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giovedì 6 giugno 2019

LA FONTANA DELLA VERGINE

360_LA FONTANA DELLA VERGINE (Jungfrukällan). Svezia 1960Regia di Ingmar Bergman.

C’è una leggenda che aveva ispirato una ballata del quattordicesimo secolo, in cui si raccontavano le origini dell’edificazione di una chiesa in un piccolo villaggio della Svezia medioevale. In pratica la concreta conversione al cristianesimo di una remota regione del paese scandinavo dove ancora era diffuso il paganesimo. Ed è questo il tema cardine alla base de La fontana della vergine, capolavoro del maestro Ingmar Bergman. I passi cruciali del film sono naturalmente posti nello splendido finale: la conversione completa di Töre (Max Von Sydow), che promette a Dio l’edificazione della chiesa di cui si diceva, e il miracolo della sorgente. Quest’ultimo passaggio è davvero significativo: dal luogo dove giaceva la testa della povera Karin (Birgitta Pettersson), stuprata e uccisa, una volta levato il cadavere della sventurata, comincia a zampillare acqua cristallina e purissima. E, a quel punto, a compimento di una conversione che deve riguardare idealmente tutta l’umanità e non solo gli sparuti protagonisti del film di Bergman, perfino Ingeri (Gunnel Lindblom), pagana convinta e devota ad Odino, si abbevera all’acqua che sgorga dalla fontana. Accetta anche lei il cristianesimo, quindi; lei, la ragazza senza famiglia legittima e disonorata da un membro del villaggio. E questo è il finale, ricco di speranza, con il quale Bergman si congeda dal dilemma religioso proposto dal suo film. Ma il percorso per arrivarci è tutt’altro che semplice. Uno dei passaggi obbligati sembra essere il dolore. Tra i protagonisti, sia negli scrupoli dell’osservanza alle consuetudini religiose, che nel passaggio drammatico delle vendetta, Märeta (Birgitta Valberg), si dimostra già predisposta alla conversione rispetto al marito Töre. 
E forse non è un caso che sia solita infliggersi punizioni corporee in segno di penitenza. Anche se la sofferenza che conduce alla redenzione è quella interiore, è il dolore della perdita della figlia, e non certo quello della cera colata sul braccio. Forse, la sofferenza fisica che la donna si provoca può anzi essere retaggio del paganesimo, a cui nel film viene opposto il cristianesimo, già nel confronto Karin cristiana vs Ingeri pagana presentato ad inizio del racconto. Un confronto nient’affatto bilanciato: la prima è dolce, vergine e pura, ed è la figlia del padrone; la seconda è lascivamente sensuale, è rimasta incita ancora ragazza, e fa la serva. Tornando al dolore come forma di penitenza, quando Töre si flagella prima di purificarsi col vapore, sembra prepararsi per un rito pagano. Il rito della vendetta: prende il “coltello per scannare”, proprio come se si apprestasse a sacrificare una bestia. 
In realtà vuole farla pagare ai criminali che hanno stuprato e ucciso la sua Karin ma, in quel momento, il confine sembra abbastanza sottile. Non è però questo genere di sacrifici che può portare alla redenzione cristiana. E’ possibile salvare la propria anima solo attraverso il dolore, ma non tanto fisico quanto piuttosto interiore: il primo passo è la consapevolezza del male. E poi il proprio sacrificio; e non quello di altri. In La fontana della vergine i sacrifici importanti sono due, e insieme portano alla salvezza la comunità. Uno è naturalmente quello di Karin: lei rappresenta la purezza, la gioia di vivere, la felicità di tutto lo sparuto villaggio. 
Non è un sacrificio volontario ma l’effetto sulla collettività è comunque determinante. La sua morte è un colpo tremendo per i genitori ma anche per tutti quanti, soprattutto per il modo e le ragioni per cui avviene. Ma è solo attraverso l’accettazione di questa tremenda ingiustizia, di questo enorme dolore, che si può arrivare davvero alla salvezza. Occorre conoscere il male, per poterlo superare nel perdono. L’altro sacrificio è quello del ragazzino, fratello dei due stupratori. Nella furia vendicatrice Töre lo uccide, mentre Märeta lo scongiura di risparmiarlo; forse perché già più convintamente convertita, forse per istinto materno, forse per le due cose insieme. Anche il terzetto di finti pastori offre così il suo sacrificio alla collettività; si tratta del solo fratello minore, mentre nel caso dei due depravati stupratori di fanciulle si può solo discutere se sia legittima la legge del taglione applicata da Töre nei loro confronti. 


