366_SINDROME CINESE (The China Syndrome). Stati Uniti, 1979. Regia di James Bridges.
Il concetto di caso, come anche quello di fortuna/sfortuna è sempre
difficile da definire: qual è il confine tra una coincidenza e una conseguenza?
E si tratta di un dubbio che sembra simile a quello che si può porre tra fortuna e lungimiranza e, forzando anche un poco, tra bellezza e bravura,
sempre rimanendo tra quelli che si
possono ricondurre al film Sindrome
cinese di James Bridges. Perché il bel lungometraggio del 1979 fu benedetto, in un certo senso, da un
incidente nella centrale nucleare di Three
Miles Island, simile a quello descritto nel film, che occorse nella realtà
solo 12 giorni dopo l’uscita della pellicola nelle sale (!!). E questa
concomitanza avvenne proprio nel mezzo di una discussione pubblica sui rischi
connessi all’attività nucleare, al tempo davvero accesa e alla base dell’idea
del film stesso di Bridges. Quello che poteva passare per un semplice film di
genere catastrofico, diveniva
all’improvviso una sorta di documentario che rispondeva ai terribili dubbi che
istantaneamente si diffusero anche negli strati della popolazione meno
interessata a simili dibattiti. La pericolosità delle centrali nucleari
diventava così il tema del momento, e Sindrome
cinese era il film perfetto per orientare l’opinione pubblica, oltre che
per illustrare in modo esaustivo, almeno a grandi linee, il funzionamento di
una centrale termonucleare. E qui siamo al discorso delle coincidenze: certo,
la simultaneità degli eventi aveva giocato a favore del film, ma le scelte
prettamente cinematografiche erano farina del sacco degli autori. E anche la
scelta di un tema simile (lo sfruttamento dell’energia atomica) era stato
sagace, perché è legittimo il sospetto che fosse solo il contesto al reale messaggio del film.
Il punto centrale
del discorso sembra infatti piuttosto essere l’importanza della stampa, la cui
proverbiale (almeno sulla carta) deontologia finisce per contagiare anche un
ingegnere, lo strepitoso Jack Lemmon nei panni di Jack Godell, direttore della
sala operativa della centrale di Ventana. Un ingegnere, e quindi una sorta di sacerdote della scienza tecnica, che in
un certo senso rinnega la propria disciplina (‘la centrale è tutta la mia vita’) anche per amore di verità e
giustizia, oltre che, principalmente, di rispetto per la salute collettiva. Naturalmente
la sua conversione non sarà vista di
buon occhio, (per usare un eufemismo) dai proprietari della centrale nucleare;
il suo assassinio brutale, come anche le scene dei misteriosi inseguimenti e
tamponamenti, sono i passaggi più deboli del film. Va bene che nel sistema capitalistico la difesa degli
interessi economici è un dogma, ma
quelle scene appaiono esagerate, sebbene non è affatto detto che non possano
anche essere plausibili. La matrice ecologista della pellicola è comunque già
leggibile dal fatto che uno dei produttori dell’opera, nientemeno che Michael
Douglas, si ritaglia il ruolo di Richard Adams, cameraman televisivo ma
soprattutto attivista tipico dei seventies,
e per la giornalista protagonista della storia, Kimberly Wells, è chiamata Jane
Fonda.
Quindi coincidenza, ma anche conseguenza.
Come del resto
il film, è fortunato (per così dire),
per via del simultaneo incidente di Three
Miles Island, ma è lungimirante,
nel suo essere scarno (ad esempio, colpisce l’assenza di colonna sonora
musicale), e realizzato quasi come un vero reportage televisivo ma visto dietro le quinte, e quindi ancora più
realistico e attendibile. E in questo senso si incanala la presenza di Jane
Fonda, che bene incarna le istanze attiviste del tempo, e che nel film vede
replicare nel suo personaggio un po’ quella che è stata la sua carriera d’attrice:
alla rete televisiva ne intendono sfruttare soprattutto l’avvenenza, come
accadde nel cinema (per esempio, ricordate Barbarella?),
e faticano a concedere alla donna una possibilità più professionale.
Che però
l’indomita Kimberly, si conquisterà ugualmente, proseguendo idealmente il
parallelo con l’attrice che le presta anima e corpo. Il tema politicamente impegnato, si riverbera
quindi anche in quello delle pari
opportunità, troppo spesso negate alle donne, in genere (anche e
soprattutto nel cinema e nella televisione) relegate a ruoli di abbellimento
della scena. Del resto che si tratti un’opera metalinguistica è evidente dal numero di monitor, schermi, dalla
frammentazione dell’immagine cinematografica nei televisori della regia della
rete televisiva. Tante storie, tanti temi, che si intrecciano, si accavallano
ma, e qui sta la bravura di Bridges, non si ingarbugliano mai.
Il film fila
dritto e asciutto, sorretto dalle strepitose interpretazioni di Jane Fonda,
Michael Douglas e soprattutto Jack Lemmon; in particolar modo i suoi dialoghi
con Jane sono eccellenti, anche per la bravura dell’attrice a reggere la scena
con un simile mostro di recitazione, simulando in modo convincente le incertezze del
suo personaggio. Curiosità finale: la sindrome
cinese del titolo fa riferimento alla teoria, ipotetica e forse anche
esagerata, secondo la quale in seguito ad una fusione, il conseguente scioglimento
del nocciolo di una centrale nucleare sarebbe inarrestabile arrivando
addirittura a perforare il pianeta da parte a parte, sbucando appunto, nel caso
di una centrale statunitense, in Cina. Verrebbe quasi da dire che il citato e improbabile Barbarella, come film, fosse più credibile; ma purtroppo la
pericolosità delle centrali nucleari, possibili trafori nel pianeta o meno, sconsiglia
di lasciarsi troppo andare a battute scherzose. E men che meno lo consigliano le quotidiane insidie alla
libertà di stampa: rischio meno catastrofico, ma anche più concreto.
Jame Fonda
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