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sabato 21 aprile 2018

SCIUSCIA'

134_SCIUSCIA' Italia, 1946;  Regia di Vittorio De Sica

Dopo I bambini di guardano, De Sica concentra ancora l’obiettivo della sua macchina da presa sul mondo infantile; il polivalente artista sembra quasi avvertire la necessità di uno sguardo innocente, puro e incontaminato dalle scorie ideologiche del periodo bellico. Non cerca, però, De Sica una fuga dalla realtà, tutt’altro. Già il titolo lo testimonia: Sciuscià è una storpiatura del termine Shoeshine, ovvero lustrascarpe, che era poi l’unico modo che avevano i ragazzini dell’immediato dopoguerra di fare qualche soldo, lucidando le scarpe ai soldati alleati ancora stanziati nel nostro paese. C’è quindi un rimando diretto e un’ambientazione fortemente attinente al drammatico periodo storico dell’immediato dopoguerra italiano. Autore del soggetto, tra gli altri, è Cesare Zavattini, a cui si deve lo stile della prima parte dell’opera, quella ambientata per le vie di una Roma ancora malmessa dallo scontro bellico. La macchina da presa di De Sica segue le vicende di due ragazzini, Pasquale (Franco Interlenghi) e Giuseppe (Rinaldo Smordoni) con la peculiare caratteristica del pedinamento zavattiniano. In questo senso appare anche logica la scelta di prediligere uno sguardo infantile per fare un bilancio sui resti dell’Italia disastrata del dopoguerra, in modo che risulti il più possibile neutrale, mondato da qualunque giustificazione ideologica.

L’obiettivo è centrato proprio grazie all’immersione nella vita quotidiana di questi lustrascarpe, coi loro sogni, a volte anche assurdi (l’acquisto d’un cavallo), e le loro difficoltà a distinguere il bene dal male, a fronte di una completa assenza delle istituzioni in fase di ausilio o supporto dell’individuo. In merito a tale assenza, c’è la presenza minima anche della famiglia, da sempre ritenuto storico baluardo della società italiana: Pasquale è orfano, e la famiglia di Giuseppe è fonte di guai (il fratello maggiore) o rimproveri (la madre), e soltanto la sorellina è in qualche modo d’aiuto con il suo semplice ma genuino affetto. La seconda parte del film è più cruda e drammatica, ed è ambientata in riformatorio, dove i nostri piccoli eroi finiscono in seguito di un loro coinvolgimento in alcuni traffici illeciti. 

La vita in riformatorio è sicuramente e prevedibilmente difficile ma, la cosa che lascia sgomenti, è l’evidente resa della società, che in sostanza non fa nulla per recuperare i ragazzi dell’istituto. C’è un approccio molto brutale, non nel senso delle sevizie o percosse, che non sono, per fortuna, all’ordine del giorno: l’impressione che si ricava è che i ragazzi, alcuni dei quali ancora molto giovani, siano considerati già irrecuperabili, senza speranza. E questa sfiducia delle istituzioni per soggetti ancora in tenera età, finisce per far male anche più delle inaccettabili cinghiate che il povero Pasquale deve subire, in seguito ad una ingiusta accusa di tentata evasione

Il finale è tragico, il più tragico che si potesse immaginare, perché concretizza quelle nefaste previsioni: non c’è futuro per questi ragazzi, a cui la nostra società nega ogni speranza o fiducia. De Sica è bravissimo, perché mette in scena questa tragedia senza scadere nel sentimentalismo spicciolo, e se il copione paga qualche ingenuità, lo si può perdonare in un computo generale di un’opera tanto rilevante.





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