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martedì 17 aprile 2018

REBECCA, LA PRIMA MOGLIE

132_REBECCA, LA PRIMA MOGLIE (Rebecca). Stati Uniti, 1940;  Regia di Alfred Hitchcock

Prima opera americana del regista inglese Alfred Hitchcock, Rebecca, la prima moglie, un po’ a sorpresa, aspira dichiaratamente ad essere in tutto e per tutto un film inglese. Almeno stando alle ambizioni della produzione, capeggiata da quel David O. Selznick che con Via col vento era divenuto il re Mida di Hollywood. Proprio il successo del film di Victor Fleming aveva infatti convinto il vulcanico produttore che, nell’adattamento di un romanzo famoso, ci si debba attenere il più possibile ad esso. E qui cominciano i contrasti con Hitchcock, il talentuoso regista britannico ingaggiato per la regia, giunto ad Hollywood dopo i brillanti risultati ottenuti in patria; risultati che ne avevano sancito uno stile assai personale e autonomo da qualsiasi interferenza, almeno fino al precedente lungometraggio. Perché l’impostazione generale di Rebecca- la prima moglie rivela invece la matrice del produttore, visto che l’adattamento proposto da Hitchcock, non troppo fedele al romanzo, era stato scartato. C’è quindi una certa analogia tra questi presupposti e la trama del film: un elemento di novità viene introdotto in un ambiente di rango più elevato, i cui codici e regole ne tarpano le possibilità di espressione. Naturalmente è un caso che ci sia questa similitudine, perché di certo il regista non si sarebbe mai visto nei panni della Joan Fontaine protagonista di Rebecca- la prima moglie; però è una coincidenza curiosa e, forse questa non del tutto gratuita, una certa somiglianza tra Hollywood e Manderley si può cogliere. Il film è quindi una riproposizione in forma cinematografica del premiato romanzo omonimo della scrittrice Daphne du Maurier e, apparentemente, ne rimane abbastanza fedele, a parte qualche dettaglio. Uno di questi è legato all’incidente di Rebecca, la cui morte, pur se fortuita, nel romanzo ricadeva maggiormente sulla responsabilità del marito, Maxim de Winter (Laurence Oliver). Se è possibile ipotizzare che Hitchcock avrebbe volentieri eliminato l’elemento fortuito a favore di una maggiore e più diretta responsabilità del marito, il Codice Hays costrinse il regista a rimanere addirittura più vago, nella circostanza. 

Il lieto fine previsto tra Mister de Winter e la nuova moglie non era infatti assolutamente conciliabile con la colpevolezza dell’uomo. Questi dettagli possono dare l’idea delle difficoltà incontrate da Hitchcock nella sua prima prova americana: da una parte un produttore onnipotente e onnipresente come Selznick, fresco del successo di Via col vento e fermamente convinto che l’adattamento del romanzo dovesse esserne il più possibile fedele; dall’altra le feroci pastoie della censura del Codice Hays. Detto questo, il regista inglese riuscì comunque, e in modo impeccabile, a mettere il suo marchio sulla sua prima opera hollywoodiana. Il film ha una struttura composta: c’è un sogno che funge da prologo, una prima parte ambientata a Montecarlo, una seconda in cui la lussuosa residenza di Manderley assurge a protagonista, e una terza con le indagini finali.  

