361_L'ULTIMA CASA A SINISTRA (The last house on the left). Stati Uniti 1972. Regia di Wes Craven.
Spesso un’opera prima in ambito cinematografico è il frutto
di un processo di crescita dell’autore che, dopo anni di gavetta, ottiene
l’incarico di girare il suo film. E
in questo senso molto spesso gli esordi sembrano quasi tesi di laurea, dove il regista eccede mettendo tanta, sovente
anche troppa, carne al fuoco. Non è però il caso di L’ultima casa a sinistra, lungometraggio d’esordio di Wes Craven.
Craven ha pochissima esperienza: ha lavorato al montaggio, soprattutto di
documentari, ma non si può certo definire un esperto conoscitore della complessiva
tecnica cinematografica di regia. Anzi, si può dire che il suo rapporto con
cinema sia particolare, forse in un certo senso quasi distaccato, non essendo cresciuto guardando i film. Di famiglia battista
fondamentalista venne infatti tenuto lontano dagli spettacoli cinematografici e
il primo film lo vide solo all’ultimo anno di università. Queste non sono
nozioni da ricordare a titolo di curiosità, ma sono forse le motivazioni alla
base di un film, L’ultima casa a sinistra,
che è il frutto di fatti circostanziali (in primis il talento dell’autore, sia
ben chiaro) più che di una strategia organizzata e pianificata che in genere è
alla base di ogni produzione cinematografica che si rispetti. Innanzitutto va
detto che si tratta di un’opera su commissione, dopo che Craven si era ben
destreggiato nell’ultimare per conto del produttore Sean Cunningham un film
amatoriale a luci rosse; ora si trattava di fare un horror a bassissimo costo.
Come accennato, l’autore nato a Cleveland non aveva conosciuto il cinema da
ragazzo, ma dopo Il buio oltre la siepe
(Robert Mulligan), suo esordio come spettatore, si rifece e, con approccio da
studente ormai laureato, cominciò giustamente coi classici. Non deve così
sorprendere se, per impostare il suo primo film, l’autore punti decisamente in
alto, a La fontana della Vergine, di
Ingmar Bergman, di cui L’ultima casa a
sinistra può anche venir considerato un remake.
Per mostrare l’orrore sullo
schermo, e anche in generale per filmare la sua storia, Craven ricorre alla sua
esperienza come assistente al montaggio, dove lavorò a decine di documentari.
E’ quindi più probabile che la matrice splatter del film abbia un debito con le
immagini dei reportage dal Vietnam, che furoreggiavano in quei primi anni
settanta, piuttosto che alle opere del padre del genere gore Hershell Gordon Lewis; con il quale, per altro, il primo
Craven è generalmente assimilato (non senza ragione). Il quadro complessivo del
film comincia così a profilarsi: oltre a quanto detto, la struttura poggia
sull’ancestrale rabbia di fronte all’aggressione della prole, sottolineando la
natura animalesca dell’uomo.
Anche di coloro i quali siano educati, istruiti e
ben disposti verso il prossimo. I quattro malviventi sono bestie a tutti gli
effetti, ma sotto la scorza civilizzata anche la coppia di genitori, in
situazioni estreme, non si rivela troppo differente. Per altro, la violenza è
condannata attraverso le parole di Estelle (Cynthia Carr) che rimprovera la
figlia Mary (Sandra Cassel) rea di apprezzare quei film dove vengono uccisi
veri animali. Non è che Craven voglia accusare di ipocrisia la donna: sembra
piuttosto un volersi distanziare dalla violenza gratuita (quella degli snuff-movie), mentre quello che accade
in seguito è la semplice costatazione che l’uomo è un animale e la violenza è
parte integrante della natura umana.
C’è un’evidente consapevolezza della
delicatezza del testo e, oltre al citato scambio di battute, il lungometraggio
è introdotto da una didascalia (almeno nella versione italiana) che cerca, in qualche modo, di giustificare lo
spettacolo violento che seguirà nel resto della pellicola. Ma il confine, per
essere onesti, è assai labile. L’attore David Hess, che nel film interpreta il
criminale peggiore del lotto, Krug, una vera bestia sanguinaria, racconterà che
durante la scena dello stupro della povera Mary aveva cercato di essere
particolarmente convincente. Rivedere sullo schermo l’espressione di totale
remissività sul volto dell’attrice Sandra Cassel (che interpretava appunto
Mary), lo turbò, facendolo arrivare addirittura a pensare che la ragazza si
fosse realmente arresa alla sua foga animalesca anche fuori dalla finzione
della recitazione.
E’ forse solo una suggestione di Hess, ma rimane il fatto
che le immagini del film sono durissime, sia sotto l’aspetto della violenza, il
censuratissimo passaggio dello sventramento valga come esempio, che
dell’umiliazione inflitta alle ragazze, basti pensare alla scena in cui Phyllis
(Lucy Grantham) è costretta a urinare ancora con i jeans addosso. Sebbene la
violenza del film sia solo finzione, è chiaro che se esiste un confine della
tollerabilità a ciò che è mostrabile, L’ultima
casa a sinistra c’è tremendamente vicino. Questo non tanto per tacciare di
immoralità il film, ma piuttosto per collocare la citata didascalia di
introduzione in una corretta posizione: suona un po’ come una mera
giustificazione ad eventuali contestazioni da parte degli organi di censura o
della critica benpensante.
