Translate

martedì 18 giugno 2019

SINDROME CINESE

366_SINDROME CINESE (The China Syndrome)Stati Uniti, 1979Regia di James Bridges.

Il concetto di caso, come anche quello di fortuna/sfortuna è sempre difficile da definire: qual è il confine tra una coincidenza e una conseguenza? E si tratta di un dubbio che sembra simile a quello che si può porre tra fortuna e lungimiranza e, forzando anche un poco, tra bellezza e bravura, sempre  rimanendo tra quelli che si possono ricondurre al film Sindrome cinese di James Bridges. Perché il bel lungometraggio del 1979 fu benedetto, in un certo senso, da un incidente nella centrale nucleare di Three Miles Island, simile a quello descritto nel film, che occorse nella realtà solo 12 giorni dopo l’uscita della pellicola nelle sale (!!). E questa concomitanza avvenne proprio nel mezzo di una discussione pubblica sui rischi connessi all’attività nucleare, al tempo davvero accesa e alla base dell’idea del film stesso di Bridges. Quello che poteva passare per un semplice film di genere catastrofico, diveniva all’improvviso una sorta di documentario che rispondeva ai terribili dubbi che istantaneamente si diffusero anche negli strati della popolazione meno interessata a simili dibattiti. La pericolosità delle centrali nucleari diventava così il tema del momento, e Sindrome cinese era il film perfetto per orientare l’opinione pubblica, oltre che per illustrare in modo esaustivo, almeno a grandi linee, il funzionamento di una centrale termonucleare. E qui siamo al discorso delle coincidenze: certo, la simultaneità degli eventi aveva giocato a favore del film, ma le scelte prettamente cinematografiche erano farina del sacco degli autori. E anche la scelta di un tema simile (lo sfruttamento dell’energia atomica) era stato sagace, perché è legittimo il sospetto che fosse solo il contesto al reale messaggio del film.

Il punto centrale del discorso sembra infatti piuttosto essere l’importanza della stampa, la cui proverbiale (almeno sulla carta) deontologia finisce per contagiare anche un ingegnere, lo strepitoso Jack Lemmon nei panni di Jack Godell, direttore della sala operativa della centrale di Ventana. Un ingegnere, e quindi una sorta di sacerdote della scienza tecnica, che in un certo senso rinnega la propria disciplina (‘la centrale è tutta la mia vita’) anche per amore di verità e giustizia, oltre che, principalmente, di rispetto per la salute collettiva. Naturalmente la sua conversione non sarà vista di buon occhio, (per usare un eufemismo) dai proprietari della centrale nucleare; il suo assassinio brutale, come anche le scene dei misteriosi inseguimenti e tamponamenti, sono i passaggi più deboli del film. Va bene che nel sistema capitalistico la difesa degli interessi economici è un dogma, ma quelle scene appaiono esagerate, sebbene non è affatto detto che non possano anche essere plausibili. La matrice ecologista della pellicola è comunque già leggibile dal fatto che uno dei produttori dell’opera, nientemeno che Michael Douglas, si ritaglia il ruolo di Richard Adams, cameraman televisivo ma soprattutto attivista tipico dei seventies, e per la giornalista protagonista della storia, Kimberly Wells, è chiamata Jane Fonda. 


La Fonda era nota per le sue battaglie ambientaliste, ma era già anche, e soprattutto, una grandissima attrice oltre che una splendida donna, e il carico di elementi che si portava in dote induce altre riflessioni. Del tipo: se non fosse così bella, se non fosse così elegante mentre cammina, o se non inondasse lo schermo coi magnifici capelli rossi, Jane sarebbe lo stesso la star che è? Naturalmente è una domanda che non necessita di risposta; intanto la Fonda è una bellezza, oltre che una bravissima interprete, e quindi il problema concretamente, almeno nel suo specifico, non si pone. Però è uno degli interrogativi che si ricavano dal film, esattamente come gli altri dubbi citati: in fondo nella storia tutto nasce da un inconveniente casuale, che si innesta su alcune lacune in fase di realizzazione della centrale. 
Quindi coincidenza, ma anche conseguenza.

Come del resto il film, è fortunato (per così dire), per via del simultaneo incidente di Three Miles Island, ma è lungimirante, nel suo essere scarno (ad esempio, colpisce l’assenza di colonna sonora musicale), e realizzato quasi come un vero reportage televisivo ma visto dietro le quinte, e quindi ancora più realistico e attendibile. E in questo senso si incanala la presenza di Jane Fonda, che bene incarna le istanze attiviste del tempo, e che nel film vede replicare nel suo personaggio un po’ quella che è stata la sua carriera d’attrice: alla rete televisiva ne intendono sfruttare soprattutto l’avvenenza, come accadde nel cinema (per esempio, ricordate Barbarella?), e faticano a concedere alla donna una possibilità più professionale.

Che però l’indomita Kimberly, si conquisterà ugualmente, proseguendo idealmente il parallelo con l’attrice che le presta anima e corpo. Il tema politicamente impegnato, si riverbera quindi anche in quello delle pari opportunità, troppo spesso negate alle donne, in genere (anche e soprattutto nel cinema e nella televisione) relegate a ruoli di abbellimento della scena. Del resto che si tratti un’opera metalinguistica è evidente dal numero di monitor, schermi, dalla frammentazione dell’immagine cinematografica nei televisori della regia della rete televisiva. Tante storie, tanti temi, che si intrecciano, si accavallano ma, e qui sta la bravura di Bridges, non si ingarbugliano mai.

Il film fila dritto e asciutto, sorretto dalle strepitose interpretazioni di Jane Fonda, Michael Douglas e soprattutto Jack Lemmon; in particolar modo i suoi dialoghi con Jane sono eccellenti, anche per la bravura dell’attrice a reggere la scena con un simile mostro di recitazione, simulando in modo convincente le incertezze del suo personaggio. Curiosità finale: la sindrome cinese del titolo fa riferimento alla teoria, ipotetica e forse anche esagerata, secondo la quale in seguito ad una fusione, il conseguente scioglimento del nocciolo di una centrale nucleare sarebbe inarrestabile arrivando addirittura a perforare il pianeta da parte a parte, sbucando appunto, nel caso di una centrale statunitense, in Cina. Verrebbe quasi da dire che il citato e improbabile Barbarella, come film, fosse più credibile; ma purtroppo la pericolosità delle centrali nucleari, possibili trafori nel pianeta o meno, sconsiglia di lasciarsi troppo andare a battute scherzose. E men che meno lo consigliano le quotidiane insidie alla libertà di stampa: rischio meno catastrofico, ma anche più concreto.  


Jame Fonda










Nessun commento:

Posta un commento