177_TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI (Three bilboards outside Ebbing, Missouri). Stati Uniti, Regno Unito 2017; Regia di Martin McDonagh.
Sarà la presenza di Frances McDormand, il titolo
del film, l’ambientazione nella provincia
rurale americana, i dialoghi coloriti e assai realistici o forse che sin dal promo si capisca che la storia ha una
trama forte, solida; fatto sta che l’idea che ci si fa preventivamente è che si
tratti di un’opera alla fratelli Coen, un lungometraggio che prenda come
riferimento il cinema stesso più che la realtà. Ma, durante la visione, ci si
accorge che il procedimento di Martin McDonagh, il regista è, semmai, mettere
in scena i luoghi comuni del cinema per smentirli, in un’operazione di continua
sottrazione che toglie ripetutamente i punti di riferimento narrativi che
sembrano supportare la storia. La madre disperata per la morte della figlia (Mildred
Hayes, una granitica McDormand) non ha tutte le ragioni; lo sceriffo Bill Willoughby
(uno straordinario Woody Harrelson) non è del tutto stronzo, anzi; l’agente
Dixon invece si (Sam Rocwell) ma è il vero protagonista, meglio, l’eroe del film. E le situazioni cambiano,
continuamente, con la trama che offre sempre nuove svolte che mutano la
prospettiva delle cose anche a ritroso, coi personaggi che, faticosamente,
fanno i loro sudatissimi progressi, insieme a qualche regresso. E’ un film
violento, Tre manifesti a Ebbing,
Missouri, già nel linguaggio fortemente scurrile e offensivo; ma poi la
violenza si manifesta in forma concreta e diffusa, un sistema utilizzato già
dalle forze dell’ordine. L’odio, il rancore, la rabbia: sono questi i
sentimenti di cui è intrisa la tipica cittadina del midwest dove è ambientata la vicenda. E devono trovare sfogo:
Mildred non riesce a sopportare l’idea che la fine della figlia, violentata e
uccisa, non trovi giustizia. Non è dato a sapere se davvero la polizia sia
realmente così inoperosa; ma lei ha comunque bisogno di qualcuno contro cui
sfogare la propria frustrazione. In questo senso il film ha una eccellente
valenza critica contemporanea: mai, forse, il sentimento dominante nel mondo è
stato una rabbia così forte. Rancore e odio per le ingiustizie subite, vere o
presunte che siano: ma percepite come assolutamente vere, al di là di qualunque
valutazione un minimo ponderata.
la Hayes
ci ricaschi, quando Dixon, dopo averle dato una piccola illusione, le comunica che il ricercato per lo stupro e l’uccisione della figlia non è ancora stato
trovato e che l’uomo individuato ha stuprato e ucciso, ma altrove.
Qualcosa dev’essere andato storto se un sentimento tanto
forte quanto sbagliato è così
simultaneamente diffuso in tutto il mondo: la rabbia della signora Hayes è
comprensibilissima anche in Italia e, volendo ben vedere, una sorta di conferma
in tal senso è il fatto che un ritratto così realistico della provincia americana
(almeno per come abbiamo imparato a conoscerla dai notiziari che sembrano
bollettini di guerra) ce lo dia un autore britannico come McDonagh.
Il quale è davvero bravo e, con estrema abilità, coniuga l’onestà
intellettuale al suo stile narrativo che ci toglie costantemente punti di
riferimento: così, quando si pensa che la Hayes possa essere una nuova paladina dei diritti
civili, ecco che ce ne mostra il lato oscuro. E, sebbene manchi un esplicito
giudizio morale in tal senso, il quadro generale (la mancanza di rispetto
reciproco in famiglia) e il passaggio narrativo particolare (avere spedito la
figlia a piedi invece che concederle l’auto) inchiodano Mildred spalle al muro come
corresponsabile della tragedia. E, a quel punto, la donna dà il peggio di sé, coinvolta
nella spirale autodistruttiva che contagia di questi tempi tutto il pianeta.
Ma, fedele all’impostazione generale dell’opera, un quadro d’insieme
tanto caustico deve avere almeno una scintilla di umanità; e McDonagh ce ne
regala almeno un paio.
E, sempre seguendo la contorta logica del film, chi poteva
darci la prima e indubbiamente più significativa? C’è un attore, nel film, che
nella realtà è figlio di un noto assassino, ed è salito alla ribalta
nell’interpretazione del pluriomicida protagonista di Assassini nati di Oliver Stone, e che in Tre manifesti a Ebbing,
Missouri interpreta uno sceriffo che sarà anche benvoluto ma
tollera tra i suoi agenti il diffuso razzismo: è naturalmente Bill Willoughby
interpretato da Harrelson. Sempre con la sua scrittura spiazzante, il regista,
che è anche sceneggiatore, per imprimere la svolta positiva sceglie quindi un cattivo predestinato e, nonostante lo
sceriffo Bill si prodighi in tanti modi costruttivi
(la comprensività nei confronti della Hayes, l’attenzione per le due piccole
figlie, l’amore per la moglie) questa svolta è iscritta in un atto tranciante
come il suicidio: che, al di la dei giudizi morali o etici, non contemplati
nell’opera, è comunque un omicidio. Il personaggio chiude quindi fedele a se
stesso con un uccisione, ma innesca la
spirale positiva nella storia: in sostanza, è solo eliminando la nostra parte
cattiva, uccidendo il killer che c’è
in noi, che possiamo uscire dall’impasse di odio generalizzato in ogni
direzione nel quale ci siamo immersi.
La seconda nota illuminata
ce la regala la fidanzata diciannovenne del marito di Mildred: la violenza genera violenza, citazione
presa da un libro, anzi, in onestà dal risvolto di un libro; come dire che la
ragazza, descritta nel film come una tipa un po’ insipida, il libro non l’abbia
neanche letto. Il che, insieme agli scherzi amichevolmente, anzi amorevolmente,
volgari tra lo sceriffo e la moglie sulle citazioni letterarie, serve ad
ammiccare un po’ allo spettatore: non c’è
alcuna pretesa culturale, sembra quindi dirci McDonagh. E quando te lo
dicono, sai che ti stanno fregando, a
maggior ragione in un film spiazzante e fuorviante come Tre manifesti a Ebbing, Missouri.
Perché invece è verissimo che la violenza genera violenza, ed è un peccato che nonostante se ne sia resa conto,
La donna è in macchina, accanto al suo ex acerrimo nemico Dixon, ora
suo complice nella missione punitiva in Idaho, dove vive il criminale sbagliato a cui farla comunque pagare, anche per lo stupro e l'uccisione della figlia; ma alla
Hayes viene finalmente un dubbio, quando chiede all’uomo al suo fianco se
davvero vuole ucciderlo, quel criminale. ‘Non
lo so’ risponde Dixon, che rigira la domanda alla compagna di viaggio. Meno
male che non lo sa neanche Mildred, perché ci lascia qualche speranza che la
spirale di violenza travestita da giustizia
fai da te sia interrotta.
Segue un periodo di silenzio, la strana coppia in auto verso
l’Idaho; adesso è un finale perfetto, e McDonagh lo sa.
Ma ci lascia un attimo col fiato sospeso, poi, finalmente,
senza bisogno di altro, arriva la fine del film; è andata.
Rimaniamo quindi col dubbio; ma, di questi tempi, è già
qualcosa.
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