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sabato 14 luglio 2018

TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI

177_TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI  (Three bilboards outside Ebbing, Missouri). Stati Uniti, Regno Unito 2017;  Regia di Martin McDonagh.

Sarà la presenza di Frances McDormand, il titolo del film, l’ambientazione nella provincia rurale americana, i dialoghi coloriti e assai realistici o forse che sin dal promo si capisca che la storia ha una trama forte, solida; fatto sta che l’idea che ci si fa preventivamente è che si tratti di un’opera alla fratelli Coen, un lungometraggio che prenda come riferimento il cinema stesso più che la realtà. Ma, durante la visione, ci si accorge che il procedimento di Martin McDonagh, il regista è, semmai, mettere in scena i luoghi comuni del cinema per smentirli, in un’operazione di continua sottrazione che toglie ripetutamente i punti di riferimento narrativi che sembrano supportare la storia. La madre disperata per la morte della figlia (Mildred Hayes, una granitica McDormand) non ha tutte le ragioni; lo sceriffo Bill Willoughby (uno straordinario Woody Harrelson) non è del tutto stronzo, anzi; l’agente Dixon invece si (Sam Rocwell) ma è il vero protagonista, meglio, l’eroe del film. E le situazioni cambiano, continuamente, con la trama che offre sempre nuove svolte che mutano la prospettiva delle cose anche a ritroso, coi personaggi che, faticosamente, fanno i loro sudatissimi progressi, insieme a qualche regresso. E’ un film violento, Tre manifesti a Ebbing, Missouri, già nel linguaggio fortemente scurrile e offensivo; ma poi la violenza si manifesta in forma concreta e diffusa, un sistema utilizzato già dalle forze dell’ordine. L’odio, il rancore, la rabbia: sono questi i sentimenti di cui è intrisa la tipica cittadina del midwest dove è ambientata la vicenda. E devono trovare sfogo: Mildred non riesce a sopportare l’idea che la fine della figlia, violentata e uccisa, non trovi giustizia. Non è dato a sapere se davvero la polizia sia realmente così inoperosa; ma lei ha comunque bisogno di qualcuno contro cui sfogare la propria frustrazione. In questo senso il film ha una eccellente valenza critica contemporanea: mai, forse, il sentimento dominante nel mondo è stato una rabbia così forte. Rancore e odio per le ingiustizie subite, vere o presunte che siano: ma percepite come assolutamente vere, al di là di qualunque valutazione un minimo ponderata.


Qualcosa dev’essere andato storto se un sentimento tanto forte quanto sbagliato è così simultaneamente diffuso in tutto il mondo: la rabbia della signora Hayes è comprensibilissima anche in Italia e, volendo ben vedere, una sorta di conferma in tal senso è il fatto che un ritratto così realistico della provincia americana (almeno per come abbiamo imparato a conoscerla dai notiziari che sembrano bollettini di guerra) ce lo dia un autore britannico come McDonagh.
Il quale è davvero bravo e, con estrema abilità, coniuga l’onestà intellettuale al suo stile narrativo che ci toglie costantemente punti di riferimento: così, quando si pensa che la Hayes possa essere una nuova paladina dei diritti civili, ecco che ce ne mostra il lato oscuro. E, sebbene manchi un esplicito giudizio morale in tal senso, il quadro generale (la mancanza di rispetto reciproco in famiglia) e il passaggio narrativo particolare (avere spedito la figlia a piedi invece che concederle l’auto) inchiodano Mildred spalle al muro come corresponsabile della tragedia. E, a quel punto, la donna dà il peggio di sé, coinvolta nella spirale autodistruttiva che contagia di questi tempi tutto il pianeta.
Ma, fedele all’impostazione generale dell’opera, un quadro d’insieme tanto caustico deve avere almeno una scintilla di umanità; e McDonagh ce ne regala almeno un paio.



E, sempre seguendo la contorta logica del film, chi poteva darci la prima e indubbiamente più significativa? C’è un attore, nel film, che nella realtà è figlio di un noto assassino, ed è salito alla ribalta nell’interpretazione del pluriomicida protagonista di Assassini nati di Oliver Stone, e che in Tre manifesti a Ebbing, Missouri interpreta uno sceriffo che sarà anche benvoluto ma tollera tra i suoi agenti il diffuso razzismo: è naturalmente Bill Willoughby interpretato da Harrelson. Sempre con la sua scrittura spiazzante, il regista, che è anche sceneggiatore, per imprimere la svolta positiva sceglie quindi un cattivo predestinato e, nonostante lo sceriffo Bill si prodighi in tanti modi costruttivi (la comprensività nei confronti della Hayes, l’attenzione per le due piccole figlie, l’amore per la moglie) questa svolta è iscritta in un atto tranciante come il suicidio: che, al di la dei giudizi morali o etici, non contemplati nell’opera, è comunque un omicidio. Il personaggio chiude quindi fedele a se stesso con un  uccisione, ma innesca la spirale positiva nella storia: in sostanza, è solo eliminando la nostra parte cattiva, uccidendo il killer che c’è in noi, che possiamo uscire dall’impasse di odio generalizzato in ogni direzione nel quale ci siamo immersi.



La seconda nota illuminata ce la regala la fidanzata diciannovenne del marito di Mildred: la violenza genera violenza, citazione presa da un libro, anzi, in onestà dal risvolto di un libro; come dire che la ragazza, descritta nel film come una tipa un po’ insipida, il libro non l’abbia neanche letto. Il che, insieme agli scherzi amichevolmente, anzi amorevolmente, volgari tra lo sceriffo e la moglie sulle citazioni letterarie, serve ad ammiccare un po’ allo spettatore: non c’è alcuna pretesa culturale, sembra quindi dirci McDonagh. E quando te lo dicono, sai che ti stanno fregando, a maggior ragione in un film spiazzante e fuorviante come Tre manifesti a Ebbing, Missouri.
Perché invece è verissimo che la violenza genera violenza, ed è un peccato che nonostante se ne sia resa conto, la Hayes ci ricaschi, quando Dixon, dopo averle dato una piccola illusione, le comunica che il ricercato per lo stupro e l’uccisione della figlia non è ancora stato trovato e che l’uomo individuato ha stuprato e ucciso, ma altrove.


La donna è in macchina, accanto al suo ex acerrimo nemico Dixon, ora suo complice nella missione punitiva in Idaho, dove vive il criminale sbagliato a cui farla comunque pagare, anche per lo stupro e l'uccisione della figlia; ma alla Hayes viene finalmente un dubbio, quando chiede all’uomo al suo fianco se davvero vuole ucciderlo, quel criminale. ‘Non lo so’ risponde Dixon, che rigira la domanda alla compagna di viaggio. Meno male che non lo sa neanche Mildred, perché ci lascia qualche speranza che la spirale di violenza travestita da giustizia fai da te sia interrotta.
Segue un periodo di silenzio, la strana coppia in auto verso l’Idaho; adesso è un finale perfetto, e McDonagh lo sa.
Ma ci lascia un attimo col fiato sospeso, poi, finalmente, senza bisogno di altro, arriva la fine del film; è andata.
Rimaniamo quindi col dubbio; ma, di questi tempi, è già qualcosa.


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