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lunedì 6 aprile 2020

I GIOIELLI DI MADAME DE...

547_I GIOIELLI DI MADAME DE... (Madame de...); Francia, Italia, 1953. Regia di Max Ophüls.


“Solo superficialmente si può dire che è superficiale.” Queste parole, dette dal generale André (Charles Boyer) si riferiscono al rapporto tra lui e la moglie, l’incantevole Madame citata del titolo, la Contessa Louise (Danielle Darrieux, assolutamente perfetta) di un casato che non verrà mai nominato per tutta la durata del film di Max Ophuls. I gioielli di Madame de…, così come il titolo originale Madame de… e tantissimi spunti sparsi per il film, sottolineano che della protagonista della storia non sapremo mai il cognome. La fronda del titolo nobiliare ad ornare il nome proprio, ma della radice, il nome di famiglia, non v’è traccia. Ma la frase del generale Andrè potrebbe essere presa a titolo per l’intero cinema di Max Ophuls, l’enchanteur, che dietro l’incanto delle sue immagini di sublime e raffinata bellezza nascondeva si un vuoto, ma più che rivelare la superficialità del suo sguardo (superficiale solo superficialmente, appunto) metteva un disagio degno di un raffinato horror d’alta scuola. In genere, a proposito di Ophuls, si fa riferimento alla sua sublime capacità formale: tutto il suo lavoro con la macchina da presa, il suo seguire i personaggi con insistiti piani-sequenza, veri o simulati che siano, il suo zizagare, i volteggi, le panoramiche. La sua messa in scena è avvolgente e finisce per suggestionare lo spettatore; del resto l’han chiamato l’incantatore mica per nulla. 


Ma qui occorre stare attenti, perché il punto focale non è così scontato, la cura formale è importante ma non nel modo in cui si è soliti intenderla benché non sia nemmeno una falsa traccia: è lì che c’è il cuore del problema, nella superficialità del nostro mondo, ma non lo è nella maniera superficiale in cui troppo spesso la si liquida. Da buon prestigiatore, il regista tedesco distoglie si la nostra attenzione con la sua inebriante mise en scéne ma quello che cerca di celare ai nostri occhi è proprio quello che ci ostenta d’innanzi. Bastano un paio di dettagli, in effetti devil is in the details in Ophuls come in pochi altri casi, per cogliere questo aspetto: mentre Louise cerca qualcosa da vendere nel suo lussuoso guardaroba stracolmo di abiti ed accessori eleganti, per racimolare qualche spicciolo, le cade un sobrio volumetto nero con una bella croce in copertina, davvero fuori posto insieme alle voluminose pellicce. 

E’ un libretto di devozioni e, nella caduta, finisce incorniciato tra le scarpine col tacco della contessa: il sacro ai piedi del profano, letteralmente. Che dire poi, dei gioielli, che sono il vero e proprio deux ex machina che mette in moto un meccanismo narrativo ben congeniato ma che si può tranquillamente trascurare perché, pur se svolto in modo mirabilmente tanto perfetto quanto improbabile, è del tutto secondario alla questione principale. Gli orecchini, perché di questo si tratta, sono a forma di cuore: un oggetto tanto superficiale, stanno appesi alle orecchie, ovvero sono, in sostanza, appendici di altre appendici, hanno però nella loro forma l’indizio che ci dice che è proprio lì il cuore del discorso. E qui si potrebbe già percepire un certo disagio, ma a patto di essere tipi svegli e di non essersi lasciati eccessivamente trasportare dal clima apparentemente leggero dell’opera; ma avremmo colpevolmente trascurato quei dettagli, come una semplice sosta in una chiesa per una preghiera davvero inopportuna, con l’ulteriore orpello fuori luogo del fedele inginocchiato in prima panca che si volta per ammirare il passare dell’elegante e seducente figura di Madame manco fossimo in un bar di periferia. E’ un disagio sottile, strano, a cui bisogna far mente locale, perché da buon incantatore, Ophuls, col suo I gioielli di Madame de… è certamente riuscito nel suo incantesimo. 


Così, se pur in avvio avevamo forse sorriso della sciocca svagatezza della deliziosa Contessa Louise, alla fine della storia siamo finiti anche noi in quel limbo sognante in cui la gran dama confinava i suoi tanti spasimanti. Crudeltà della speranza: così viene argutamente definita e se noi, spettatori, non possiamo che nutrire l’illusione cinematografica di quella speranza, per gli uomini tenuti abilmente in sospeso da Louise le speranze non sono poi maggiori. Il gioco è mantenere tutto in perfetto equilibrio, mai concedersi concretamente, ma volteggiare leggiadre come quando si danza ad un ricevimento del gran mondo della Bella Epoque. E’ come nel ballo più lungo e significativo del film, quello tra Louise e il più intraprendente dei suoi amanti, il barone Donati (un De Sica in gran spolvero). Ipnotizzati dall’eleganza formale di Ophuls, quasi non ci si accorge che, durante il valzer, le immagini cambiano come cambiano i vestiti e quindi le occasioni di ballo tra i due personaggi, mentre i dialoghi tra loro si fanno via via più stringati e la danza sempre più frenetica a simboleggiare il crescendo di quella vera passione fino allora del tutta avulsa dalle loro vite. 


