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lunedì 10 giugno 2019

L'ULTIMO TRENO DELLA NOTTE

362_L'ULTIMO TRENO DELLA NOTTEItalia, 1975Regia di Aldo Lado.

Il divieto ai minori è ovviamente un forte indizio, e poi anche il titolo, L’ultimo treno della notte, tutto sommato ci mette sull’avviso. Poi però comincia il film, si vede Monaco di Baviera sotto Natale, e Demis Roussous intona A flower’s all you need, composta per lui da Ennio Morricone: una struggente melodia, molto romantica, che la voce del cantante greco rende particolarmente coinvolgente. Chissà, forse quel VM18 è riferito ad un film un po’ troppo spinto dal punto di vista sessuale, si potrebbe pensare; in fondo il regista, Aldo Lado, con il precedente La cugina, lungometraggio erotico che arrivava dopo un morboso melodramma in costume e un’altra commedia piccante, potrebbe aver preso questa china, dimenticando gli inizi più drammatici. Forse può sembrare curioso iniziare dalle questioni avute con la censura, ma Lado, in L’ultimo treno della notte potrebbe trattare principalmente proprio di questo argomento. Intanto, mentre Roussous canta sulla città bavarese in cui si alternano scene di ordinario shopping natalizio ad altre più interlocutorie, i titoli di testa scorrono veloci. Anche troppo: dopo 90 secondi sono già terminati, ma la canzone è ben lungi dall’essere finita. Qualcosa non quadra, in genere c’è un certo sincronismo tra la musica e i credits iniziali. E qualcosa non quadra nemmeno in quello che vediamo: un uomo vestito da babbo natale sta vendendo candele fuori da un centro commerciale, poi si apparta un attimo per farsi un cicchetto. Va beh, che sarà mai, dai! Anche Santa Claus ha freddo. Ma non è quella la nota stonata: perché subito arrivano due balordi, già visti bighellonare infastidendo i passanti, e lo aggrediscono brutalmente, scippandolo.
Lado non se ne cura e, dopo aver compiuto una panoramica sui mercatini natalizi, mentre la canzone che parlava di pace e amore sfuma, stacca su un ripresa in teleobiettivo coi cigni sullo specchio del fiume cittadino. Ecco, la chiave del film potrebbe essere in questo accostamento apparentemente fuori luogo, quasi fastidioso, delle immagini della, in un certo senso, sacrilega aggressione a Babbo Natale, alla scena dei cigni sull’acqua, che sono un tipico soggetto da cartolina. Cattivo gusto vs buon gusto; oddio, buon gusto un po’ scontato, per la verità. Ma allora viene il sospetto che la scelta di Monaco di Baviera non sia casuale, specie per un regista attento alle location, lui che è nato in una città particolare come Fiume.

Nella città bavarese pullula il barocco roccocò, l’esaltazione sfrenata, coi suoi orpelli d’orati, del presunto buon gusto. E allora ci si rende conto che tutta l’opulenza mostrata insistentemente nelle panoramiche sulla città durante i titoli di testa, il salumiere che affetta i suoi salumi, le luci natalizie sgargianti, e tutto il ben di dio in vendita a Natale, possano anch’esse essere prese come esempi di cattivo buon gusto; non così distanti dai teppisti che scippano Babbo Natale. In fondo, il buon gusto, quello che poi influenza anche le scelte della censura, è un concetto borghese; uno dei capisaldi della borghesia, si potrebbe anche dire. Ma lo spartiacque che lo divide dal suo opposto, il cattivo gusto, può anche essere labile, come in sostanza costatato da Margareth (Irene Miracle) una delle ragazze protagoniste del film, quando si rende conto che la cravatta comprata per lo zio, azzurro squillante con un pavone ricamato a mano, non è così fine come gli era sembrato al momento dell’acquisto. Questa cravatta, utilizzata poi efficacemente da Lado anche da un punto di vista squisitamente narrativo, è una delle chiavi di lettura più esplicite del film. Il vero cattivo gusto non lo si trova nella sciatteria, nella trascuratezza, nella povertà ma, al contrario, nell’eccessiva ricercatezza formale. Ma a che ci servono queste riflessioni, basate sugli sparuti minuti iniziali di L’ultimo treno della notte?
Non si dice che il film sia semplicemente la versione italiana di L'ultima casa a sinistra, il rape & revenge movie d'esordio di Wes Craven? Tutto vero, ma queste premesse motivano la violenza, il sadismo, la crudeltà, messa in scena nella restante ora e mezza da parte di Lado. Cattivo gusto, quello del regista, obiettò qualcuno al tempo? (Più di qualcuno in verità: il film fu pesantemente stroncato un po’ dovunque, addirittura bandito nel Regno Unito e in Australia). Certo, consapevolmente cattivo gusto: che fa però il paio, e lo fa calzando perfettamente, con l’ipocrisia borghese, paladina del suo presunto opposto buon gusto. C’è un’altra scena cruciale nel comprendere bene l’intera prospettiva del film di Lado, giustamente sempre all’inizio:
i soliti due balordi già visti all’opera, Blackie e Curlie, (che sono interpretati da Flavio Bucci e Gianfranco De Grassi) e che sono tra i protagonisti del film, se la prendono ora con una signora impellicciata. La pelliccia era uno dei simboli della borghesia degli anni settanta, spesso di gusto anche pacchiano arrivava però a costare decine di milioni di lire; i due disgraziati non derubano però la donna del prezioso capo di abbigliamento, ma si limitano a danneggiargliela, tagliandola in due sul retro. Blackie, all’amico che lo interpella sulla possibilità di scippare anche la signora, riferendosi alla pelliccia risponde esplicito: “Allora niente. Mi fa schifo”. 
C’è quindi una vena di ideologia politica, o presunta tale, nel rifiuto di uno dei simboli del capitalismo borghese; è questo il dettaglio importante, da tenere a mente, nell’iperbole di violenza su cui si avvolge lo sviluppo del film. Perché è un indice che la violenza mostrata non ha alcuna giustificazione sociale in senso economico: non è la povertà o la precarietà finanziaria a giustificare o anche solo motivare quello che accadrà.
Come altre volte nel cinema di Lado, il film è scomponibile in più parti, ma lo è in modi diversi e contemporaneamente, un po’ come se dovessimo utilizzare la teoria insiemistica. Ad esempio: incipit a parte, la storia può essere divisa tra l’ambientazione sulle rotaie e nella casa dei signori Stradi; oppure in viaggio tra Monaco e l’Italia, con una piccola ma significativa sosta in Austria. In un film che sembra correre metaforicamente come tra i due binari della ferrovia, tra cattivo e buon gusto, tra Germania e Italia e, mantenendo il codice binario, su due differenti treni, con le due ragazze e i due balordi, e via di questo doppio passo, c’è sempre qualcosa che si mette in mezzo.
Se abbiamo già visto come può essere difficile distinguere cattivo e buon gusto ed esserci la sosta in Austria per cambiare il treno tra Monaco e la destinazione italiana delle due ragazze, anche negli altri casi la specularità degli elementi è rotta o almeno increspata. Tra le due coppie di giovani si inserisce la signora del treno (Macha Méril), mentre nel caso dei due treni del racconto, nella loro specularità si intromette, se così si può dire, la residenza degli Stradi, visto che Lado ad un certo punto la riprende attraverso le finestre, come fosse a sua volta una sorta di convoglio. Lo schema di questa ripetuta distrazione da un prima divisione binaria, tipico del regista, è reso manifesto nella scena della telefonata fatta da Lisa (Laura D’Angelo), una delle due ragazze, dalla stazione austriaca.

