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mercoledì 22 aprile 2020

I FRATELLI KARAMAZOV

556_I FRATELLI KARAMAZOV ; Italia 1969. Regia di Sandro Bolchi.

Spesso, nelle trasposizioni audiovisive di romanzi, si dice che il risultato non sia degno dell’originale su carta. Il che è anche pacifico, essendo un romanzo, in linea generale, concepito per essere un testo scritto e, quindi, che vada a sfruttare le peculiarità della letteratura, una per tutte la tempista di fruizione. La Rai, nel periodo tra gli anni 50 e 70, trovò una formula soddisfacente, quella degli sceneggiati, sfornando una serie di capolavori. Uno degli autori i cui romanzi furono prediletti come soggetti a cui attingere, fu il geniale scrittore russo Fëdor Dostoevskij. Nel 1969 fu la volta di I fratelli Karamazov sotto la regia dell’affidabile Sandro Bolchi, per un’opera che si presentò con i crismi del colossal televisivo. Il cast schierato era impressionante per numero e qualità degli interpreti, la maggior parte dei quali di solida formazione teatrale. Gli sceneggiati Rai dell’epoca, per limiti tecnici e economici, non consentivano, infatti, di emulare le raffinatezze tipiche del cinema. In particolare il taglio al montaggio, soprattutto per quel che concerneva le riprese d’interni, era un processo delicato per via del supporto magnetico e veniva limitato al minimo indispensabile. In pratica si otteneva una serie di piani-sequenza in cui, ad animare la scena e a dargli ritmo, serviva l’attitudine teatrale degli attori sullo schermo. Anche per via della grana dell’immagine, si trattava di una registrazione, che conferiva alle immagini una sfumatura quasi onirica, il risultato era praticamente ipnotico. L’origine nobile dei testi, nel caso de I fratelli Karamazov l’autore, come noto, era il maestro Dostoevskij, era garanzia non solo sulla qualità generale dell’opera, ma anche nello specifico dei personaggi e dei loro rapporti, che sullo schermo davano luogo a lunghe scene zeppe di dialoghi che ammaliavano lo spettatore irretendolo in modo ineludibile. 

L’autore russo aveva la sublime capacità di cogliere l’animo umano nel profondo e questo gli permetteva, in seguito, tutta una gamma di esagerazioni comportamentali possibili, senza che venisse mai meno la credibilità dei suoi personaggi. E’ anche per questa sua caratteristica che le rappresentazioni degli sceneggiati Rai dei suoi scritti furono tanto fortunate: gli interpreti di alto rango ingaggiati interpretavano al meglio sia la natura umana dostoevskijana e, con la loro enfasi teatrale, assecondavano anche le esternazioni estreme che i ruoli richiedevano. Ne I fratelli Karamazov spicca su tutte quella di Umberto Orsini per Ivàn Karamazov: la sua allucinata interpretazione, in particolar modo nel finale, ci lascia nel totale sgomento. Ivàn incarna, semplificando (ma rifacendoci al trattamento televisivo), la componente razionale di Dostoevskij, laddove Dmitrij (nello sceneggiato Corrado Pani) è l’individuo con le sue passioni umane e Aleksèj (Carlo Simoni) ne è la vena spirituale: ma com’è quindi possibile che la follia e l’isteria che esplodono nel finale siano connesse proprio al paladino della ragione, che avrebbe prevedibilmente dovuto invece negarle? Qui sta la grandezza dell’autore russo, in queste apparenti contraddizioni che sono, al contrario, il risultato dell’estrema capacità di cogliere il vero nocciolo della natura umana, andando fino al profondo senza curarsi degli aspetti secondari e marginali. 