Non è un piano-sequenza unico, ma piuttosto una serie in cui i segmenti sono armonizzati tra loro in modo da racchiudere il succedersi degli incontri e la derivante escalation emotiva e sentimentale della storia d’amore tra i due, condensando in un unico valzer i diversi episodi mondani. E, alle loro spalle, la sala progressivamente si svuota: è un passaggio cruciale, ora sono al centro di un vuoto ma non sono più loro stessi il vuoto. Ma di questo non è facile rendersene subito conto: siamo ancora rimasti, noi spettatori, troppo incantati dal fascino leggiadro della contessa. E’ davvero una dama di gran classe. Certo, è anche una donna frivola, amoreggia, ma solo in punta di fioretto, con tanti uomini, sebbene sia sposata col generale Andrè; vero è che anche l’uomo ha un’amante, e forse più di una. Comunque il comportamento della donna è sempre sconveniente: in avvio pensa bene di vendere i suoi orecchini, i gioielli a cui da riferimento il titolo italiano, che il marito le aveva fatto come dono di nozze, nientemeno. Le serve del denaro da sperperare per fare la bella vita oltre a quella che le concede il pur facoltoso consorte. 


Non è un bell’inizio; e nemmeno nel passaggio in chiesa citato, quando si ferma a chiedere un’intercessione alla piccola santa affinché favorisca la vendita degli orecchini al negozio di gioielleria, ci fa una gran figura. Per non parlare delle reiterate bugie, distribuite a destra e a manca, o gli svenimenti simulati. Eppure, quando nel finale, il generale metterà la parola fine nel duello con un colpo di pistola che spaccerà il Donati, e di riflesso anche Louise, quel riflesso arriverà fino a noi, lasciandoci un velo di tristezza. Certo, la donna era cambiata, ora non era più l’aristocratica dama futile di prima, ora amava davvero il barone. Ma, cosa ci lascia davvero tristi? E’ questa la magia dell’incantesimo terrificante di Ophuls. Ci si può fermare in superficie e pensare che sia un peccato, nell’ottica del film, che una donna bella e ora anche saggia come Louise muoia per amore. 

Che il generale si scopra insofferente dei tradimenti della moglie proprio quando questa ha smesso di tradirlo, e vada a far fuori il Donati solo per ferirla (mortalmente). Ma può far dispiacere, il dispiacere legato alla visione di un film, naturalmente, vedere una donna che si lascia morire per amore ma che, in ogni caso, aveva rinunciato ad ogni pretesa di felicità? La crescita di Louise, la sua maturazione, le impediva, a quel punto, di tradire il marito; col Barone era quindi finita in ogni caso. Certo, poteva vivere di ricordi, come quando ritorna per un attimo in possesso degli orecchini un’ultima volta, e risente la musica dei balli con l’ambasciatore italiano interpretato da De Sica. 

E il marito sadicamente la costringe a disfarsene subito, togliendole anche l’illusione legata a quel ricordo. Ma via, siamo sinceri. Non può essere questa la vita che lo spettatore rimpiange, nel suo dispiacersi per il tragico finale. E’ lì che vengono in mente le parole di Ophuls all’attrice Danielle Darrieux, e nel farlo, ci corre anche un brivido lungo la schiena.“Il vostro compito, cara Danielle, sarà duro. Voi dovrete, armata del vostro charme, della vostra bellezza, eleganza e intelligenza che tutti ammiriamo, incarnare il vuoto, l’inesistenza. Non riempire il vuoto, ma incarnarlo. Diverrete sullo schermo il simbolo stesso della futilità passeggera spogliata di interesse. E bisognerà farlo in modo tale che gli spettatori siano presi, sedotti e profondamente turbati dall’immagine che rappresentate. Senza questo paradosso avremo un filmetto da boulevard, cosa che non è nostra abitudine”.
Eccolo, dunque, l’incantesimo di Max Ophuls: portare allo scoperto la nostra metà superficiale, la nostra natura effimera che, al contrario di come la definiamo, non poniamo solo in superficie ma coviamo anche segretamente nel nostro intimo. Perché quello che ci turba, e deve farlo profondamente, è che quello che rimpiangiamo alla fine de I gioielli di Madame de… sono proprio quei comportamenti della Contessa che abbiamo apertamente condannato. Chissà, forse in uno dei tanti specchi in cui si riflette il film, potremmo aver visto riflesso anche il nostro volto.







Danielle Darrieux









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