Il prologo potrebbe sembrare una sorta di presentazione: siamo calati in un sogno lugubre, immerso nella nebbia e nell’oscurità che sfuma nel flashback che dà avvio alla storia. La residenza mostrata è una dimora da incubo, degna di un film dell’orrore: ma forse si tratta di una falsa pista, visto che l’incipit della storia vera e propria, ovvero l’incontro tra la ragazza protagonista e il suo principe azzurro, avviene nientemeno che a Montecarlo. Lo stacco è sfumato, in verità, perché la prima scena della Costa Azzurra non è certo idilliaca: le rabbiose acque del Mar Mediterraneo sembrano aver ipnotizzato e ammaliato Max de Winter che si staglia immobile e pericolosamente quasi in bilico sul ciglio del precipizio. Comunque sia, la prima fase, quella dell’innamoramento tra la futura Mrs. de Winter e l’aristocratico uomo rientrerà nei ranghi di una classica storia d’amore, con risvolti anche umoristici ai danni della Signora Van Happer, la matrona presso la quale la ragazza era al servizio. Il dubbio che il preambolo e la scena dell’ipotetico tentato suicidio sulla scogliera non siano attendibili tracce, può venire, perché tutto sembra filare per il verso giusto. Eppure c’è sempre qualcosa che stona, anche nella romantica storia d’amore: Joan Fontaine è molto brava a suggerire i timori di una ragazza a cui capita qualcosa fuori dalla portata dei propri sogni, e il suo volto esprime continuamente moti di incertezza tra desiderio e timore. 

E anche gli sbalzi di umore, gli scatti ombrosi di de Winter non lasciano del tutto tranquilli: qualcosa ribolle sotto l’apparente romantica love story. Finalmente si arriva nel corpo centrale della storia, ambientata in quella che per certi versi è la vera protagonista dell’opera, la residenza di Manderley. Qui tutti i timori suggeriti dall’inizio del film e non smentiti del tutto neanche nella fase monegasca, trovano libero sfogo. La ragazza, di cui per tutto il film non si farà mai il nome, appare ora visibilmente più turbata, a fronte dell’imponenza delle sue paure concretizzatesi nell’edificio dimora dei de Winter. Manderley è enorme, con saloni e camere da sogno, sfarzo, lusso, ma anche regole, codici di comportamento, con un impatto tale da intimidire ulteriormente la novella sposa. A completare l’opera, la presenza di due fantasmi. Il primo è uno dei protagonisti del film, al punto di meritarsi l’onore del titolo: Rebecca, la prima moglie di Max de Winter. La presenza di Rebecca, una donna bellissima, di grandissima classe e dal fascino irresistibile, permea ancora la residenza e tutti gli abitanti, e il confronto con il suo inarrivabile charme schiaccerà ulteriormente la nuova signora de Winter. Qui la Fontaine si supera: i tantissimi primi piani che le regala il giovane maestro inglese ne colgono le mille emozioni che percorrono il viso, e l’attrice è bravissima a mostrare un’ingenuità d’espressione di rara efficacia.  

Dicevamo come curiosamente della ragazza da lei interpretata non si faccia mai il nome: come dire che non è nessuno; di contraltare, la presenza di Rebecca sarà opprimente per il riflesso in ogni dettaglio, ogni ricordo, ma nel film non vi sarà mai un’immagine che ne mostrerà le sembianze fisiche. D’altra parte abbiamo detto essere una sorta di fantasma, e i fantasmi si sa, sono incorporei. Beh, non è del tutto vero; è così nella tradizione, e Rebecca esprime l’ideale di fantasma, beninteso come presenza incombente. Ma Hitchcock ci regala un altro fantasma, di natura più cinematografica e quindi fisica, solida, filmabile insomma. E’ la governante, la terrorizzante Mrs. Danvers che nel film appare e scompare silenziosa; si muove, ma quasi senza camminare, come fosse una presenza sovrannaturale. Forte di questa sua aurea maligna arriva quasi fino ad indurre la nuova padrona di casa al suicidio. Se Manderley è un santuario, Rebecca ne è la divinità e la Danvers il sommo sacerdote. A fronte di una simile triplice alleanza, la situazione per la nuova Mrs. de Winter appare disperata, e anche il periodo felice prima dell’arrivo a Manderley finisce per apparire flebile come il filmino della loro luna di miele che in effetti si rompe durante la proiezione. Ma la ragazza è insospettabilmente tenace, non si perde d’animo e prova il tutto per tutto per prendersi Manderley: il tranello della Danvers manderà all’aria i suoi piani, nel modo più subdolo, ma un ulteriore colpo di scena rimescolerà di nuovo le carte, che a quel punto sarebbero state assai brutte per la nostra giovine eroina. Ci si trova così nella parte finale della storia, quella con l’indagine di tipo investigativo con tanto di una sorta di processo. 

