley lo affianca ad uno più complessivo in un parallelo che offre molte sponde. Innanzitutto quella legata al titolo dell’opera: i Riflessi sulla pelle sono, infatti, quelli della rana gigante che viene fatta scoppiare nel traumatizzante incipit ma anche quelli della foto del bambino giapponese esposto alle radiazioni che Cameron (Viggo Mortesen) mostra al fratellino. La crudeltà dei tre bambini che aprono il racconto, l’estrema crudeltà si potrebbe dire, si trova quindi aumentata esponenzialmente nel comportamento degli adulti durante la guerra. L’idea che l’infanzia possa essere in qualche modo definita come età dell’innocenza è abbastanza remota da considerare, vedendo le gesta di Seth e dei suoi due amici, eppure il tema del paradiso perduto è proposto nel racconto in modo anche esplicito. 

La madre di Seth, Ruth (Sheila Moore) è solita chiamare ‘Isole del paradiso’ quell’arcipelago dove il figlio maggiore Cameron è di stanza sotto le armi. Quelle isole che l’uomo confesserà, una volta tornato a casa, che i test nucleari stanno distruggendo. E la stessa ambientazione del film, le immense distese di grano, che Ridley utilizza in modo molto evocativo insieme allo sconfinato cielo, pullulano di rottami arrugginiti: anche quello è un paradiso terrestre distrutto nel suo essere trasformato in discarica. Del resto molti dei personaggi della storia hanno nomi biblici e Joshua (David Longworth) si comporta come un dissennato profeta. 

Ci sono quindi le difficoltà a comprendere la complessità della vita e del mondo degli adulti, che sono alla base di ogni racconto di formazione, ma quello che si presenta a Seth è un luogo ostile e infido che ha volutamente rovesciato i cardini della morale. Salta agli occhi come i quattro giovanotti  viaggino indisturbati sull’elegante Cadillac Fleetwood 60 Special seminando morte mentre lo sceriffo e i suoi aiutanti si accaniscano contro il povero Luke (Duncan Fraser), padre di Seth, unicamente reo di aver avuto qualche scappatella omosessuale e di una certa debolezza d’animo. E questo è l’elemento realistico legato alla vicenda gialla della storia, che parla di tre delitti, due ragazzini e una donna, ma il film è costellato da riferimenti simbolici. 

Fuoco e acqua sono elementi contrapposti e lo si evidenzia anche nella scena in cui la madre ordina a Seth di spegnere la lampada ad olio perché è già tardi e, per punizione, lo costringe a bersi un’intera caraffa piena d’acqua. L’acqua, simbolo di vita, diviene così, nel distorto mondo orchestrato da Ridley, strumento di punizione; e sarà nell’acqua del serbatoio della casa di Seth il luogo in cui verrà trovato il corpo del piccolo Eben, il primo degli assassinati della storia. Non è quindi soltanto il piccolo protagonista a faticare nel comprendere il mondo dei grandi quanto questo a confondere il significato delle cose: qui l’acqua è diventata veicolo di morte. 

E’ forse il solo Luke, l’uomo gentile che legge storie di vampiri, a cercare nell’acqua il valore salvifico, forse per purificarsi l’organismo dalla benzina che ormai lo permea tanto da farlo persino puzzare. Il tema dell’odore ritorna in più di un’occasione nel  racconto (almeno tre, numero di volte forse non casuale), un aspetto inconsueto in un film, in quanto l’olfatto è un senso che il cinema non può stimolare. Eppure Ridley insiste su questo tasto: c’è l’odore di benzina (una moderna versione dello zolfo?), il profumo dell’acqua di colonia del marito defunto di Dolphin (l’odore della morte?) e la puzza più misteriosa, quella che permette di localizzare l’angelo, definita da Seth di pesce (che ci sia di mezzo anche il mare, simbolo di vita, anch’esso deteriorato?) Tornando a Luke, è certamente un personaggio ritratto con una certa benevolenza, eppure anche il suo comportamento, nel momento cruciale, può essere fonte di equivoci: si dà alle fiamme finendo arso vivo, confermando così temporaneamente gli infondati sospetti circa la sua colpevolezza, nel momento in cui il fuoco è erroneamente inteso come elemento purificatore. Ma, evidentemente, così come l’acqua, anche il fuoco ha perso ogni sua valenza positiva; e infatti Luke non è un colpevole in cerca di espiazione. 