Nelle suggestive immagini dello sceneggiato Rai facciamo quindi questo viaggio quasi psichedelico, ma di una psichedelica lenta, avvolgente, suadente, ed inesorabile. Il rapporto tra i tre fratelli, le passionalità di Dmitrij, l’acume di Ivàn, la serafica serenità di Aleksèj, in particolar modo in relazione con il padre Fëdor (Salvo Randone, magistrale), un uomo losco e intrallazzatore, sono l’architettura portante del racconto. Poi c’è Smerdjakov (Antonio Salines), il Karamazov illegittimo, sorta di anima oscura di freudiana natura, che cerca in tutti i modi di insinuarsi a livello degli altri e, come accennato, trova sorprendentemente la sponda proprio nel più razionale dei tre. Non mancano, e come potrebbe in Dostoevskij, le figure femminili, tra cui la principale è Grušenka (una splendida Lea Massari). 

E’ la donna dostoevskijana per eccellenza, che rigurgita voglia di vivere da ogni poro della pelle e che, nelle sue derive più lussuriose, può anche destare qualche perplessità; ma va detto che il suo atteggiamento è legato anche al ruolo in cui, nella società del tempo, era relegata la donna (sebbene non così diverso da quello attuale). Nel corso della storia emergeranno, infatti, sue qualità umane insospettabili, perlomeno dopo il primo approccio. Un po’ lo stesso percorso dell’altra donna della vicenda, Katerina (Carla Gravina), lei certamente più conforme alla norma ma non meno discutibile in molte sue scelte. Nel finale avrà comunque modo di ravvedersi. C’è una sincera ammirazione, anche per le componenti più vitali, diciamo così, della figura femminile, tipiche di Dostoevskij e che, con merito, la Rai del canale nazionale, per uno sceneggiato rivolto quindi alla totalità del pubblico televisivo, non andò a moderare o, peggio, censurare. Dal punto di vista narrativo la storia è un crescendo che culmina con il processo, e la suspense per il verdetto va ad alimentare la tensione narrativa completando, anche sotto questo aspetto, l’opera, che si può così ben fregiare del titolo di capolavoro. 




DOSTOEVSKIJ TRA LETTERATURA E TELEVISIONE: I FRATELLI KARAMAZOV 


a cura di Antonio Gatti





Quando il romanzo comincia a uscire, a puntate, sulle pagine del Messaggero Russo, era il 1879: Dostoevskij entrava nella fase finale della sua vita. Erano ormai lontani gli anni in cui il grande autore viveva vagabondando per la Russia e per l’Europa, obbligato dalle ristrettezze economiche a scrivere pagine su pagine, pubblicate coi mezzi e sulle riviste più disparate. L’enorme successo dei capolavori Delitto e Castigo, L’Idiota e I demoni, gli permetteva ora di vivere agiatamente a San Pietroburgo e dintorni. I trionfi letterari gli avevano conferito quella fama che sfocerà nel 1880 nel tripudio della folla in occasione del suo discorso in onore di Puskin. L’autorità morale della quale godeva in quel periodo lo rese un punto di riferimento per una larga fetta del pubblico letterario russo e non solo per questioni puramente letterarie, ma anche morali, politiche, religiose: come disse il suo grande biografo Joseph Frank, in quel periodo Dostoevskij vestì il manto del profeta. Ma proprio durante questi anni, accanto al riconoscimento della sua grandezza da parte dei lettori dentro e fuori la Russia, Dostoevskij dovette affrontare anche la prospettiva del tramonto della sua vita, quando gli venne diagnosticato un enfisema polmonare. Questi elementi -il raggiunto benessere materiale, l’autorità morale della quale godeva, e l’avvicinarsi della morte- concorsero probabilmente tutti a convincere Dostoevskij a tirare un po’ le somme di tutti i grandi temi sviluppati nei romanzi precedenti in un’ultima grande opera, che avrebbe costituito in qualche modo l’ultima parola al mondo del profeta, dello scrittore, dell’uomo. I Karamazov appunto. Sfondo del romanzo, e spina dorsale di esso, è un tema che Dostoevskij aveva già messo in campo più volte, specie ne L’Idiota e ne I Demoni: cosa accade all’uomo quando tronca le sue radici, quando strappa i legami con la sua famiglia, con la sua patria, con la sua cultura. Con il suo Dio. 


