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sabato 28 luglio 2018

QUEL POMERIGGIO DI UN GIORNO DA CANI

184_QUEL POMERIGGIO DI UN GIORNO DA CANI (Dog day afternoon). Stati Uniti, 1975;  Regia di Sidney Lumet.

Quel pomeriggio di un giorno da cani racconta di una rapina ad una banca; alla base del soggetto c’è un episodio reale, occorso a Brooklyn, New York. Fin qui niente di particolare: si potrebbe posare l’attenzione sulla regia del validissimo Sidney Lumet, oppure, sulla più evidente ed eclatante interpretazione straordinariamente istrionica di Al Pacino. Ma, a parte questi prevedibili aspetti, a catturare l’attenzione è anche il tono ironico del film, quasi scanzonato: i primi istanti della rapina fanno addirittura scompisciare dalle risate. Poi il film procede, la rapina si trasforma in un assedio, la vena drammatica sale, quella leggera vira, diviene quasi sarcastica, e rimane un po’ sotto traccia. Sonny (Al Pacino) il protagonista della vicenda, non sa più che pesci pigliare: si è infilato in un gioco più grande di lui, la rapina in banca, e non ha la stoffa per uscirne. La sua incapacità nel sapere cosa fare e dove andare è rimarcata anche dalle scelte della sua vita: è sposato ad una donna, da cui ha due figli, ma si è sposato anche con un uomo, in fede al suo più proprio orientamento sessuale. Ma proprio dalla sua incapacità ad avere un quadro della situazione, ad avere una visione chiara sulle cose, Sonny riesce paradossalmente a cavarne una posizione di forza. Perché è proprio in virtù del suo stato confusionale che egli non coglie la complessità della situazione e neppure le proprie responsabilità, ma si ferma in modo opportunistico solo su quegli aspetti superficiali, e perciò lampanti, che gli possano tornare comodi per manifestare la propria insoddisfazione. In questo senso il film è incredibilmente moderno, cristallizzando un modo di ragionare che diventerà imperante nei decenni a venire. 

I richiami ad Attica, il carcere di New York  dove qualche anno prima c’era stata una rivolta soffocata nel sangue, sono evidenti di questo modo di affrontare la realtà: sono elementi fuori contesto ma risultano validi per infiammare la protesta. Va detto che lo stesso Lumet, il regista, alimenta questa corrente, perché enfatizza in modo poco credibile lo spiegamento di forze della polizia per quella che è, alla fine, una rapina, seppur con gli ostaggi. Considerando anche il fatto che poi lo stesso regista mette in campo un capo della polizia, Moretti (Charles Durning), ben disposto verso i rapinatori, e quindi in contraddizione con l’immagine istituzionale delle autorità messa contemporaneamente sullo schermo. 

Ma la grana della critica sociale di cui si fa ambasciatore Quel pomeriggio di un giorno da cani è piuttosto grossa, non vuole essere raffinata ne tantomeno troppo attendibile in modo letterale. Il pubblico che fa prima il coro alle parole al megafono di Moretti, e poi smaccatamente il tifo per i rapinatori, gli ostaggi che sembrano collaborare con i loro sequestratori, il ragazzo della pizza che si gode il suo momento di celebrità, sono tutti graffi di Lumet che si diverte a ironizzare in un quadro sociale in realtà davvero preoccupante. Se Sonny è un personaggio smarrito, ma il suo socio Sal (John Cazale) è addirittura messo peggio, nessuno nel film sembra sapere cosa fare, quale sia il proprio ruolo: non sanno che fare i rapinatori, non sanno che fare gli ostaggi (troppo collaborazionisti), non sa che fare Moretti. E quando scelgono, sbagliano: come il pubblico, che tifa per i rapinatori. Gli unici che sanno cosa fare sono gli uomini dell’FBI, freddi, calcolatori, spietati.
Insomma, Lumet sembra dire: attenta America, se ti senti un po’ confusa.
Quelli che ti controllano, non lo sono affatto





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