Ma il loro non è e non può essere ritenuto un sacrificio, non essendo loro in alcun modo puri; e dalla loro morte la comunità non trae alcun vantaggio (se non levarseli di torno). Il che non vuole significare, naturalmente, che una collettività debba ricercare simili sacrifici: è però solo attraverso questo che si può realmente fare un qualche progresso (ovviamente sperando di non arrivare agli eccessi mostrati dal simbolico film di Bergman). Il crocefisso che il regista inquadra più volte, ricorda come la religione e la cultura cristiana si fondino esattamente su questo concetto. Anche se da parte di Nostro Signore c’è una scelta più consapevole del proprio destino, mentre né Karin né il ragazzino avranno questa opportunità. Ma lo strazio e il rimorso, rimangono, e devono essere il primo mattone per costruire una società più giusta dove cose del genere non accadano.


Bergman, per un racconto di tale forza simbolica, sceglie una messa in scena spoglia e minimale, un ritmo narrativo lento, ma inesorabile. Pur in un contesto così scarno, la sua capacità narrativa è eccelsa. Il primo passaggio di alta drammaticità, quello dello stupro, è preparato e portato avanti con grandissima maestria. Karin e Ingeri stanno andando alla chiesa, al di là della foresta. L’incontro con l’uomo della casa sul fiume getta un po’ di inquietudine, con Ingeri che abbandona Karin sola nel bosco. Poi la ragazza è notata dai tre finti pastori dall’alto di un pendio; i quali, seguiti dalle loro caprette, fanno un lungo giro per riuscire ad incontrarla in seguito, lungo la strada, per caso. La situazione presenta già elementi di inquietudine per la doppiezza dei tre ragazzi che, ovviamente, fanno finta di niente, come si fossero trovati lì per via del loro cammino. Dopo qualche convenevole, i quattro decidono di fare merenda con il cibo che Karin porta con se. 


Qui l’inquietudine aumenta, perché in precedenza si è visto Ingeri mettere un rospo vivo (!) all’interno della pagnotta preparata per Karin. Forse solo un brutto scherzo, certo. Da un lato poco più che antipatico: pur essendo a loro modo benestanti, non sembra avessero cibo da gettare; ma, visto il contesto, salta all’occhio l’aspetto simbolico del pane (il corpo di Cristo) insozzato da un animale come il rospo, facilmente associabile al fango. Ora Karin taglia la pagnotta e i quattro mangiano: ma il rospo non c’è e non succede niente, evidentemente le pagnotte erano più d’una. Poi Karin si accorge che le capre hanno il marchio del loro vicini: i tre non sono pastori. Dall’altra pagnotta salta fuori il rospo, ma è il colpo di scena meno importante. E di molto. 
Da un punto di vista strettamente narrativo, è un passaggio sopraffino di grande efficacia, che sottolinea, col rigore formale, l’importanza tragica più che drammatica del momento. Bergman filma lo stupro di Karin, la sua uccisione, senza compiacimento ma senza sconti, e ce lo fa vivere in presa diretta al fianco di Ingeri. La ragazza afferra una pietra per difendere la figlia del padrone, ma poi preferisce rimanere nascosta a guardare l’orrore, dando sfogo ad una piccola rivalsa per la rivale fin lì ben più fortunata. Del resto lo ammetterà lei stessa, in seguito. Ma, come si è visto, anche lei, attraverso il rimorso, arriverà alla meritata salvezza. E in fondo, proprio Ingeri, come noi spettatrice del tragico evento, ci rappresenta meglio di chiunque altro all’interno nel film. Il cinema di Bergman, limpido ed essenziale, ci racconta della massima violenza concepibile, (stupro e uccisione di una giovane ragazza), una violenza che probabilmente anche noi non saremmo in grado di scongiurare a causa della nostra viltà, della nostra invidia, della nostra debolezza. Ma ce lo racconta per rivelarci come è possibile salvare almeno la nostra anima.





Birgitta Pettersson




Gunnell Lindblom






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