In ogni caso, sono quindi gli adulti, con le loro scelte, a contribuire fortemente agli errori di valutazione che portano Seth così lontano dalla via maestra: il padre che non lo assiste nella lettura del racconto dei vampiri consente una serie di fraintendimenti che trovano però conferme di natura assai più grave. Seth si è infatti convinto che Dolphin (Lindsay Duncan) sia una vampira, sulla base di alcune coincidenze, ma a confermare questa sua assurda e sbagliata idea occorrono elementi la cui natura è grave e concreta. Preoccupato che il fratello si sia invaghito della donna, trova nel dimagrimento di Cameron, nei suoi capelli trovati nel pettine o nel sanguinamento delle gengive, le prove che la vampira ne stia prosciugando l’essenza vitale. 


Nel frattempo, tra l’altro, la donna, prima vedova inconsolabile, ora ha trovato una nuova ragione di vita nel rapporto con Cameron e questo si riflette naturalmente nel suo aspetto che sembra rifiorire. Se per il rinvigorimento di Dolphin la ragione è ovvia, per il simultaneo deperimento di Cameron giova ricordare gli esperimenti atomici a cui l’uomo ha assistito, spesso toccando con mano le polveri che cadevano dopo le esplosioni. A complicare, quindi, la possibilità di cogliere gli aspetti della vita adulta, per un bambino già particolarmente difficili (si pensi alla scena in cui Dolphin è seduta in preda a ricordi assai vividi per il marito morto), ci si mettono anche le scelte scellerate dell’umanità, come appunto l’incosciente utilizzo dell’energia atomica. Simbolicamente gli elementi in gioco, o parte di essi, Ridley ce li fornisce nella scena delle tre fotografie che Cameron tiene nel portafoglio e che mostra a Seth. In una c’è il bambino giapponese con la pelle resa argentea dalle radiazioni, in un'altra c’è una pin-up bionda e nella terza ci sono i due fratelli in questione. Il pericolo, per i fratelli Dove, sono le radiazioni; Cameron sta probabilmente morendo, ma Seth è distratto dalla donna bionda e, non comprendendo ancora la natura dell’attrazione sessuale (che è il principale scoglio verso la via adulta), finisce per vedere proprio in lei il pericolo. Il numero tre, quello delle foto, tra l’altro, è una costante che accompagna tutta la narrazione: tre sono i ragazzini e tre gli atti di crudeltà che commettono nella prima scena, l’uccisione della rana, il crudele scherzo ai danni di Dalphin e il bullismo nei confronti del più debole tra loro, Eben. 

E di tre persone è composto il nucleo famigliare principale che vediamo sullo schermo, Seth e i due genitori; un numero che rimane inalterato pur nelle vicissitudini della trama. Alla morte del padre torna il fratello e quando acquista importanza la figura di Dolphin, che va a comporre il triangolo con Cameron e Seth, la madre si defila divenendo sempre più taciturna. Tre sono gli scoppi (la rana, il passerotto del racconto di Dalphin e il padre di Seth) e tre sono naturalmente anche gli omicidi, in un costante e ripetuto gioco delle tre carte dove, anche spostando e rispostando gli elementi, non si riesce mai a venire a capo della soluzione. E certo non ci riesce Seth che, deliberatamente, decide prima di tacere e poi, in un certo senso, quasi agevola il tragico scorrere degli avvenimenti con una perfidia che appare davvero demoniaca. Del resto è lui il custode dell’angelo caduto e la disperata madre del secondo bambino trovato morto lo accusa apertamente. E, ad un certo punto, nello sguardo inquietante del ragazzino può persino venire anche a noi il dubbio di vederci quello di Satana; in fondo, il suo nome ne sembra anche il diminutivo. E non sarebbe nemmeno strano, visto il realistico inferno in cui è capitato. Il mondo del dopoguerra. Il nostro.


Lindsay Duncan



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