Sull’aspetto etico dell’opera si potrebbe per altro
anche discutere: tenendo sempre conto che negli Stati Uniti, al tempo, si
cercava di veicolare il messaggio che i massacri compiuti quotidianamente nel
Vietnam fossero legittimi al punto da poter essere anche mostrati nei notiziari
della televisione. L’anima violenta dell’America tornava così allo scoperto
dopo il periodo del dopoguerra e del successivo boom, dov’era invece rimasta un
po’ in secondo piano. In realtà il paese era ferocemente legato alla sua natura
violenta, quelle dell’America rurale e connessa ai pregiudizi e, in fondo,
anche L’ultima casa a sinistra a
quelle stesse radici attinge nel momento in cui le scene di violenza avvengono
appunto in campagna e non nella metropoli. Il male ha così un’origine antica, legata alla natura stessa dell’uomo
(la campagna) più che alla sua evoluzione (la città). E se c’è un riferimento
culturale, nella storia raccontata da Craven, è per la vecchia Europa
(addirittura la Svezia
del medioevo) del film di Bergman che di fatto è alla base del soggetto di L’ultima casa a sinistra. Questi
elementi sono tutti presenti nel magma creativo poi condensato dal regista nel
suo primo e folgorante lungometraggio. E forse proprio il candore di uno che
era sostanzialmente ancora estraneo all’industria cinematografica (sia come
addetto ai lavori che come spettatore) permise a Craven uno sguardo innocente che sullo schermo rivelerà
però le terribili contraddizioni della società americana, mostrate senza alcuno
sconto. Gli si chiede una storia dell’orrore, in piena epoca della
contestazione giovanile, rivoluzione sociale, sessuale e femminista ivi connessa, mentre furoreggia la guerra del
Vietnam.
Craven, pur avendo bene in mente l’origine delle paure umane, avrà
giustamente riflettuto che non poteva certo terrorizzare gli spettatori di quel
tempo, con una storia di vampiri che abitano in vecchi castelli o altre
raffinate antichità simili. Per cui, pur partendo da una base di solida
tradizione, mette poi insieme semplicemente gli elementi caldi del momento: due ragazze vogliono divertirsi (rivendicazioni
femministe), vengono stuprate (rischi ed eccessi legati alla rivoluzione
sessuale), da gente sbandata (disagio sociale), e poi trucidate con estrema
crudeltà (quello che accadeva in Vietnam). La matrice tradizionale risalente al
medioevo ci ricorda che i riferimenti contemporanei sono circostanziali, ma che
il succo del discorso è quello da sempre. E va anche detto che Craven riesce a
rendere perfettamente sullo schermo la situazione peggiore che può capitare ad
un essere umano: lo stupro (con sadica tortura annessa). La ‘colpa’ di Craven (scontata poi con 5
anni di inattività) fu quella di sbattere in faccia all’America (e al mondo)
quello che accadeva troppo spesso e che i resoconti mai avevano mostrato con
tanta efficacia. Lo stupro è un atto di ferocia inaccettabile, ma non è solo la
manifestazione di violenza a renderlo tale.
Quello che provoca nel soggetto
violato, ben sottolineato dalle citate parole dell’attore Hess, è molto più
profondo del dolore sopportato. Vederlo al cinema è certamente disturbante, ma
è anche vero che occorre prenderne coscienza, e qualunque cosa aiuti in quel
senso, non può che essere utile. Certamente sul piatto della bilancia bisogna poi
mettere l’eventuale e presunto malato compiacimento, del regista o dei
fruitori, e trarre le proprie conclusioni. Questioni etiche a parte, da un
punto di vista tecnico è da rimarcare il contributo di Hess che, oltre ad
offrire una credibile interpretazione per l’animalesco Krug, ha un’ulteriore
importanza nell’economia de L’ultima casa
a sinistra. Sue sono infatti le musiche del lungometraggio, molto
particolari e curiosamente per nulla sinistre.
David Hess, valido musicista
(autore, tra l’altro per Elvis Presley e Pat Boone, e coautore del celebre
brano Speedy Gonzales), asseconda con
la colonna sonora la vena parodistica di Craven, con un commento musicale
spesso in contrappunto con quanto mostrato dallo schermo. In effetti
l’intenzione del regista di alleggerire la tensione con situazioni o siparietti
comico grotteschi, è lampante: la coppia di tutori dell’ordine, lo sceriffo e
il suo vice, sembrano e si comportano esattamente come Stanlio e Ollio. Perché,
in fin della fiera, le intenzioni dell’autore erano semplicemente girare una “folle e scandalosa commedia dell’orrore”
cercando di non sforare il budget risicato.
L’origine della scelta del titolo
rende perfettamente il grado di pianificazione che aveva l’operazione: venne
fatta una sorta di prova in tre città diverse con tre titoli diversi e relative
campagne promozionali. In due casi le sale restarono deserte; ed erano quelle
in cui i titoli avevano un’attinenza con lo sviluppo del racconto filmico. Dove
si proiettò la copia denominata L’ultima
casa a sinistra, titolo tipicamente horror ma non attinente alla storia,
accompagnata dallo slogan Se non volete
svenire, continuate a ripetervi: è solo un film, è solo un film! fu un
successo clamoroso. In sostanza, il caso mise Wes Craven sulla strada del
cinema horror, agli inizi degli anni settanta, e una serie di fattori
circostanziali furono determinati nella riuscita di L’ultima casa a sinistra. Ma fu il puro talento del cineasta che,
già da quel primo film, lasciò un’impronta indelebile sul genere.
Sandra Cassel
Lucy Grantham
Chyntia Carr
Jeremie Rain
Nessun commento:
Posta un commento