Ora il dubbio assale non solo la nostra povera ragazza ma anche lo spettatore: è colpevole Maxim de Winter oppure no? Nel racconto che l’uomo fa alla moglie, dovremmo dedurre di no, e così in effetti sarà; ma Hitchcock gioca non solo con gli spettatori, ma anche con i censori del codice Hays e li tiene sulla corda… che l’uomo abbia mentito e sia caduto vittima dell’ultima crudele trappola di Rebecca? La questione è infatti importante non solo per soddisfare la curiosità dello spettatore, ma anche perché da un piccolo particolare (Rebecca è caduta e ha battuto la testa, o è stata spinta da Max?) dipende anche il quadro morale dell’intero film. Oltre due ore di pellicola, appese a questo dettaglio: e mentre ci si interroga, ci si scopre a fare il tifo per quello che potrebbe essere un assassino, nello scontro finale che a Maxim oppone Jack Favell (Geroge Sanders), suo accusatore, nonché suo tentato ricattatore e, in precedenza, amante (e cugino) di Rebecca. Un individuo simpatico ma al contempo viscido, che per alcuni momenti, assume ipoteticamente un ruolo più onesto di de Winter: le sue colpe sono lievi al confronto di un omicidio e, se non altro, Favell non si spaccia per galantuomo, dimostrando maggior coerenza del rivale. 

Questa terza parte assume così una funzione di valutazione finale dell’opera, quasi fosse un commento essa stessa al film, più che il suo epilogo. L’ambiguità di Maxim, che sa di essere innocente ma teme di essere colpevole, o comunque condannato, ha la stessa matrice dei timori della seconda signora de Winter al cospetto con Manderley. Il lieto fine sembra dirci che l’unico modo per uscirne è affrontare ma  soprattutto superare il passato, che sia un cadavere che torna a galla o un’accusa di omicidio. Ma tutta la pellicola precedente ci ha diffidato dal fidarci delle apparenze. A partire da quelle più legate alla storia: Maxim sembrava adorasse Rebecca, invece la odiava; Rebecca veniva descritta come impeccabile invece era una donna immorale; la storia d’amore del film sembrava la fiaba di Cenerentola, ma si era trasformata in un incubo; si pensava che Rebecca fosse incinta, e invece aveva un cancro. 


E lo stesso potrebbe dirsi rimanendo su temi più generici: il mare, abitualmente simbolo di vita, diveniva in questa storia minaccioso custode della morte e la casa, da sempre rifugio sicuro, ora si presentava come luogo angosciante e terrorizzante. Sulla stessa falsariga potremmo valutare quindi il verdetto finale nei confronti di Maxim: un primo ribaltamento c’era già stato quando, ritenuto innocente, era sembrato colpevole dopo il ritrovamento del vero corpo di Rebecca. Il successivo contro ribaltamento, grazie alle parole del dottore sulla malattia di Rebecca, rimetteva l’uomo in bilico: era caduto nella trappola della diabolica donna, o ci era andato solo vicino e poi era soggiunta la sorte? Se in questa storia l’inganno era sempre in agguato dietro l’apparente certezza, qui era ancora più difficile capire dove potesse trovarsi, perché era già ambiguo ciò che si palesava come certo. Ma lo scartamento provocato dalle rivelazioni finali era altrove, e non nella colpevolezza o innocenza di Maxim; l’immagine di perfezione di Rebecca ora era davvero perduta, e a Mrs. Danvers non rimaneva che distruggerne Manderley, il santuario a lei dedicato.
Il rogo purificatore della residenza finiva così per benedire l’unione dei de Winter, con Maxim abbracciato alla sua giovane sposa, aggrappato a quella innocente ingenuità. 
Già, l’ingenuità: l’unica forza in grado di superare tutte le meschinità e bassezze di Manderley.


Joan Fontaine





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