E’ libertà quella che consegue? O un destino ancora peggiore della schiavitù?
Questa volta Dostoevskij affronta il tema in maniera diretta, violenta: il rinnegamento delle proprie origini avviene nella maniera più drastica possibile, col parricidio. Un tema per l’epoca forte, basti pensare all’entusiasmo col quale un altro spregiudicato indagatore delle dinamiche psicologiche interne all’uomo e al suo ambiente familiare, Freud, commentò il romanzo. I protagonisti sono i Karamazov; una famiglia attraverso la quale Dostoevskij vuole rappresentare le pulsioni e le aspirazioni interne di ciascun uomo, così forti eppur così contradditorie. Chi di noi non è mai stato l’impulsivo Dimitrij, mai in grado di calcolare le conseguenze delle sue azioni, pronto solo a vivere il qui e ora nella maniera più totale possibile, sia nel bene che nel male? Chi di noi non è mai stato, nello stesso tempo, l’ombroso Ivan, pronto a mettere tutto in discussione con la sua logica, la quale sembra concludere che, in fondo, non ci sia nulla per cui valga la pena combattere davvero, e che questa stessa conclusione sia un privilegio per pochi eletti “uomini superiori” (ricordiamo che pochissimi anni dopo la pubblicazione dei Karamazov, Friedrich Nietzsche, un altro grande estimatore di Dostoevskij, presenterà al mondo lo Zarathustra, col suo concetto di “superuomo nichilista”)? Ma anche, chi di noi non è mai stati stato un Aleksej (Alëša), che nonostante tutto il male e lo schifo che vede svolgersi sotto i suoi occhi, vuole continuare a credere che il bene trionferà comunque, alla fine? E, infine, chi di noi non è stato anche Smerdjakov, con il suo risentimento, col suo bisogno di riversare la responsabilità del proprio astio, delle proprie azioni, su un capo? Questi non sono solo personaggi, ma sono i contraddittori, conflittuali aspetti della natura umana, che cercano eternamente di parlarsi dentro di noi, anelando l’uno di essere “superiore all’altro”, ma fallendo sistematicamente in entrambi gli scopi. 


Nel romanzo vediamo questo eterno moto nel tentativo dei fratelli Karamazov di interagire fra di loro, di stringere amicizia, alleanza, senza però mai riuscirci e fallendo nel prevenire la catastrofe che incombe sull’intera famiglia. Questo aspetto è colto molto bene anche dallo sceneggiato: Bolchi e gli attori riescono efficacemente a far intuire allo spettatore questo anelito dei Karamazov alla fratellanza, all’unione spirituale, anelito frustrato ogni volta a causa della superiorità morale che ognuno di essi, persino l’innocente Alëša, pretende di avere sull’altro. In questo è veramente bravo specialmente Umberto Orsini, Ivan nello sceneggiato, che riesce a trasmettere tutto il suo dolore nel non essere riuscito a far breccia nel cuore profondo di Alëša. Il conflitto interiore dell’uomo, simboleggiato dai Karamazov, cerca di superare sé stesso aspirando a una libertà totale, nella quale “tutto è consentito”, anela a un universo quindi dove ogni scelta sia legittima in quanto, fondamentalmente, non si deve rendere conto a nessuno, nemmeno a sé stessi. Per ottenere questa libertà è necessario, però, troncare prima tutti i legami col proprio passato, con le radici: è necessario il parricidio per unire i Karamazov. Possiamo notare come se Smerdjakov è l’autore materiale del delitto, e Ivan si attribuisce la responsabilità morale, Dimitrij ne è in un certo senso l’istigatore, in quanto dà origine alla controversia familiare, e Alëša non riesce a impedirlo. Tutti i Karamazov sono coinvolti, in misura diversa, nel parricidio. Tutte le pulsioni umane più profonde anelano al regno del “tutto è concesso”, della libertà morale e etica assoluta. Ce lo grida in faccia Ivan quando chiede a tutti, noi compresi, “chi non desidera la morte del proprio padre?”


