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martedì 3 aprile 2018

MIRACOLO A MILANO

125_MIRACOLO A MILANO. Italia, 1951;  Regia di Vittorio De Sica.

Il C’era una volta che introduce il film, sgombra subito il campo da eventuali obiezioni realistiche: si accetti quindi che la vecchina che incontriamo in avvio di pellicola coltivi un campo di cavolfiori grande abbastanza da sfamare un reggimento e che, sotto uno di questi ortaggi, venga trovato, come da tradizione popolare, il protagonista della nostra vicenda. Non saranno queste le cose meno credibili del film; o perlomeno non saranno le uniche palesemente incredibili. Non che Vittorio De Sica o Cesare Zavattini facciano qualche sforzo per renderle in qualche modo realisticamente plausibili; mannò, la scritta all’inizio della pellicola lo dice esplicitamente, è una favola. E come tutte le favole ha una morale, in questo caso piuttosto facile da leggere, perché la pellicola non usa certo un linguaggio difficile. In effetti questa è addirittura una critica che può essere mossa, a Miracolo a Milano; ossia di essere troppo semplicistico, troppo scontato. Ma forse gli autori hanno scorto che il rischio maggiore nella nostra società non è il male in sé; l’egoismo, l’arrivismo, l’invidia sono dilaganti, è vero, nella società competitiva del dopoguerra, ma c’è qualcosa di peggio. Il rischio peggiore è l’abitudine a questi aspetti della natura umana che la società del libero mercato finisce per favorire; il cinismo è forse quindi il pericolo più grosso che stiamo correndo, perché si finisce per accettare come inevitabili le scelte ingiuste dettate dall’opportunismo o dalla speculazione. E allora questo Miracolo a Milano acquista una maggiore dignità rispetto alla favoletta buonista che sembra essere all’apparenza. Nel film coesistono molti elementi tra loro contrastanti, che ci permettono di fare due tipi di confronto distinti. C’è il contrasto realistico/irrealistico, e il contrasto ricchi/poveri:  le condizioni misere dei barboni sono mostrate in modo realistico, sfruttando a proprio comodo la scuola neorealista; le scene della vecchina, ma ancora di più tutta la deriva finale con gli angeli e il volo delle scope, sono assolutamente incredibili anche per il più ben disposto spettatore.

Si crea quindi un contrasto molto netto: tanto sono credibili le scene di povertà, tanto non lo sono quelle fantastiche. Esistono decine di esempi, nel genere fantastico, appunto, in cui scene irrealistiche sono però molto credibili, perlomeno sullo schermo: si pensi ai film coi vampiri, fantasmi, ecc. De Sica invece si rivolge al surrealismo, più che al fantastico, proprio perché non vuole spacciare le sue scene per credibili: sono incredibili e devono rimanerlo sempre, senza sospensioni di incredulità temporanee. In questo senso è magistrale la scena del venditore di palloncini, forse la migliore dell’intero film, perché racchiude in sé il contrasto tra i due elementi: l’uomo è talmente povero da essere così magro che se prende in mano i palloncini vola via con loro. Ma la necessità di tenere sempre ben presente la non credibilità di certi aspetti ha una ragione, naturalmente: serve per spiegare la metafora intrinseca al doppio confronto presente nel film. 

Perché l’altro versante dei contrasti mostrati è quello tra poveri e ricchi: qui il paragone è tra due realtà, due condizioni reali, l’estrema povertà e l’estrema ricchezza sono affiancate. E la sensazione di contrasto che provocano è la stessa rispetto a quell’altro tipo di confronto, tra realismo e surrealismo: in sostanza De Sica e Zavattini ci dicono che è surreale che ci siano persone tanto ricche al cospetto di persone tanto povere. E in questo senso, il film è quindi meno scontato di quanto non possa sembrare a prima vista.   





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