Innanzitutto le telefonate saranno due, perché a casa Stradi non risponderà nessuno; inoltre, questo passaggio narrativo non è uno sterile artificio ma verrà utilizzato da Lado per gli sviluppi nella fase finale. Ma quello che ci interessa ora è ciò che avviene nella residenza degli Stradi: suona il telefono, è Lisa che chiama per avvisare del cambio di treno e quindi di programma. Laura, la madre (Marina Berti), è impegnata al frullatore, e non può sentire; al cinema, questo normalmente basterebbe per far passare il concetto di una telefonata a vuoto. Ma non a Lado, che ne approfitta per aggiungere un po’ di suspense: mentre il telefono lancia gli ultimi squilli, suonano alla porta, il cui campanello stavolta è sentito da Laura, che lascia perciò il frullatore.
Arriva alla porta, la apre, e solo allora si accorge del telefono che suona; dice di attendere all’avventore e corre all’apparecchio, ma non fa in tempo; torna alla porta, che scopriamo non essere quella di entrata, ma una semplice porta interna. Come si vede, oltre ai raddoppi, le due telefonate, i due campanelli, le due porte, ci sono continue divagazioni e depistaggi. In sostanza tutto il lavoro della struttura narrativa usato dal regista sembra dirci che non si può dividere in modo manicheo il mondo in buoni e cattivi, in giusto e sbagliato; è sempre molto più complesso. In effetti Giulio Stradi (uno straordinario Enrico Maria Salerno), facoltoso medico chirurgo, è persona di grandi valori umanitari; ma nel finale si trasforma in sadico vendicatore.

Perché il lavoro migliore Lado lo fa con gli interpreti della sua storia, che si possono dividere in personaggi schierati e schermati. Sempre svincolandosi dai facili alibi economico-sociali, il regista impiega personaggi che sembra siano grosso modo tutti esponenti della borghesia, o perlomeno della classe media. Probabilmente anche i due teppisti: uno è ideologizzato e rifiuta per principio un furto remunerativo come quello della pelliccia, difficile pensarlo come esponente del proletariato; l’altro è un drogato, e si sa che era una dipendenza dal costo non indifferente. Questi due personaggi hanno però fatto una scelta di campo chiara: stanno sulla cattiva strada e questo, in fondo, li accomuna (in modo speculare) ad altri personaggi del film che hanno fatto la scelta opposta. Le due ragazze sono brave ragazze e i coniugi Stradi sono gente per bene. Ma non sono queste le uniche posizioni possibili. Perché nella storia ci sono anche la signora del treno e il voyeur (Franco Fabrizi): essi sono gli unici due personaggi che escono illesi dal tragico racconto, cavandosela col minimo danno, capaci di gestire in modo opportuno (e vile) ogni situazione.
Queste sono le figure schermate: l’uomo dietro gli occhiali scuri, la donna dietro la veletta. Che sono semplicemente due simboli, sia chiaro, ma che indicano la capacità di eclissarsi al momento giusto, di nascondersi attendendo il momento propizio per cogliere l’occasione o sparire. Una capacità importante, soprattutto se, come sempre, tutto si può rovesciare, ribaltare: nel finale, i due teppisti diventano povere vittime, mentre Giulio Stradi un folle assassino. Ed è proprio questo l’oggetto della riflessione dell’opera del regista, questa caratteristica della morale borghese, quella da cui in definitiva deriva il buon gusto o i criteri di censura. Le persone immuni alla sua critica, non sono quelle che hanno fatto la scelta giusta, ma coloro i quali, come la signora del treno o il guardone, hanno scelto di non scegliere, ovvero quelli che sanno stare al mondo. Al che, Aldo Lado sembra quasi voler dire: censuratemi pure. 
       

Macha Méril







Marina Berti






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