Non è un lavoro facile, per il regista Sandro Bolchi, questo sceneggiato. Molti monologhi, lunghi, appassionati. Personaggi molto sopra le righe. Il risultato è però eccellente. C’è un sacrificio per me, come vedremo, doloroso di un aspetto del romanzo, ma per tutti gli altri aspetti lo sceneggiato legge veramente nel cuore del libro. Gli attori sono bravissimi, impressionante il già citato Umberto Orsini, magistrale il suo monologo sul Grande Inquisitore. Ma anche Corrado Pani rende al meglio il sanguigno Dimitrij, forse la figura più spontanea del romanzo, Antonio Salines entra nei panni di Smerdjakov con tutto il suo allucinato, rancoroso comportamento, e Salvo Randone interpreta in maniera perfetta il padre Fedor, un padre che noi vediamo solo attraverso gli occhi dei figli, come ridicolo, oppressivo, fastidioso, sorpassato. Qualcosa che impedisce la “libertà” insomma, che persino entra in competizione, qualcosa di cui ci si deve liberare. Ma, quindi, è proprio così? Per ottenere il tanto anelato “tutto è concesso” è necessario passare per il parricidio? Per la negazione delle proprie radici? Se seguiamo il filo del romanzo, il parricidio non porta alla libertà, ma alla morte e alla follia. Smerdjakov si impiccherà (morendo quindi coi piedi separati dalla terra russa, che egli ha rinnegato); Ivan alla fine in un folle monologo si attribuirà la responsabilità morale del delitto. No, la soluzione non è il “tutto è concesso”; questo è al contrario un peso insopportabile per l’uomo; se tutto è concesso nulla allora vale la pena; gli istinti non sono liberati, ma al contrario affondano nell’indifferenza o nella follia.


Dostoevskij dà un’alternativa al parricidio; una soluzione che ne è precisamente il contrario. Essa si trova indicata in molti luoghi del romanzo, ma con più chiarezza nella vita dello starec Zosima, purtroppo solo accennata nello sceneggiato. Questa alternativa al parricidio è l’accettazione delle contraddizioni e dei peccati, non solo propri ma di tutti. E’ la difficilissima palestra dell’amore, che Dostoevskij identificava specialmente nel cristianesimo ortodosso, amore per tutto il creato, specie per i peccatori, amore anche – e qua è la parte più difficile- per sé stessi nella serena accettazione delle proprie origini, delle proprie pulsioni, della propria individualità. Solo così si potrà accedere a quella vera libertà che consiste nella visione della consistenza divina del Creato, come dice un illuminante colloquio contenuto nel capito dedicato alla vita del padre Zosima: «È vero ‑gli risposi ‑ tutto è bello e buono, perché tutto è verità. Guarda il cavallo, questo nobile animale che vive accanto all'uomo, o il bove, triste e austero, che gli dà il nutrimento e lavora per lui, guarda i loro musi: quanta mansuetudine, quanto attaccamento all'uomo, che spesso li picchia senza pietà, quanta bontà e quanta fiducia, e quanta bellezza nei loro musi! E poi, è commovente pensare che loro non hanno nessun peccato, perché tutto al mondo è perfetto, tutto è innocente, meno l'uomo, e Cristo è con loro prima che con noi». «Ma è possibile ‑ mi chiese il giovane ‑ che Cristo sia anche con loro?». «E come potrebbe essere diversamente? ‑ gli risposi. ‑ Il Verbo è per tutti; ogni creatura, ogni essere, ogni fogliolina tende verso il Verbo, inneggia a Dio e piange le sue lacrime al Cristo, e lo fa senza saperlo, con il mistero della sua esistenza innocente.

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