179_LA FEBBRE DELL'ORO (The Gold Rush). Stati Uniti, 1925; Regia di Charlie Chaplin.
La casa in legno assurdamente in bilico sul baratro è
certamente l’immagine più famosa di The
gold rush, film del 1925 di Charlie Chaplin, una di quelle più note
dell’intera filmografia del regista e, perché no, dell’intera storia del
cinema. Ed è una fama meritata perché in quella singola immagine c’è già molto
dell’autore inglese, il che vuol dire avere un peso notevole nell’ambito
globale del cinema stesso, visto l’importanza del cineasta. Una casa di legno, una
specie di baracca dall’aspetto semplice come la disegnerebbe un bambino, si
trova a sporgere per metà sul ciglio di un precipizio innevato, con la neve a
rendere scivolosa e quindi ancora più pericolosa la situazione. Pur se sospesa
per metà nel vuoto la struttura della casa non cede, non si sgretola, ma
rimane intatta, come fosse una scatola di scarpe, e anche questo concetto
riporta alla mente il modo infantile di vedere le cose. Peraltro, l’immagine è
e rimane fortemente drammatica, dentro ci sono Charlot e Big Jim, che
potrebbero precipitare nell’abisso; eppure la scena è umoristica, perché è
mostrata in modo infantile. Che poi, all’interno, per cercare di salvarsi i due
si issino uno sulle spalle dell’altro, e che sia Big Jim a salire sul povero Charlot,
è un ulteriore elemento comico nel dramma: l’egoismo e la prepotenza dell’uomo,
non sarebbero ridicoli al netto della
tragedia della vita. Lo sono.
Il linguaggio usato è lo stesso che in seguito verrà
impiegato in modo massiccio dai cartoni animati e dai film di animazione; ma la
caratteristica di divertire con storie dal tono leggero, pur veicolando
immagini e situazioni drammatiche, sarà l’essenza del cinema nei decenni a
venire nella sua forma più diffusa: ovvero quella di uno spettacolo intelligente,
divertente e stimolante. La capacità di tenere insieme queste due anime, quella
umoristica e quella drammatica, è la cifra (o una delle) stilistica di Chaplin;
e di questa sublime miscela è intriso tutto La
febbre dell’oro, con le due tracce che si intrecciano sulle altre due
coordinate del racconto, quella avventurosa (la corsa all’oro) e quella
sentimentale (la storia tra Charlot e Giorgia).
La questione sentimentale è ambigua: assolve certamente il compito di grammatica (almeno al tempo) del lieto fine, e quindi, in tal senso, Chaplin ha un po’ le mani legate, ma pone alcuni spunti interrogativi. Giorgia non si reca alla festa di capodanno, lasciando Charlot in una consapevole delusione; forse che i poveri sanno che non avranno fortuna nemmeno in amore? Ma poi, nel finale, quando ritrova l’omino, la passione si (ri)accende, ma è importante notare come, attraverso una gag umoristica, si evidenzi come ella non sappia che il vagabondo ha fatto fortuna. E’ amore vero, quello della donna, e non di interesse, quindi; ma rimane anche il dato inconfutabile (o è una coincidenza?) che è soltanto avendo il potere economico che si possa conquistare l’amore. Anche il tema avventuroso veicola, in ogni caso, uno dei punti nevralgici del cinema di Chaplin, ovvero l’aspetto sociale, soprattutto in chiave economica; non è certo un caso che Charlot, come personaggio, sia un vagabondo povero in canna. E in questo episodio si dedica esplicitamente al tentativo più rapido possibile (quella all’oro era appunto una corsa) di emanciparsi economicamente.
Un’altra famosissima scena di questo lungometraggio, quella in cui appronta una cena con uno scarpone, mette in risalto proprio la precarietà finanziaria di Charlot. E il tono umoristico non smorza l’aspetto di critica sociale, anzi lo rinforza e nello stesso tempo lo ribalta: se nelle comiche del tempo era anche prevedibile ridere alle spalle di una disgrazia occorsa a qualche riccone (una sorta di vendetta sociale dello spettatore nei confronti delle classi agiate), qui ci ritroviamo a sorridere guardando un disperato che si mangia una scarpa. Ma la pantomima inscenata da Chaplin non ce lo mostra come se fosse un atto disgustoso; al contrario, la scena ci presenta il nostro alle prese con un piatto apparentemente succulento.
La questione sentimentale è ambigua: assolve certamente il compito di grammatica (almeno al tempo) del lieto fine, e quindi, in tal senso, Chaplin ha un po’ le mani legate, ma pone alcuni spunti interrogativi. Giorgia non si reca alla festa di capodanno, lasciando Charlot in una consapevole delusione; forse che i poveri sanno che non avranno fortuna nemmeno in amore? Ma poi, nel finale, quando ritrova l’omino, la passione si (ri)accende, ma è importante notare come, attraverso una gag umoristica, si evidenzi come ella non sappia che il vagabondo ha fatto fortuna. E’ amore vero, quello della donna, e non di interesse, quindi; ma rimane anche il dato inconfutabile (o è una coincidenza?) che è soltanto avendo il potere economico che si possa conquistare l’amore. Anche il tema avventuroso veicola, in ogni caso, uno dei punti nevralgici del cinema di Chaplin, ovvero l’aspetto sociale, soprattutto in chiave economica; non è certo un caso che Charlot, come personaggio, sia un vagabondo povero in canna. E in questo episodio si dedica esplicitamente al tentativo più rapido possibile (quella all’oro era appunto una corsa) di emanciparsi economicamente.
Un’altra famosissima scena di questo lungometraggio, quella in cui appronta una cena con uno scarpone, mette in risalto proprio la precarietà finanziaria di Charlot. E il tono umoristico non smorza l’aspetto di critica sociale, anzi lo rinforza e nello stesso tempo lo ribalta: se nelle comiche del tempo era anche prevedibile ridere alle spalle di una disgrazia occorsa a qualche riccone (una sorta di vendetta sociale dello spettatore nei confronti delle classi agiate), qui ci ritroviamo a sorridere guardando un disperato che si mangia una scarpa. Ma la pantomima inscenata da Chaplin non ce lo mostra come se fosse un atto disgustoso; al contrario, la scena ci presenta il nostro alle prese con un piatto apparentemente succulento.
C’è un che di politicamente scorretto (ridere di un
poveraccio), ma innegabilmente spassoso.
E più moderno di quanto si possa credere.
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